diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 9 - 2010

Grande Seminario

Una presa di parola nel nome della differenza. La richiesta di una forza femminile

Sono un’insegnante di un liceo. L’aula è il luogo dove numerosi sguardi di studenti e di studentesse si posano su di me: quegli sguardi mi chiamano ad essere. In quel luogo e con quegli sguardi sento la responsabilità di essere donna, soprattutto per le studentesse. Io entro con i miei libri che appoggio sul tavolo e, senza sedermi in quella sedia dietro la cattedra che mi separa dagli studenti e dalle studentesse, mi metto davanti alla cattedra, davanti a loro e sento i loro sguardi. Mi vedono per intera, dalla testa a i piedi. Aspettano che io dica qualcosa, ma non mi viene niente. Sanno che sono femminista e si aspettano da me alcuni slogan, formule, parole. Vorrei spiegare tante cose, ma non mi viene niente. Nessuna parola.

All’inizio pensavo che fosse un problema di aspettativa: le mie studentesse si aspettavano che affermassi loro un’intelligenza maggiore o si aspettavano che iniziassi a fare una discriminazione nei confronti dei maschi, pensando che avrei preferito le femmine che i maschi; anch’io mi aspettavo qualcosa da me: infatti non mi ero preparata nulla, pensando che all’occasione mi sarebbero venute le parole. Avevo fiducia che in quella situazione mi sarebbero venute le parole giuste per introdurre la sotterranea sapienza femminile, che, come anche molte altre donne dicono, compare il più delle volte sotto forma di una forte emozione, un battito accelerato, una spinta che parte da dentro e che funziona come un aggancio per prendere la parola.

Poi ho capito che non si trattava solo della trappola dell’aspettativa: il problema non era quindi che tutto era già impostato. In quell’aula non è accaduto nulla perché ho sentito il dovere di mettere in circolo un sapere che altre avevano scoperto e rivelato: e non io. Quel sapere femminile era per me una teoria, una dottrina fatta da altre. Ho capito che affinché quel pensiero diventasse una pratica, dovevo mettermi in mezzo o meglio al centro… dovevo centrare anch’io in quel discorso…. quel pensiero doveva essere anche mio.

Se da un lato è vero che, come si legge in alcuni testi degli anni settanta, il femminismo, sviluppatosi in diversi paesi e in diverse forme, ha come comune nucleo rivoluzionario la centralità della soggettività femminile[1], dall’altro lato, nell’aula con gli studenti e le studentesse, ho capito che porre al centro ciò che la donna desidera e ciò che fa è qualcosa che trascende il dato storico. In altri termini si potrebbe dire che il nucleo teorico del femminismo non è un’idea che è nata e che è morta negli anni settanta, ma è la modalità stessa di pensare delle donne e della differenza sessuale. La centralità della soggettività non è infatti la rivendicazione di un diritto; va ben oltre il tentativo di portare gli occhi del mondo su di sé, una sorta di rivoluzione astronomica del soggetto femminile. Si tratta invece, come vi dicevo, della modalità stessa con cui si dà il pensiero delle donne.

In quell’occasione, nell’aula con gli studenti e le studentesse, non parlavo del pensiero della differenza sessuale perché non trovavo più interessante parlare di un pensiero che altre donne (e non io) avevano elaborato. Ho capito che quel pensiero richiedeva una cosa fondamentale: di viverlo, di esserlo, di incarnarlo. Ecco che cosa intendo per centralità della soggettività femminile. Finché la differenza sessuale viene concepita come una teoria o una dottrina che si espone intellettualmente, essa rimarrà sterile. Per di più noiosa. La differenza sessuale è quindi un pensiero che richiede, per essere pensato, di entrarvi a giocare, di parteciparvi da dentro. Nel momento in cui il pensiero parte da me e non da altre allora tutto mi sembra avere più interesse, più piacere, più godimento.

