diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 11 - 2012

Cosa nutre un movimento

Una strana coppia

L’uno non prescindeva mai dall’altro, andavano sempre insieme in certo senso, una coppia che pareva inossidabile. Roberto e Franco costituivano l’opzione delle nostre serate: si va da Franco o da Roberto? ci si chiedeva incontrandosi nei pressi di via Zamboni. Per il pranzo ci si arrangiava con la mensa di via Belmeloro, che si apriva su piazza Verdi, e lì l’appuntamento era inequivocabilmente ai cazzi, come venivano assai poco rispettosamente chiamate le due sculture di Giò Pomodoro che troneggiavano sulla piazza e che sarebbero state colorate e trasformate di lì a qualche anno in totem, dall’onda del Settantasette.

Stasera, da Franco! si commentava uscendo affamati dalla mensa, dopo aver lasciato la carne, talvolta ai limiti del commestibile, nel piatto. Meglio da Roberto, incalzava allora qualcuno, perché c’era sempre chi era pronto a sostenere che dall’uno si mangiasse meglio che dall’altro, o viceversa. Uno dei due fa lo stesso, concludevano i più concilianti, retti dalla inoppugnabile constatazione che il cibo era praticamente lo stesso.

Le tagliatelle burroeoro erano il primo più gettonato, e chi non era di Bologna aveva all’inizio pensato di trovarsi del burro fuso sulla pasta anziché quel semplice pomodoro cui l’abbreviazione alludeva, ma andava bene anche così, che tanto una noce di burro veniva comunque adagiata a suggellare il piatto e ci si sentiva già più sazi nel vederla. Per andare sul sicuro non ci si addentrava in secondi su cui il basso costo avrebbe fornito ben poche garanzie e quasi tutti si orientavano sul classico della paillard, nell’opzione con patate fritte, oppure con purè, che non era niente male per quel retrogusto di noce moscata che si riusciva a intuirvi. Bietole saltate per gli stomaci delicati.

Da Franco stava in via Petroni e lo si scopriva subito, bastava bazzicare nella cittadella dell’università, anche solo per andare alla mensa, mentre Da Roberto era un po’ discosto e sarebbe occorso andarselo a cercare, se qualcuno non ti avesse avvisato subito, neanche il tempo di metter piede nell’altro, che c’era anche questo, e un altro aggiungeva allora che era anzi meglio, e sempre una voce da qualche tavolo vicino si alzava a precisare che era giusto l’inverso. Speculari per prezzo, menù e servizio, le due trattorie per studenti – c’erano solo studenti nelle affollatissime ore di punta – erano in realtà simmetriche anche nella collocazione, l’una su un lato e l’altra sull’opposto di un tracciato che da piazza Aldrovandi arrivava al viale dell’Indipendenza: lasciata via Petroni all’incrocio con la pullulante via Zamboni, si proseguiva costeggiando il teatro comunale e all’altezza di via delle Belle Arti, piegando un poco verso il cinema Contavalli, si arrivava in un batter d’occhio da Roberto.

Stavano su un percorso che si imparava tra i primi, visto che congiungeva la stazione all’università. Altri si sarebbero delineati col tempo, qualche volta perfino sbalordendo per una semplicità che aveva tardato tanto a mostrarsi, pur essendo così a portata di mano. La trama a raggiera della città, in cui non si perde neanche un bambino, aveva lasciato perfino un poco di sconcerto agli inizi in chi si era mosso sempre dentro la struttura a croce romana di Verona. Il nuovo che sarebbe stata Bologna, gli anni della giovinezza a Bologna, aveva fatto capolino attraverso queste vie che parevano confluire tutte l’una nell’altra, rendendo vicini luoghi che chi non era pratico si era figurato lontani. Così che tutto sembrava prossimo e a portata di gambe e si coprivano distanze anche lunghe a piedi, sempre camminando e disdegnando gli autobus gratuiti che l’amministrazione offriva generosamente agli studenti. A Gloria, che studiava Filosofia, questa mappa della città aveva suggerito l’idea che ci si potesse abbandonare ai pensieri, lasciando la mente libera di percorrere strade anche tortuose, senza la preoccupazione di perdersi. Così che andava spedita sul piano delle idee, ma non altrettanto per le vie della città, dato che l’orientarsi con agio nello spazio non è stata mai una sua dote. In quei primi mesi di università procedeva infatti riparata, muovendosi solo nel reticolo delle poche vie che aveva conosciuto appena arrivata, come il tragitto tra le due trattorie, a un tiro di schioppo dalla stanza in affitto di via Mascarella, badando a non uscire dal seminato.

