diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 3 - 2004

Presente Remoto

Una rimozione storica

 

“Il linguaggio non è mai neutro” ci ha insegnato Luce Irigaray[1]. E questo appare evidente, anche stando alla lettera. Faccio l’esempio più diffuso: quando si intende parlare di genere umano, filosoficamente inteso come categoria di esseri umani, generalmente si dice ” l’uomo”. ” I pensatori ci avvertono subito che quest’ “uomo”, inteso filosoficamente, include anche la donna. Certo la include. E’ questo il punto. Perché questa inclusione, che in realtà è un’esclusione? Cosa rende ovvia questa dimenticanza, questo colossale lapsus? Che cosa ha impedito, nel tempo, l’adozione stabile di un termine che esprimesse l’intera categoria degli “esseri umani” e ne accogliesse entrambi i generi? E’ innegabile, si prova e si riprova a girare i concetti, le frasi, ma il linguaggio opera sempre spostamenti, volge al maschile: non è stato facile diventarne consapevoli. E’ un capogiro, una improvvisa vertigine: siamo di fronte a un ritardo della coscienza, a una rimozione storica, a una forma d’esclusione così grande da costringere le donne ad alzare la mano per esprimersi con lo stesso linguaggio che le nega.

Sì, dev’essere stato difficile scrivere per le poetesse inglesi dell’Ottocento che troviamo in questa antologia. Come potevano dire di sé passando per una lingua piena di lapsus? Quella lingua strappata continuava a stabilire per loro le regole d’un discorso ch’era altrui, e in questo modo le ammutoliva. Come hanno fatto a parlare? Hanno potuto parlare perché c’era un’identità femminile da riconoscere e da governare per non arrivare a comportarsi come il peggiore degli uomini. Hanno potuto farlo perché c’era un malessere comune da illuminare. C’erano un pubblico e un privato da ricucire, c’erano classi da rompere.. spazi da guadagnare. Sotto tanta pressione, gli argini del linguaggio che veniva loro imposto cominciavano a dar segni di cedimento e si poteva tentare di prendere la parola.

Le poetesse inglesi dell’Ottocento hanno cominciato a scrivere, numerose, hanno reinterpretato gli archetipi romantici, li hanno irrorati di lingua materna dando così alla luce una poetica “differente”, ancora oggi poco conosciuta e generalmente ancora considerata “minore”.

Ora l’impressione è di essere a buon punto: siamo di fronte a poesia scritta da donne che suona
inequivocabilmente diversa dalla poesia fatta da uomini. In cosa consiste questa differenza? La tentazione è di andare alla ricerca di ciò che unisce.

E’ una tentazione legittima, ma i due poli della relazione, abbiamo visto, non sono sullo stesso piano, e succede che il polo più basso, risale nell’altro, e risalendo in parte ne svanisce. Appare subito chiaro: anche in poesia non è ancora il momento di cercare ciò che unisce, meglio fermarsi un attimo a mettere a fuoco la differenza, far emergere gli elementi propri di ciascun genere e cominciare a comprenderli.

Sì, le poetesse inglesi dell’Ottocento, anche le più sconosciute, hanno certamente messo in moto qualcosa che ha molto a che fare con me, poetessa sconosciuta del novecento. Si tratta di qualcosa che va oltre la poesia.. qualcos’altro che condividiamo… Qualcosa, certamente, ma cosa?

 

L’introduzione di Lilla Crisafulli[2] ci mette sulla strada giusta. Ci avverte: c’è un problema femminile legato alla separazione tra corpo e spirito, natura e civiltà, tra pubblico e privato.
C’è anche un problema legato alla Giustizia – ch’è pubblica- da un lato, e il problema dell’Amore – che è inteso come privato – dall’altro.. (E a noi, viene da dire: perché Giustizia e Amore non possono andare insieme?) C’è un problema sociale e uno esistenziale..

Sì certo, c’è un problema politico e sociale… queste poesie lo dicono. (Penso a I dolori di Yamba o il Lamento della donna negra di Hanna Moore oppure al Poema sulla mancanza di umanità della tratta degli schiavi di Anne Cromartie Yersley). C’è la fabbrica, ci dice Letizia Elisabet Landon., c’è la fabbrica che “è una cosa maledetta”, è vero. Ma c’è, attraverso il lavoro nel luogo maledetto, un ruolo visibile da conquistare.

C’è un problema “esistenziale”. Ci sono l’arte, la poesia, la letteratura. C’è un problema di codice da usare, non per essere ammesse, ma solo per poter sperare di entrare. Ci sono dei divieti, dei tabù. C’è un bisogno di riconoscimento atavico (Penso a Mary Tighe, che nell’introduzione al poema Psiche chiede di essere perdonata per aver fatto ricorso a un argomento non opportuno, a una tradizione letteraria troppo “alta”). C’è da rompere il silenzio su argomenti ritenuti poco interessanti: la casa, piccoli, il pianto dei bambini. c’è da dire la propria idea su apparenza e verità, su pensiero e nutrimento. C’è silenzio sul domestico, sull’alchimia delle sostanze, sul rapporto femminile col divino, sul contatto con la natura, sui mormorii tra le quattro mura, sulla potenza della madre (Penso a L’immagine di Dio di Elisabeth Barrett Browning o a Le tombe di una casa di Dorothea Browne Hemans o ancora a Il corvo e i passerotti di Mary Ann Lamb o la sua Tra i fiori vivi e allegri).