In quell’occasione il pensiero della differenza non era per me un pensiero vivo. In quel momento concepivo il pensiero della differenza come un punto di vista oggettivo/esterno che si poteva assumere o meno, secondo un atto razionale e intellettualistico. Ma così non funziona. Si tratta non solamente di lasciarsi coinvolgere, ma anche di creare qualcosa di nuovo rispetto a quanto già detto e fatto dalle altre. La sapienza femminile allora non compare quando i giochi sono già fatti; non si mostra quando non c’è possibilità di creare qualcosa di nuovo.

In “Approfittare dell’assenza” del 2002, Diotima si è interrogata sul rapporto con la tradizione: in questione non era la tradizione maschile ma il femminismo. Leggendo quei testi si percepisce molto la lacerazione tra la riconoscenza, da un lato, e la voglia di tradimento, dall’altra, nei confronti del femminismo storico. Tra l’una e l’altra, insomma tra la gratitudine e la discontinuità, quello che mi ha colpito maggiormente è il desiderio di alcune della continuità (e quindi dell’autoconferma), visibile nel sentimento della fiducia che il passato ritorni presente o nell’immagine di Ida Dominijanni di un’infiltrazione benigna e sotterranea della parola femminile[2]. Questo desiderio mi inchioda: cosa faccio ora? Cosa dico ora? A me non interessa né la continuità né il tradimento, perché in questi due atteggiamenti opposti intravedo solamente una contrattazione che altro non è che un’infelice misurazione e un misero controllo delle parole: quanto e come posso dire? Non voglio essere né riconoscente né traditrice nel confronti del femminismo. Vorrei solo avere la possibilità di dire ciò che sento come vitale e come vivo.

Non è nel riconoscimento né nel tradimento che si misura la forza femminile, bensì nella libertà di essere donna. Questo è per me il punto centrale. Affinché la sapienza femminile parli in me, affinché possa nascere una parola di donna dovevo prima essere donna, essere donna consapevolmente. Solo con la consapevolezza di essere una donna è possibile guardare e attingere al sapere tramandato nel passato dalle altre donne. Insomma, prima deve avvenire una trasformazione in me. Deve quindi preliminarmente accadere qualcosa in me che mi fa sentire il bisogno, misto al desiderio, di interpretare questo dato, questo fatto, questo sesso che non ho scelto e che sono. Deve quindi accadere qualcosa che mi spinge a vivere la sessualità femminile fino in fondo. “Non credere di avere un sapere” vorrei esclamare oggi alle giovani donne sulla falsariga delle donne degli anni settanta, le quali, esclamando invece “non credere di avere dei diritti”, mettevano in guardia le donne nei confronti della lotta per la parità dei diritti. Così oggi si potrebbe dire che non è il sapere illuminato dalle altre donne, di altra epoca e altra storia, che rende una donna consapevole di essere tale. Così come non basta nascere con un corpo femminile per diventare donna, così non è sufficiente ricevere da altre lo scettro del sapere femminile per essere in grado di giocarselo.

E allora come avviene?

Più di una volta ho avuto l’impressione che quando, negli incontri di Diotima, compariva il discorso sull’ereditabilità del pensiero delle donne, le parole trovasse delle buche che, invece di rilanciarle in un gioco più ampio, le facessero traballare perdendo per qualche istante l’equilibrio. Leggendo l’introduzione del libro di Patrizia Caporossi Il corpo di Diotima. La passione filosofica e la libertà femminile (2009) mi sono soffermata a riflettere sulla sua domanda, che all’incirca suona così: perché per molte donne oggi quel potente dispositivo che è la differenza femminile diventa un fardello che non si sentono di assumere?[3] La prima risposta che mi sono data è stata: perché quel sapere non è un dispositivo, è il mio essere, il mio essere singolare. Se qualcuna lo trova un fardello, anziché un’esperienza di libertà, è perché, invece di essere il guadagno di un percorso personale, è diventata una dottrina (gestita bene in seconda battuta dagli uomini); perché ha smesso di essere vitale, ha smesso di essere interpretabile secondo nuove parole. È allora per me un senso ricevuto da altre, nato e vivo per ragioni che non coincidono con le mie. L’inizio del pensiero femminile è pensare da sé essendo in relazione con gli altri/le altre.

