diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 7 - 2008

Lei non sa chi sono io

Una promessa di senso

All’inizio era il silenzio, un mondo senza parole. Ma da quando abbiamo imparato a parlare, esiste per noi il silenzio come una zona di luce o di disperazione dove tutto il fare del mondo è intatto e non  giudicato da termini che lo riducono a un entità ben circoscritta. Talvolta è viscoso e impenetrabile oscuro.[1] Rendersi conto del silenzio iniziale, vuol dire non rischiare mai di trovare la parola esauriente, ben definita una volta per tutte. Il silenzio è la garanzia di senso relativo di ogni dire perché prima c’era comunque il silenzio del fare sensuale e la parola nasce da questa matrice.

Il silenzio non si perde nemmeno quando iniziamo a parlare. Ogni unità di senso è frammentata o intervallata da un attimo più o meno lungo di silenzio. Tutta una casistica di silenzi potremmo a questo riguardo elencare, perché la pausa dopo un soggetto oppure prima di un participio o attorno a un sintagma nominale sono di diversa qualità, ascensionali o discensionali o equilibranti. Il silenzio fa in modo che ciò che si dice, fra una pausa e un altra unità, cioè la parola, acquisti senso. Il silenzio può già essere un modo di esprimere senso, quello del respiro, delle emozioni, della forza fisica o della soddisfazione piena. Il silenzio è già un primo pensiero. Senza il silenzio la parola non esisterebbe perché priva di differenza.

Una persona che non parla può sembrarci felice perché non ha nulla da aggiungere a ciò che è.

Può anche esprimere una mancanza, la mancanza di parola, perché non la si trova, perché non si può dirla, perché si vuole privare l’altro della propria presenza parlante. In un mondo di continua animazione il silenzio è percepito più facilmente come una mancanza, una incapacità: a scuola, in compagnia, nel mondo della politica, in famiglia.

Non parlare vuol dire anche: non mandare nel mondo parole che si possono rivelare imprecazioni. Un proverbio dice “un bel tacer non fu mai scritto”. Vuol dire trattenere il male per confinarlo dentro di sé e porre fine alla sua circolazione. Molte donne, le nostre madri, hanno vissuto  con questo impegno. Noi, le figlie, abbiamo abitato di più la parola, fatto tante domande mai prima pronunciate apertamente, abbiamo distrutto tessuti tradizionali per far emergere un altro senso. La nostra intenzione è stare sulla soglia fra silenzio e dire, là, dove le esperienze si traducono in lingua e abbiamo imparato ad ascoltare ancora.

Non fare domande, in molte culture, a differenza della nostra, è un comportamento linguistico rispettoso del dolore dell’altro e dell’altra.[2] Oggi  sappiamo che non possiamo fermarci alla domanda gridata. E’ entrata nel nostro mondo una tale quantità di nuovo che non disponiamo ancora di parole per nominarlo. Di fatti, ogni dibattito sulla immigrazione, per esempio, ha un esito prevedibile: si dicono sempre le stesse cose perché è la lingua che non corrisponde più alla realtà. Occorre il silenzio per aspettare che nuove parole si trovino.

La madre torna sempre all’inizio, al silenzio, a quando la parola non esisteva ancora. Fa un movimento verso la complessità per tornare all’inizio ripetutamente. Avere dei figli vuol dire questo: tornare sempre all’inizio, alla creazione. Si tratta di  un viaggio spirituale e trascendentale che immette tutte le parole in uno spazio non materiale. La parola nasce in itinere e cela al suo interno sempre il silenzio e l’abbondanza di cui la madre ha fatto esperienza nel momento del parto. Anche l’arrivo di una bambina straniera in classe è un momento di abbondanza. Quando i sensi colgono più di quello che la lingua riesce a dire.

Andare all’inizio significa anche lasciare il mondo delle tante parole e scegliere l’essenziale. In questo movimento le parole superflui, inutili, ingombranti, consumate e pallide o troppo cerebrali si perdono ed escono dal linguaggio della madre. Nel ritorno all’inizio la lingua si rinnova per acquisire nuova densità e peso, per ritrovare il suo involucro affettivo.

Tornare all’inizio vuol dire restare sempre nella densità del vuoto pieno come la faccina  non parlante del piccolo e della piccola bambina. In una zona di luce e di abbondanza di presenza la parola entra nel rapporto per intensificarlo.