Sulla scia di tutto questo è nel Novecento che assistiamo all’emergere diffuso di una linea di
pensiero forte e originale che ci arriva da Simone Weil, Hannah Arendt. Maria Zambrano, Etty Hillesum, Edith Stein. e in poesia da Silvia Plath, Marina Cvetaeva, Nelly Sachs e dalle altre tante voci che per ora restano sommerse, ma presto emergeranno.

Questo piccolo “gruppo” di menti eccellenti protette dalla loro stessa eccellenza, ha espresso un sentire femminile impossibile da trascurare, ha saputo fare della propria posizione marginale il centro del proprio pensiero, la fonte della propria ispirazione. Leggere le opere di queste pensatrici equivale a imparare a leggere il mondo da un’altra angolatura, creare continuità, commisurarsi al loro pensiero, nutrirsene, trarne vantaggio diretto così come si è tratto nutrimento dalle madri.
“Cosa unisce la tua poesia, alla poesia femminile dell’Ottocento?” Questa è la domanda da cui è nato questo scritto, “E’ questo, appunto, è la figura della madre” rispondo “La figura materna è il primo elemento che mi unisce alle poetesse dell’antologia”. Si tratta di una madre intesa come donna di prima. E’ una donna reale e precedente, figura che nel bene e nel male, può – da vicino- radicare nella Storia perché lei, nella Storia, c’è già stata, anche se non vista.

E’ una madre molteplice, una donna in atto, una maestra, è Saffo, è Psiche, è traccia della sorella, dell’amica, delle altre figure contemporanee riesce a fondere presente e passato, si raduna.

Nei versi delle poetesse dell’Ottocento, da un lato c’è il sonno dei piccoli, un ragazzo negro, un indù morente: figure che appaiono agli occhi di chi legge bisognose di cura. D’altro lato ci sono figure di donne crudeli e misteriose che si perdono in visioni e vendette femminili, in lamenti.

Tutte queste figure sono ancora qui, e colpiscono il mio tempo come una salvezza. Il loro riconoscimento colpisce il mio tempo come una salvezza.

Per questo, quando scrivo, compare sempre una madre, e accanto alla madre c’è qualcosa di piccolo e misterioso, e accanto a quel “qualcosa” c’è un braccio di tempo che si dilata nell’attenzione, fino agli estremi momenti dell’esistere, in nascita e in morte, nel bene e nel male, come urgenza d’una Pietà vivente.

La Pietà è vivente, e compare confusa con la madre, emerge “categorica” come una Natura, convergenza ineludibile di ciò che buono e cattivo. Infatti quando si distrae compare l’odio.
Buona quando dà frutti, cattiva quando li toglie, ma  sempre terra, braccia a cui tornare prima o poi, per forza, nella buona e nella cattiva sorte. E’ una categoria più che umana. E’ una rappresentazione. E’ una specie di atto tragico, una vera e propria “messa in scena”, niente poesia[3].

 

C’è un’altra cosa però, rispetto alla poesia, che voglio dire e che mi riaccosta alle poetesse romantiche inglesi. E’ una circostanza significativa: ho scritto i pochi versi di una poesia titolata “La culla sul mare”[4] in un piccolo paese della Liguria, di fronte al mare in tempesta, in pieno inverno.

Questi pochi versi sono stati scritti di getto, col pensiero fisso a Mary Shelley, evocata dal mare in tempesta. La immaginavo seduta, intenta a scrivere, come me in quel momento: nell’immagine Mary con una mano dondolava una culla e con l’altra faceva scorrere la penna.

Nella poesia nata da questa scena mentale, Mary non compare, ma l’atmosfera romantica è diffusa: c’è il mare, una torre, una barca, una culla vuota e… “silenzio !, c’è un pensiero in atto” dice il dondolio, dice il remo…..dice la campana.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1]              Di Luce Irigaray ricordiamo: Luce Irigaray, Etica della differenza sessuale, Feltrinelli, Milano 1985; Ead., Sessi e genealogie, La Tartaruga, Milano 1989; Ead., Speculum. L’altra donna, Feltrinelli, Milano 1975; Ead., Questo sesso che non è un sesso, Feltrinelli, Milano 1978.

[2]              Lila Maria Crisafulli, Antologia delle poetesse romantiche inglesi, Carocci Editore, Roma 2003.

[3]              Ida Travi, Diotima e la suonatrice di flauto atto tragico. Presentazione di Luisa Muraro
Baldini Castoldi Dalai – La Tartaruga, Milano settembre 2004.

[4]              “La culla sul mare” dall’opera poetica “Canto del moribondo e del neonato” poesie per la musica di Ida Travi –

Verona- Teatro Romano giugno 2003 – Musica di Andrea Mannucci-  Voce cantante Antonella Ruggiero Voce recitante Patricia Zanco -Testi e partiture Edizioni Suvini e Zerboni,. SugarMusic – Milano 2003