Il segreto del successo di Franco e Roberto, un segreto che era sotto gli occhi di tutti, erano le ottocento lire del pasto, che riuscivano a fare concorrenza alle cinquecento della mensa, e vuoi mettere la differenza! Intanto si evitavano le code interminabili all’aperto, anche se magari non si trovava subito posto neanche lì e toccava qualche volta stare ad aspettare che si liberasse una sedia a un qualche tavolo. Poi il cibo, che non era granché, certo era niente male confrontato con la qualità scadente dell’altro, e trecento lire erano un lusso che quasi tutti si potevano di tanto in tanto permettere. Se qualcuno, di bocca buona e robusto appetito, non ci avrebbe messo piede neanche per idea, non era infatti per il supplemento di prezzo, quanto per la scarsità delle porzioni, di sicuro più snelle di quelle della mensa. Ma anche questo faceva parte della magia della tavola, cui il non uscire mai davvero sazi conferiva un impercettibile lustro di nouvelle cuisine.

“Se penso a quel primo anno a Bologna, da un’affittastanze senza uso di cucina, è proprio quel perenne senso di non sazietà ad affiorare per primo tra i ricordi, tanto che in quell’anno accademico il mio peso è sceso ben al di sotto dei suoi minimi storici.”

“Ricordo di giorni in cui si risparmiava anche sulle cinquecento lire della mensa. Se devo dire io non stavo poi così tanto alle strette. Ricordo la domenica sera, mentre mi preparavo alla partenza, quando compariva mio padre già in pigiama e mi metteva in mano una paga settimanale da fare invidia a qualsiasi studente di quei primi anni Settanta. Mia madre aggiungeva a quel punto un contributo del suo, nel caso mi venisse, delle volte, voglia di qualche extra, che so, una cena al ristorante…”

“Mio papà era ogni volta perplesso sulle diecimila lire che mi consegnava, incerto se ci si potesse vivere una settimana. Ma io ero categorica, nulla più del necessario, cioè i pasti alla mensa e un tascabile in soprammercato. Sì, un’indipendenza dalla famiglia a modo mio, bizzarra, pensata unicamente sul dipendere al minimo in fatto di denaro, e sempre quel languore allo stomaco…”

“Invece per me spendere per mangiare era pura stupidità. I soldi li si doveva risparmiare per i libri, i cinema e qualche viaggio a trovare un’amica.”

Marina era infatti in contestazione permanente con la famiglia, che giudicava di mentalità borghese e tradizionalista, e la sua ribellione si rifletteva su tutti gli aspetti della vita, così che anche il rapporto con il cibo ne risentiva. Dal momento che i suoi genitori erano convinti estimatori della buona tavola, tanto da essere iscritti all’Accademia della cucina, per lei il cibo non rappresentava altro che una seccatura a cui si doveva sottostare per vivere, ma per la quale non voleva sprecare né soldi né attenzione. Dunque, tranne qualche puntata da Franco o da Roberto, per sfuggire all’infernale coda della mensa, non c’era spazio per lussi alimentari nella sua vita e cercava anzi di risparmiare perfino sulla mensa, riducendo certi giorni la dieta a due uova al tegamino, cucinate nel monolocale che divideva con Emanuela. Una volta in cui si era addirittura dimenticata per due giorni di mangiare, con lo stomaco vuoto e la testa che le ronzava per la debolezza, era capitata, a un’ora imprecisata del pomeriggio, al bar di un rinomato ristorante di fianco al cinema Odeon, quello delle matinée, dove non aveva ovviamente mai messo piede prima di allora, e anziché un cappuccino in piedi al banco, aveva ordinato una tazza di consommè, che le costò ben più di un pranzo alla mensa universitaria.