Anche nella lingua straniera avviene questo tornare all’inizio, ripercorrere la strada della lingua essenziale.[3] La straniera partecipa con i propri primi balbettii. Dice “pane”, dice “vino”, forse “per piacere”. E’ considerata piccola. Si sottomette all’autorità degli amici, aspetta da loro le parole in attesa di essere resa partecipe alle loro vite. Sono le persone più umili che imparano prima la lingua dell’altro.

 

L’approccio coloniale

 

Diverso è l’approccio coloniale, anzi è il suo contrario perverso. E’ come se il neonato insegnasse la lingua alla propria madre. Non solo. Anche oggi in un atteggiamento neo-coloniale si calpesta la dignità dei nativi credendo di aprirsi a loro.

Ricordo una situazione in un paese africano, dove la gente del villaggio molto povero a contatto con i turisti all inclusive aveva imparato molto bene nella “scuola bianca”, cioè in spiaggia, chi l’italiano, chi il tedesco e molti l’inglese anche perché già lingua coloniale del Kenya. Facendo amicizia con alcuni ragazzi e ragazze del villaggio parlavamo in una di queste tre lingue con loro che peraltro sapevano molto bene. Quando per la mia passione per le lingue mi sono messa a imparare alcune parole di swahili li ho visti molto perplessi.

Non succedeva ciò che generalmente capita nei paesi europei, oppure nei paesi occidentali dove lo standard economico sociale è simile al mio paese di provenienza e cioè che i miei primi balbettii ottenevano un grande successo. Il voler imparare la lingua loro è sempre interpretato come un volersi avvicinare all’altra cultura, cercare di comprenderla e di rispettarla. E’ considerato il più grande dono che la straniera potesse portare all’incontro con l’altro e l’altra.

Diversa si presentava la situazione ora nel villaggio kenyiota. Il mio gesto fu interpretato come un voler privare l’altro della sua intimità, un ulteriore gesto coloniale. Conoscere la loro lingua significava poterli spiare, sapere i fatti loro, entrare in quella complicità della gente del villaggio che è una delle poche protezioni rimaste contro l’assalto alla loro terra e alla loro cultura.

Ma non era particolarmente umile il mio gesto? Il contrario di ciò che Tzvetan Todorov descrive nella “Conquista dell’America”[4] quando parla di una vera e propria  furia nominatrice di Cristoforo Colombo che arrivato nelle terre nuove non si fa ispirare dalla diversità del paesaggio e non chiede nemmeno agli abitanti di queste terre il nome di ciò che vede ma nomina con termini della sua cultura. E Todorov dice a questo proposito:

“Colombo sa dunque perfettamente che quelle isole hanno già dei nomi, naturali in un certo senso […] I nomi degli altri, tuttavia, lo interessano poco, e vuol ribattezzare i luoghi in funzione del posto che essi occupano nel quadro della sua scoperta, vuol  dare loro dei nomi giusti; il nominarli, inoltre, equivale a una presa di possesso.”

E più avanti: “La cosa è tanto più sorprendente in quanto Colombo è poliglotta e, al tempo stesso, non ha una lingua materna: egli parla altrettanto bene ( o altrettanto male) il genovese, il latino, il portoghese, lo spagnolo; ma le certezze ideologiche hanno sempre avuto la meglio sulle contingenze individuali.”[5],

Chi ha una lingua materna e ne comprende la profonda necessità della stessa non può fare altro che comprendere nell’altro l’amore per la propria. Più sono attaccata alla mia origine più stimo l’altro e l’altra perché legati alla propria lingua materna.

 

Mi sono resa conto che non si può imparare in modo strumentale una lingua. Non si può prendere un libro e studiarsi le regole e le parole. Perché quelle parole sono la vita intima delle persone e quelle regole sono l’espressione più profonda della loro struttura sociale e di pensiero. Studiare la loro lingua é come comprare per pochi soldi i terreni stupendi sulla spiaggia dell’oceano e successivamente proibire  loro di metterci piede. Certo, per fortuna, oltre alla lingua coloniale e la nuova lingua standard, lo swahili[6], loro avevano un’altra lingua in riserva. Più io sapevo parole dello swahili più loro parlavano in ghiriama, la variante locale della lingua swahili, la vera lingua materna. Certo, un mio amico bianco, che viveva in  una capanna con la sua sposa nera, non urtava la sensibilità della gente del villaggio quando riusciva a dire finalmente qualche espressione in ghiriama o swahili perché aveva partecipato alla loro vita in tutto per tutto.