La pratica del partire da sé, su cui avevo letto i testi di Diotima e di cui avevo sentito parlare a lungo, mi sembrava di conoscerla. Mi accorgo solo ora che più che una pratica era per me una semplice teoria, una nozione intellettuale. È diventata una pratica quando la mia stessa esistenza l’ha chiamata in causa. È diventata pratica cioè nel momento in cui mi sono accorta che per leggere la mia esperienza vissuta non avevo altri strumenti che me stessa, le mie relazioni, i miei desideri, le mie incertezze. Ho dovuto, quasi per necessità, aver il coraggio di lasciare quello che altre mi dicevano o che dicevano al posto mio e tentare, rischiando la contraddizione, di dire quello che più mi sembra necessario, quello che insomma va detto. Dico “quasi” per necessità perché in quel momento di comprensione non era in gioco solo la costrizione, una sorta di movimento coatto che mi ha obbligato a riconoscere l’inizio; avevo capito invece che solamente con quella mossa avrei potuto guadagnare qualcosa di mio: la mia libertà di essere, di pensare e di agire.

Ho finalmente scoperto quello che prima semplicemente conoscevo. Ho capito quello che diceva Luisa Muraro in La sapienza di partire da sé, ovvero che tale pratica ci restituisce il senso della nascita perché con essa avviene, una volta riconosciuto l’inizio, un distacco, una separazione che ci porta in un luogo incognito[4]. Per distaccarsi però occorre prima aver riconosciuto l’inizio: l’inizio del pensare: essere donna.

Come è avvenuto quel cambiamento in me? Come sono diventata una donna consapevole di esserlo? A dire il vero non so se sono in grado di nominare quel passaggio; ma ci proverò.

Il cambiamento avvenuto in me è un percorso molto complesso. Il punto di partenza è stato il patire il mio mutismo in luoghi misti di donne e di uomini, la mia incapacità di dire quello che pensavo e la mia estraneità quando parlavo con gli uomini. Una situazione che spiegavo semplicemente con la mia timidezza, la mia giovane età, l’esuberanza del mio/a interlocutore/trice. Poi qualcosa di non nominabile è cambiato. Nel momento in cui ho cominciato a capire che il mio patire, il mio mutismo, la mia inerzia venivano da qualcosa di dato e di non interrogato come il mio essere donna, qualcosa era già cambiato. Era avvenuto in me l’atto simbolico dell’accettazione di essere donna e di non essere né neutra né tutto, l’assunzione insomma della mia femminilità. Si tratta di un passaggio molto sotterraneo che faccio fatica a nominare. È un atto nascosto da una molteplicità di incontri, di eventi (la mia gravidanza), di parole (scritte e orali di donne che hanno vissuto il femminismo storico in Italia e in Francia), di sguardi (gli studenti e le studentesse), insomma di relazioni. Rispetto a quanto ho vissuto personalmente mi verrebbe da dire che se da un lato tutte queste relazioni sono state per me libere e liberanti grazie a quell’atto simbolico di accettazione, d’altro lato senza quelle relazioni non ci sarebbe stato nessun atto simbolico.

Il cambiamento è stato percepito nel momento in cui ho cominciato a capire che se non avessi messo mano a quel sapere femminile che le altre mi tramandavano avrei continuato a sentirmi vuota. E profondamente delusa. Occorre saper leggere anche questi momenti di disagio, che sono segni evidenti come il sentirsi vuote, deluse, afflitte. Che cosa ha provocato in me quella paralisi delle parole nell’aula con gli studenti e le studentesse? In quel momento mi è mancato il coraggio di assumermi la libertà e la responsabilità del mio essere. Mi è mancata la forza per misurarmi con me stessa e con quello che vivo.

