Una questione male impostata. Che fare?
Se la questione dei manuali si pone in questi termini: “quali sono le caratteristiche auspicabili di un libro scolastico attento all’identità di genere”, trovo che sia male impostata, nella misura in cui spinge a pensare che si deve (da parte di un agente impersonale) modificare la rappresentazione degli esseri umani includendo anche le donne e i rapporti donne-uomini, tradizionalmente ignorati dai manuali. Così non si fa che trattare il soggetto umano (le donne) come un oggetto (prima escluso, ora da includere) mentre il proprio del soggetto è quello di agire simbolicamente, nelle diverse forme dell’agire simbolico, ed è così, solo così, che esso si mostra e si rende conoscibile.
Se è vero, com’è vero che i nostri manuali scolastici sono segnati da una cultura che non ha riconosciuto alle donne una libera espressione di sé nel farsi, disfarsi e cambiare della cultura stessa, se è vero com’è vero che la cultura scolastica ha ignorato quasi completamente il contributo delle donne alla civiltà umana, la questione andrà formulata più o meno in questi termini: come migliorare i nostri libri di testo perché le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi trovino in essi uno strumento valido di formazione e informazione? Migliorarli nel senso di servire a formare e informare una popolazione scolastica in cui la presenza femminile ha un’importanza sempre più notevole e la presenza maschile domanda un’attenzione diversa che in passato. Un’impostazione di questo tipo ci salva dall’imposizione di risposte controproducenti e senza respiro.
La questione andrebbe dunque impostata a partire dal riconoscimento che a questo mondo (e nella scuola) vi sono donne e uomini, e incoraggiando la consapevolezza di ciò da parte di chi educa, insegna, fa libri di testo. Questa consapevolezza ha cominciato a farsi strada, come sappiamo, ma non è pienamente guadagnata né concorde sulle sue espressioni culturali, com’è naturale. È in questa prospettiva che va pensato il progetto Polite, secondo me.
Veniamo all’insegnamento della filosofia e ai suoi dei manuali. Di questi ultimi si può farne a meno, io così ho fatto e farei, ma non potendo o non volendo andare in questa direzione, ecco quello che ho da dire.
Una premessa. L’insegnamento basico della filosofia, in Italia, si coniuga (non mi fermo sull’intrico di problemi che c’è in questa parola) storicamente. Filosofia e storia sono discipline che differiscono parecchio fra loro per quel che riguarda la significazione del fatto che l’umanità sono donne e uomini. Si potrebbe pensare che quest’incrocio sia una complicazione per il problema che ci occupa e forse lo è, ma è anche una risorsa.
La storiografia ha sempre avuto la tendenza ad esaltare il protagonismo degli individui maschi delle classi dominanti. Le benefiche correzioni introdotte con la storiografia più scientifica, hanno avuto, purtroppo, tra i loro effetti, anche quello di squalificare una storiografia artigianale che poteva contare sulla presenza del sesso e delle classi non dominanti. In breve: le donne in generale e le/gli appartenenti a classi e gruppi non dominanti, sono oggetto di una crescente attenzione e di uno studio più accurato, ma non sono loro che scrivono la storia e di conseguenza la loro soggettività è mortificata. Ma, anche a questo livello, si registrano valide autocorrezioni, penso alla storia orale e agli studi femministi.
La filosofia presenta una situazione molto diversa. Essa, come noto, è una disciplina che, tra i suoi problemi, mette anche quello di capire e dire che cos’è filosofia, ponendo come unico vincolo quello di riferirsi ad una sua “storia” o tradizione, fosse pure per scostarsi da essa (come hanno fatto, per esempio, i pensatori che chiamiamo esistenzialisti, Kierkegaard verso Hegel, ecc.). Questa specialità della filosofia, dal punto di vista che ci occupa, è ambigua: infatti, offre il varco a innovazioni significative, per le quali però non ci dà un criterio sicuro. Mi spiego: per dare voce alla soggettività femminile, se si usano linguaggi e si avanzano questioni che sono sentiti come estranei alla filosofia, capita che si resta ai margini o fuori dalla sua tradizione.
Questo è già capitato. Nella storia della filosofia, infatti, le donne sono poche e anche queste poche tendono a sparire o sono già sparite perché non costituiscono un riferimento interno alla tradizione filosofica. Socrate si distingue anche da questo punto di vista ma il suo riferimento a Diotima non ha fatto scuola ed è stato, come dire, “consumato” nella maniera che sappiamo, da Platone. Alla filosofia non ci si iscrive, bisogna appartenerle e attenzione che ciò vale anche per il nostro tempo. Non confondiamo una facoltà universitaria con la filosofia. Certo, il femminismo e, nel femminismo, il pensiero della differenza, con la pratica delle genealogie femminili, stanno contrastando quella tendenza, ma questa può rivelarsi più forte ed estromettere la teoria femminista come non filosofica. Insomma, io non mi sento a tutt’oggi di poter escludere che la filosofia sia essenzialmente un discorso del tra-uomini. Non dimentichiamo che i filosofi, simili in questo al clero delle religioni patriarcali, hanno coltivato la misoginia, fino a Nietzsche. In seguito, le manifestazioni di misoginia sono sparite, senza dare adito ad un significativo ripensamento. Si è parlato del tema, ma non c’è stata, a mia conoscenza, una presa di coscienza maschile.