La lingua dell’altro può essere considerata sotto tanti aspetti. Dove il dislivello economico è tanto forte come fra l’Europa e l’Africa nera, la lingua diventa un’ulteriore strumento di potere. Da persone bianche che hanno vissuto assieme alla gente dei villaggio ho imparato che solo l’amore  può essere la porta d’ingresso in un paese e in una lingua lontana. La lingua non è un oggetto da conquistare. Le parole non sono tutte a disposizione. La lingua rimane sempre lingua da rivelare e il velo che copre il suo significato non può essere lacerato da chiunque. Per accedere al sapere di un’altra lingua  si deve essere iniziata e presa per mano da una persona amica.

Nelle nostre culture occidentali la lingua straniera è spesso  degenerata  in puro strumento di comunicazione quando invece la lingua è molto di più: la lingua materna è promessa di senso e di partecipazione alla vita comunitaria, è promessa di amore, .

 

Un’altra lingua è una nuova promessa di senso

 

Un’altra lingua è una nuova promessa di senso, trascende i confini del senso ormai stabilito ed apre uno spazio sconosciuto a lato. Il desiderio di apprendere un altra lingua è quasi sempre preceduto da uno scacco nella propria vita[7]. Nella mia lunga pratica di insegnamento della lingua tedesca per adulti ho costatato questo fatto. Molte donne in crisi con la famiglia, con il lavoro o alle prese con stati di depressione hanno cercato di aprirsi uno spazio nuovo a lato. In quel caso l’apprendimento ha funzionato benissimo indipendentemente dall’età, in altri casi, quando si trattava semplicemente di una necessità di lavoro, l’apprendimento si è arenato molto presto. La lingua straniera vuole trascendere, entrare in un segreto, fare un nuovo tentativo di relazione con altri. Non si arrende ai conflitti vissuti nel proprio ambiente che, lasciati andare alla deriva, si incancreniscono e vivono nell’asfissia  di rapporti senza trascendenza. La persona che si avvicina, perciò, ad un altra cultura, ad un’altra lingua, ad altre persone si dovrebbe rendere conto che siamo noi i bisognosi. Sono io in cerca di una nuova esistenza e, sono gli altri che mi fanno il dono di poter accedere ai loro segreti custoditi nella loro lingua. Chi oltrepassa il confine del suo mondo di origine deve sapere che non sarà mai conquistatore ma sempre mendicante in cerca di aiuto, mendicante di nuove parole che riescano a sopportare la pesantezza dell’essere.

 

 

 

[1]              Vedi anche: Luisa Muraro, L’allegoria della lingua materna, in: Eva-Maria Thüne, (a cura di), All’inizio la lingua materna, Rosenberg & Sallier, Torino 1998, pag. 39-56. Peter  Sloterdijk nel suo bel libro: Zur Welt kommen – Zur Sprache kommen, Edition Suhrkamp, Frankfurt 1988, pp. 50.

[2]              Vedi anche: Marie Rose Moro, Bambini immigrati in cerca di aiuto, UTET, Torino 2001, pag, 122.

[3]              Chiara Zamboni, Parole non consumate, Liguori Editore, Napoli 2001.

[4]              Tzvetan Todorov, La conquista dell’America, Einaudi, Torino 1992, traduzione di Aldo Serafini, pp.33.

[5]              Ivi, p. 36

[6]              Lo swahili o kiswahili (pronuncia: suahili, chisuahili) è una lingua bantu, della famiglia delle lingue niger-kordofaniane, ampiamente diffusa nell’Africa orientale. È parlata come prima lingua da circa 5 milioni di persone, soprattutto sulla costa africana dell’Oceano Indiano, e come seconda lingua da circa 50 milioni. Data la sua grande diffusione, lo swahili svolge la funzione di lingua franca in gran parte dell’Africa subsahariana.

Il nome “swahili” deriva dalla parola araba sawahil سواحل che significa “costa”; con il prefisso “ki” (che sta per “lingua”) significa “lingua delle coste”. Coloro che parlarono swahili come prima lingua vengono collettivamente indicati con la parola “waswahili”, costruita con il prefisso “wa” (“popolo”): “il popolo delle coste”.

 

[7]              Ovviamente mi riferisco a persone che scelgono di avvicinarsi a un altra lingua non alla scuola d’obbligo.