Toccava a me ripensare il passato, riflettere sul presente, scommettere su nuove prospettive. “Qualcosa” – che a dire il vero non so se proveniva da dentro o da fuori – mi chiedeva di non ripetere ma di stare nel mondo con creatività e coraggio; mi chiedeva di ascoltare la lingua corrente e di ricercare nuove parole; mi chiedeva una presa di parola, la quale non nasce dal nulla ma da qualcosa di già detto e fatto, ovvero da un pensato che occorre ripensare oggi, rinominare. Se ciò non accadesse, allora qualsiasi pensiero di donna da Margherita Porete a Virginia Woolf sarebbero diventati macigni difficili da portare con sé.

Con me viene al mondo qualcosa di nuovo; una nascita che, come la nascita di un bambino, rompe l’ordine stabilito, modifica l’esistenza, crea disordine. Non posso tirarmi indietro di fronte a quello che io sono né tanto meno di fronte a quello che metto al mondo.

In quell’aula, le studentesse e gli studenti richiedevano a me personalmente, in quanto donna che pensa, non tanto di comunicare il pensiero femminile quanto di incarnarlo. Interpretavo nel loro sguardo il desiderio di essere una donna, vale a dire quella forza femminile di cui si dice. Mi sono chiesta allora: quale forza femminile?

Ho sempre pensato che la forza delle donne consistesse nel suo essere informe. La lezione di Luce Irigaray  sul godimento femminile, nonché sul suo essere, presente in Speculum mi viene sempre in mente quando cerco di dare una definizione di soggettività femminile: «Ebbene, la donna non è né chiusa né aperta. Indefinita, in-finita, in essa la forma non è completa. Non è infinita e nemmeno una unità: lettera, cifra, numero d’una serie, nome proprio, oggetto unico (d’un) mondo sensibile, idealità semplice d’una totalità intelligibile, entità d’un fondamento ecc. L’incompletezza della sua forma, della sua morfologia, le permette di diventare altra cosa, in ogni momento, il che non vuol dire che sia mai univocamente niente. Incapace di completarsi in una qualche metafora. Mai questo poi quello, questo e quello… Sempre in divenire, in un’espansione di sé che non è e non sarà in nessun momento un universo definibile»[5]. Invece dell’identità chiara e distinta, vale a dire di un soggetto già formato e concluso, la donna è un essere aperto, in divenire, sfuma di continua perché assume varie forme. Si confonde tra il sé e l’altro da sé. Ho sempre considerato l’assenza di forma della donna come la sua forza: la capacità di non arroccarsi su se stessa, bensì di aprirsi all’altro da sé e di relazionarsi con un essere differente.

Si tratta di una forza che ha un costo molto alto perché nel momento in cui si fa esperienza dell’altro le donne danno tutte se stesse. Ecco allora come si spiega la difficoltà delle donne di esporsi, di prendere la parola, di avere uno scambio vivo in luoghi misti: esse si danno con tutto il loro essere, con tutto il loro corpo. Il modo in cui le donne si espongono è descritto molto bene da H. Cixous: «Ascolta una donna che parla in una assemblea (se non ha dolorosamente perso il fiato): non “parla”, lancia nell’aria il suo corpo tremante, si lascia andare, vola, si dà tutta intera nella sua voce, con il suo corpo sostiene vitalmente la “logica” del suo discorso: la sua carne dice il vero. Si espone. Per la verità, materializza carnalmente quello che pensa, gli dà un significato con il suo corpo. Inscrive ciò che dice, perché non rifiuta alla pulsione la sua parte indisciplinabile e appassionata alla parola. Il suo discorso, anche “teorico” o politico, non è mai semplice o lineare o “oggettivato”, generalizzato, trascina nella storia la sua storia»[6]. Parlare è vissuto come una trasgressione, non solo perché è un allontanamento dall’intimità con la madre, dalla sua voce, dal suo canto, ma anche perché il discorso è fallico. C’è dello scarto – dice Cixous – in quello che diciamo. Si tratta di una difficoltà che io riconduco ancora una volta all’incapacità o impossibilità delle donne di portare nel luogo in cui si trovano quella forza femminile che esse incarnano.