“Dato il perenne appetito, al momento di mangiare – rigorosamente ora pranzo e ora cena, nessuna accondiscendenza per i fuoripasto – optavo sempre per il piatto più sostanzioso, che da Franco e Roberto erano incontrovertibilmente le tagliatelle burroeoro, e per questo pressoché tutti le preferivano alla gramigna… quel formato di pasta che aveva nome gramigna e stava sempre sui menù delle trattorie, come anche della mensa, e pareva essere una prerogativa della città. Niente di che, a dire il vero… Quello che mi conquistò da subito, in fatto di cibo, sono state invece le brioche salate a colazione, sempre proposte accanto alle dolci in qualsiasi caffè di Bologna, perfino nel bar sopra la mensa, dove andavo ogni santa mattina di quel primo anno, perché dalla Zambelli non si poteva farsi neanche un caffelatte, e via Mascarella era lì nei pressi.”

“Dov’è sparito, quel bar? Ricordo vagamente di esserci stata qualche volta, agli inizi, poi se ne sono come perse le tracce. D’altronde il mio rapporto con i bar di Bologna non è stato così abitudinario come quello con la mensa. Dopo un brevissimo periodo di veloci colazioni al Maggiolino, un anonimo caffè che stava dietro casa, arrivò il tempo del bar del Guasto, accanto agli omonimi giardini di cemento, il cui proprietario non protestò mai per le innumerevoli sigarette con cui gli affumicavamo il locale e per i tempi lunghissimi in cui stazionavamo agli unici due tavolini del bar.”

“La colazione era davvero l’unica attrattiva della mensa e i croissant salati erano una delizia, tanto che ho continuato ad andare qualche volta anche dopo che ho affittato con altre un appartamento e se ne sarebbe andato definitivamente il vuoto allo stomaco di quel primo anno fuori casa. Per poco, però, perché le sale del bar, come anche quelle della “musiteca” al primo piano, sono state in breve tutte incorporate nella mensa, utilizzate nel boom delle iscrizioni per l’ampliamento dei locali, e a fare funzione di bar vennero appostate le insulse macchinette.”

La nostra generazione è stata infatti sempre nell’occhio del ciclone demografico, dalle elementari sovraffollate e con turni pomeridiani ai licei che si andavano ramificando di sedi staccate nei posti più improbabili. E poi code lunghissime all’università e non solo nei cortei, ma anche per mangiare, per iscriversi o consegnare un piano di studi in segreteria. Anche ora, del resto, si tratterà a un certo punto di fare code infinite per andare in pensione.

Marina aveva scelto la città più che la facoltà. La sua decisione di iscriversi a Biologia le aveva offerto un buon pretesto per trasferirsi a Bologna, dato che era certo la città più prestigiosa per quel corso di studi.

Bologna aveva due prerogative che la facevano un posto desiderabile per vivere. Pur essendo a poco più di un centinaio di chilometri da Verona, il binario unico, che era all’origine di tempi dilatatissimi di viaggio, faceva sì che fosse impossibile fare la pendolare fra le due città, mentre studiando a Padova qualche rischio lo si correva. Il cambio di regione, poi, ne aumentava la distanza psicologica. Ma l’attrattiva principale di Bologna, quella per la quale si incaponì di volerci andare a tutti i costi a studiare, era che fosse una città comunista!