Vero è che nel secolo XX, abbiamo assistito a cambiamenti interessanti, penso alla comunità filosofica Diotima, penso alla fioritura di pensiero filosofico di donne nel sec. XX, con una spiccata tendenza ad uscire dal contesto strettamente accademico, che da due secoli era e rimane il contesto quasi esclusivo della filosofia. Ma ecco che, nei due ultimi decenni, la filosofia si rivolge anche a pratiche extra accademiche e si cerca nuovi contesti in cui donne e uomini hanno scambi più liberi. Se le risposte di molti pensatori alla discontinuità introdotta da donne nel corso della filosofia, sono evasive e piuttosto difensive (con qualche punta offensiva), possiamo anche chiederci se non saranno piuttosto questi a trovarsi ai margini o fuori dalla tradizione.
Passo a dare qualche suggerimento pratico, per quello che posso, senza prestarmi a quel fare e disfare e rifare, che piace ai riformatori ma non aiuta il lavoro della scuola. Per cominciare, sono d’accordo con chi, come Adriana Cavarero, pensa che nei manuali non si debba nascondere l’eventuale misoginia dei grandi filosofi. È la traccia di qualcosa che riguarda da vicino la filosofia e dobbiamo salvarla come tale e come spunto d’interrogativi presenti, a disposizione dell’insegnamento e della formazione dal vivo. Ma c’è da risolvere il problema di come presentarla. Con i testi, senza giustificazioni storicistiche e senza giudizi anacronistici. Non sono d’accordo che il manuale si dia a fare confronti ravvicinati tra le idee del passato e quelle del nostro tempo, e tanto meno che dia etichette complessive. In altre parole, bisogna contrastare l’evasività della filosofia contemporanea sulle contraddizioni e domande che ha posto la dualità dell’essere umano, e far così conoscere l’intera problematicità della condizione umana, senza presumere e senza far credere che noi disponiamo di un punto di vista risolutivo. Il taglio storico dell’insegnamento filosofico può aiutare a trovare le mediazioni giuste.
Vediamo l’altro problema sollevato: per il presente, possiamo far conoscere l’emergenza della soggettività umana nella sua dualità senza sintesi, dando voce ai migliori testi di una ricerca cui oggi partecipano donne e uomini, ma che cosa si può fare per il passato, considerando che il pensiero documentato è un pensiero mutilato da perdite e da silenzi costruiti dalla storiografia filosofica? Il mio suggerimento è di innovare i criteri ermeneutica e filosofici, così da creare il contesto migliore in cui ascoltare parole e pensieri che la tradizione ha emarginato ma non cancellato. La ricerca storica femminista e non, di questi anni, ha reso disponibile un gran numero di testi, di nomi, di notizie che potrebbero, per una parte, entrare decisamente nel quadro tradizionale. Penso a Ipazia per l’antichità, a Ildegarda di Bingen e alla scienza medievale, a Margherita Porete e alla teologia in lingua materna, alla “querelle des femmes”, a certe letture della scienza rinascimentale e della caccia alle streghe… Sulla base del patrimonio disponibile delle nuove conoscenze, suggerisco non di inserirle nei quadri tradizionali, ma di selezionarle seguendo nuovi criteri da applicare a tutto il quadro così da renderlo, forse disturbante allo sguardo assuefatto, ma parlante. Per fare un’esempio, si può creare la categoria di una philosophia extra moenia. Qui, di nuovo, il taglio storico dell’insegnamento ci viene in aiuto suggerendo nuovi punti di vista e rivisitando i contesti storici di certe tematiche.
Naturalmente, non si può fare una simile operazione in un colpo solo; perciò, conviene avviarla intervenendo dove il sapere specialistico, l’esperienza didattica e la saggezza indicano che si può ottenere risultati di bontà intrinseca e riconoscibile dalle/dagli insegnanti, che sono i primi destinatari e i giudici più qualificati della innovazione. Ripeto che sarebbe sbagliato, due volte trattandosi della filosofia, voler fare un quadro “completo”. Si può correggere, in una certa misura, la tradizione storiografica, non si può neanche idealmente mirare a cancellare la asimmetria della presenza di donne e uomini in filosofia, tanto più che abbiamo motivo di pensare che i rapporti tra i sessi siano fondamentalmente asimmetrici in maniera insormontabile. Quello che si può fare, è iscrivere nella filosofia e nella nostra coscienza storica qualcosa che sta avvenendo ai nostri giorni, che è la presa di coscienza delle donne e l’avvenimento del senso libero della differenza sessuale, detto con parole che non sono filosoficamente neutre.