Mi sono resa conto infatti, a partire dal mio luogo di lavoro e dalle amicizie di donne e di uomini che frequento, che c’è ancora la difficoltà delle donne di prendere la parola in luoghi misti. Essere in alleanza e in conflitto con gli uomini è come stare in un crinale, da una parte c’è il desiderio di esserci e dall’altro c’è il pericolo di perdersi. Non è facile stare in una situazione-limite, in una situazione in cui basta poco per trovarsi nell’opposto del nostro desiderio. Da lì deriva il silenzio di molte donne (tra cui il mio) per paura di annullarsi nei giochi del potere o di perdersi di fronte alla differenza maschile. Non si tratta infatti solamente della questione del potere schiacciante e assordante, concepito come un pericolo per l’autorevolezza dei nostri desideri; non si tratta solamente del pericolo di slittamento verso l’oggettività che ci fa perdere di vista l’esperienza simbolica. Quello che le donne temono è di non riuscire ad aprire conflitti con gli uomini, i quali con i loro strumenti sedano la forza femminile; temono la seduzione degli uomini la quale potrebbe trasformare la donna in bella accomodante e dipendente; temono che gli uomini possano riempire di sé tutta la sfera della vita politica, con la paura quindi di trovarsi di nuovo ai margini della vita privata. Allo stesso modo temono anche le alleanze, le quali si verificano nel momento in cui le donne si affidano agli uomini, nel momento in cui le donne hanno desiderio o necessità di sapere quello che gli uomini pensano e quello che li convince della pratica delle donne[7]. Insomma alla fine mi chiedo: quanto mi faccio modificare e condizionare dall’altro, quanto sono disposta a farmi interrogare dalla differenza maschile? Fino a che punto accetto l’alleanza con gli uomini? Sono in grado di affrontare un conflitto con gli uomini?

La forza delle donne, la forza di non essere un’identità arroccata su se stessa bensì in relazione con l’altro/a, corre il pericolo di trasformarsi in una difficoltà, la difficoltà di esporsi, di prendere la parola, di creare e affrontare i conflitti. Quello che ora mi chiedo è come ciò sia possibile. Come può accadere che la forza delle donne degeneri nella loro debolezza? Come darsi interamente, come lanciarsi nell’aria con tutto il proprio corpo per dirla con Cixous quando le donne non ha la percezione di verità? Quel silenzio diventa reticenza. Oggi più che mai occorre una particolare attenzione a quel silenzio per trasformarlo in parole e in pratiche.

Quello che ho sempre apprezzato della politica delle donne è il fatto che invece di affidarsi a modelli già costruiti con la loro presunzione di valere universalmente, si costruisce sulla base di desideri, esperienza vissuta ed emozioni. In altre parola, la politica delle donne parte da qualcosa di percepito come vitale. È una politica che si ancora su ciò che è vero e cerca in esso e a partire da esso di trovare le mosse necessarie per modificare se stesse e il mondo. È una politica allora che ascolta quello che risuona dentro e fuori l’esistenza come un appello irrinunciabile, riconoscendolo come qualcosa di urgente da fare e da dire. C’è politica solo se c’è esperienza viva.