Si guardò però bene dal lasciar trasparire in famiglia il vero motivo della sua preferenza e anzi si stupì quando suo padre accettò di buon grado che fosse Bologna la città prescelta, perfino sbalordita quando lui dette per assodato di cercare una stanza nella zona universitaria anziché in un convitto religioso, come se anche nella sua mente non si potesse collegare la città di Bologna con l’esistenza delle suore.

“C’è da dire che noi saremmo state ruvide come carta vetrata con la famiglia comunque, anche se i nostri non fossero stati quei tradizionalisti che erano. Fossimo incappate in genitori progressisti sarebbe stato lo stesso, o perfino peggio. Ricordo bene l’insofferenza per la madre di un’amica, che le voleva a tutti i costi rifilare la pillola. Tu, d’altronde, Marina, la volta che i tuoi ti volevano iscrivere a una scuola che usava i moderni metodi Montessori, tanto hai fatto e tanto hai detto finché sei riuscita a farti trasferire in un istituto di suore…”

“Certo, è una sorta di fatale destino quello di non trovarmi mai d’accordo con i genitori, nemmeno quando a tre anni avevano scelto, per me, la modernità.”

Era quanto di meglio offriva allora il mercato in fatto di asili, la prestigiosa scuola Montessori di Milano, dove i bambini potevano giocare, danzare, manipolare oggetti, prendere confidenza con piccoli animaletti, essere liberi di esprimere talenti e virtù. Marina aveva però subito boicottato la loro scelta, inscenando un’opposizione fatta di urla e pianti, tanto che al terzo giorno di quella rivolta, nonostante avessero già pagato la retta per tutto l’anno e già comprato la divisa della danza, tutina e scarpette di raso rosa, si erano rassegnati a ritirarla dall’Istituto. Bisogna dire che fu grande quindi il loro stupore, quando ebbe pieno successo l’inserimento della bambina all’asilo Immacolata Concezione di via Elba, un istituto dove le suore applicavano metodi educativi collaudati da secoli, nei quali i rimproveri venivano impartiti con metodo ed era tollerato perfino qualche scappellotto.

“Vedi bene che…”

“Sì, la mia avversione per suore e preti era, quel primo anno a Bologna, cosa piuttosto recente, che andava di pari passo con la scoperta di un mondo diverso, nel quale si amalgamavano stimoli vari, ideali che spaziavano dalla fede comunista all’attrazione per il mondo hippy, passando per la poetica della beat generation, che già era stata compagna di lunghi pomeriggi del liceo.”

Nei primi anni Settanta, a Bologna, non si pensava di certo a suore e santi, e perfino quei tesori d’arte che possono essere le chiese, non avevano su di noi un granché di attrattiva. Vicino all’Università, poi, c’era quella chiesa dei Servi, alla fine di piazza Aldrovandi e già su Strada Maggiore, che pareva proprio un esempio tipico della cupezza bolognese in fatto di chiese. Un chiostro aperto sulla strada, magari anche suggestivo, ma privo del silenzio e del raccoglimento che ci si aspetterebbe in un luogo come questo, e poi una chiesa buia, ma proprio buia, come è difficile vederne in giro per l’Italia.

Noi però si andava in giro per altri itinerari, e solo si cercava con lo sguardo la Madonna di San Luca, alta sul colle, quando si arrivava in treno, perché vederla voleva dire essere arrivati a Bologna. Ed era subito un conforto. Anche dopo finita l’università, ogni qualvolta ci torna Gloria guarda fuori dal finestrino del treno, in dirittura d’arrivo, mentre è magari assorta nei pensieri e ancora le capita di sentirsi, a un certo punto, rasserenata, e se osserva meglio vede ergersi sul colle il santuario di san Luca, già comparso e registrato dentro di lei prima che il suo sguardo l’abbia ancora messo a fuoco.

Allora non l’avrebbe confessato neppure a se stessa, ma un po’ si sentiva sperduta nella nuova città, anche se girava baldanzosa e mai si era sentita così protagonista della sua vita. Trovandosi nell’occorrenza di un regalo importante da fare, orientatasi sulla cancelleria Gloria aveva battuto in lungo e in largo, ma invano, gli itinerari noti del centro alla ricerca di un onestinghel. Senza che nessuno degli interpellati capisse bene cosa stesse chiedendo e senza che lei si capacitasse del tutto che una grande città come Bologna mancasse di questo tipo di negozi. A Verona, c’erano infatti le comuni cartolerie e i due negozi di Onestinghel, altamente specializzati e dove si andava per acquisti di riguardo, e mai per un momento le era venuto il sospetto che quel nome, che la sua mente aveva una volta classificato tra i comuni, potesse essere in realtà un nome proprio, anzi il cognome di una famiglia.

Per questo, per rendere più soft ma anche meglio definito il passaggio da una città all’altra, da una situazione all’altra, aveva prediletto da subito i treni locali. Più lenti dei diretti e degli espressi, offrivano l’indubbio vantaggio di essere anche poco affollati, così che si poteva affondare la testa nel tascabile, meritato trofeo di un’oculata amministrazione finanziaria, e farsi cullare da quel rumoroso dondolio.

Il parco della Montagnola, una piccola collinetta che sovrasta la piazza VIII Agosto, al centro della città, fu uno dei primi itinerari percorsi da Marina, che lo attraversava ogni fine settimana per raggiungere, dal suo monolocale in via Bertoloni, la stazione dei treni. Allora come adesso la piazza VIII Agosto si animava il venerdì e il sabato, per la presenza di un famoso mercato chiamato “la Piazzola”. Un pezzo di questo mercato era collocato proprio ai piedi della Montagnola ed era riservato all’usato. Vi si potevano trovare ogni sorta di camice colorate, jeans, eskimi e tascapani militari, che si portavano a tracolla nelle aule dell’Università.

L’usato aveva un’aria piuttosto esotica, provenendo in gran parte dall’America. Più variopinto ed extralarge delle magliette che si vendevano dall’altra parte della Piazzola, in tinta unita e aderenti sui fianchi, faceva sognare di spazi aperti e libertà. Marina non si era mai sentita così bene come da quando indossava quelle giacchette gialle e nere e le camicie verdoline da trecento lire che prelevava fra gli stracci dell’usato. I capelli – aveva smesso di pettinarli – le erano cresciuti e le ricadevano in boccoli disordinati. Avere abbandonato i cappotti di loden e i pantaloni di ottima taglia che le comprava sua madre non era stato troppo difficile. La moda giovanile era perentoria: jeans ed eskimo erano la divisa degli studenti. Più duro era stato portare in famiglia quegli indumenti colorati, “ti vesti con le camice dei morti” aveva brontolato sua madre. A quei discorsi, Marina visualizzava gruppi di giovani partire per il Vietnam e si sentiva parte di un mondo che cominciava proprio in quegli anni a turbare i cuori.

Tra le molte parole che sarebbero state di lì a poco sulla bocca di tutti, creando legami e aprendo a quelle appartenenze tipiche di quello che sarebbe stato il movimento del Settantasette, una iniziò a serpeggiare timida ma decisa tra le prime, e fu quella di prezzo politico. In tempi di inflazione e rialzo dei prezzi, la convinzione che il costo di servizi di base come il mangiare dovesse rimanere inalterato per gli studenti, s’impose alla stregua di un assioma.

Fu proprio il prezzo politico della mensa a spazzare via in breve tempo le due trattorie, in coppia com’erano prosperate. Mentre il prezzo della mensa boccheggiava per salire, e in alcune città era anzi pressoché raddoppiato, la contestazione studentesca impose una sorta di calmiere, così che nella città di Bologna esso rimase invariato, fermo alla quota cinquecento di molti anni prima, e rispetto a quelle cinquecento lire nella seconda metà dei Settanta non ci fu proprio più verso, per Franco e Roberto, di stare in concorrenza. E chiusero definitivamente i battenti.

                                                                                                                                                        (Aprile 2012)