Il femminismo storico ha insegnato che un modo per uscire dalla difficoltà del mutismo e dell’estraneità delle donne è, se l’occasione lo permette, di trovare un’alleanza con l’altra. Per affermare infatti una fonte femminile di autorità sociale le donne venute prima di me hanno portato avanti la politica della separatezza, vale a dire una presa di distanza fisica e simbolica dal maschile. Atto a cui riconosciamo la validità in quanto ha saputo dare forza e autorità alle donne e è stato capace di creare processi autonomi e assimetrici. Senza questo legame con le donne non ci sarebbe nessuna forza. Quello che voglio dire è che rispetto a quella politica delle donne, ovvero la politica della separatezza e dell’affidamento, sento il bisogno di sottolineare che oggi più che mai occorrono parole capaci di interpretare la sorgente viva di tutto ciò che è e pratiche adeguate per mettere in circolo la sua vitalità. Affidarsi allora alle donne e agli uomini significa affidarsi alle loro differenti posizioni di riconoscere ciò che è vitale e alle loro differenti modalità di significare il materno. Ciò che è riconosciuto come vitale dà la giusta spinta all’esposizione, senza la paura di perdersi o di venirne schiacciate. Ciò che incita le donne a prendere la parola non è solamente una questione di necessità, la quale potrebbe produrre l’effetto contrario e risultare oppressiva e soffocante; non è neppure una questione di piacere che accompagna la pratica politica quando è efficace ma non è sufficiente per convincere una donna a prendere la parola. Pur essendo percepita come necessaria e piacevole, la vitalità da cui nascono le pratiche politiche delle donne, si distingue sia dalla necessità che dal piacere. Riconoscere ciò che è vitale significa riconoscere ciò che ne va di te, del tuo essere e della tua felicità. Ciò che è vitale è allora la leva con cui la donna solleva la propria voce e il proprio volto per dire, per vedere, per agire. La vitalità (lo dice la parola stessa) è anche ciò che ti permette di inventare e di introdurre nel mondo e nel linguaggio qualcosa di nuovo, invece di giacere nella preoccupazione di tradire o di continuare i giochi già teorizzati e messi in pratica dalle altre donne. Solo seguendo ciò è vitale è possibile per le donne giocarsi la differenza femminile e la competenza simbolica. Si tratta allora di incarnare quella forza che infine è il coraggio di prendere la parola per una riflessione vera, nel senso nata da me, sentita e sperimentata sulla mia pelle, detta e raccontata con le mie parole; una riflessione sul mondo che è quello di oggi, un mondo che è stato attraversato dal femminismo, che ha in parte annunciato e in parte portato la fine del patriarcato. Un mondo nuovo che apre nuove scommesse.

[1]              In un’intervista ad Antoinette Fouque, in cui si ricorda la genesi del movimento delle donne in Francia, si legge: «Ci premeva liberarci dagli obblighi domestici, professionali e passionali delle nostre vite. Volevamo allargare il campo della nostra soggettività. Volevamo lanciarci alla scoperta delle donne attraverso la scoperta di ciascuna, a cominciare da noi stesse», in A. Fouque, Donne in movimento:ieri, oggi, domani, in Alessandra Pantano (a cura di), Contaminazioni. Il pensiero della differenza in Francia, il Poligrafo, Padova 2008, p. 44.

[2]              Ida Dominijanni, Nella piega del presente, in Diotima, Approfittare dell’assenza, Liguori, Napoli 2002, p. 202. In questo volume si vedano anche i testi di Annamaria Piussi e di Diana Sartori.

[3]              Patrizia Caporossi, Il corpo di Diotima. La passione filosofica e la libertà femminile, prefazione di Laura Boella, Quodlibet, Macerata 2009.

[4]              Cfr. Luisa Muraro, Partire da sé e non farsi trovare…, in Diotima, La sapienza di partire da sé, Liguori Editore, Napoli 1996, pp. 13-14.

[5]              Luce Irigaray, Speculum. L’altra donna, trad. it. di Luisa Muraro, Feltrinelli, Milano 1998, p. 211.

[6]              H. Cixous, La jeune née, in A. Pantano (a cura di), Contaminazioni. Il pensiero della differenza in Francia, cit., p. 190.

[7]              Cfr. Sara Gandini, La luna e le lunine, in Diotima, L’ombra della madre, Liguori, Napoli 2007, p. 81.