diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 9 - 2010

Anarchica e Femminista

Una barriera (che) apre mondo

I taciturni sono i conservatori della vita

Franz Kafka, Indagini di un cane

 

 

Abiti vaporosi di orpelli, cappellini, borsette e fiocchi mi sono andati sempre stretti. Insofferente allora, non proprio così ora, mal tolleravo definizioni appiccicate come calcomanie su di me, di cui sapevo poco e percepivo molto e su cui gli estranei-altri sembravano invece conoscere molto senza sapere niente. Non certo i miei genitori – soprattutto mia madre. Anche loro erano “altri”, ma secondo una prossimità che mi dava slancio a prendere confidenza con l’altro da me. Era il lontano-vicino dell’amore…

 

Come allora ora,  mi nascondevo dietro muri immaginari per non essere invasa dai mille diktat di dover essere così piuttosto che colà; quello invece di questo, troppo o troppo poco rispetto a non so cosa. Non intendo affermare di aver ricevuto una rigida educazione, tutt’altro. Ma quelle doverosità imposte senza che avessi avuto il tempo di verificarle le avvertivo violente e dolorose: mi facevano sentire sicura quando stavo in braccio a mia madre e persa se mi lasciava. Aver permesso di scollarmi da lei è stata la sua prova di amore.

Immaginario non era il muro raccomandatomi – quale insostituibile «maestro di tennis» – da mio padre e contro cui, avversario-compagno di gioco visionario, batti e ribatti, esercitavo i fondamentali: diritto rovescio, rovescio diritto…

Il gusto piccante però lo trovavo con la volé. La linearità del gioco e del tempo, che impone alla palla di rimbalzare a terra non più di una volta, viene compressa e anticipata, nella visuale del campo, dal colpo a volo. In virtù di un’intuizione che non dà adito a troppe speculazioni e necessita riflessi tempestivi. In gergo tennistico, la discesa a rete, l’attacco a rete (approach to the net) viene catalogata come tattica per rompere il ritmo all’avversario. Con l’imprevisto della volé, appunto. Per mio conto la considero una forma di difesa, di dislocazione dalla linea di base dove il gioco di fondo, per la sua tenuta, esige una robustezza che non avrei potuto sostenere. Ho giocato sempre meglio il doppio del singolo.

 

Ma cosa c’entra – domando – questo ruminare nell’infanzia tennistica con l’intento di assolvere alla richiesta di scrivere qualcosa sull’incrocio tra politica delle donne e politica anarchica? Che non combaciano affatto, eppure convivono in me, presenti all’esperienza e allo scambio che ho dell’una e dell’altra.

Ruminare nell’infanzia e balbettare con l’impersonale mi portano a dire, fuori da ogni opzione ideologica, che donna e anarchica lo sono sempre stata. Con una differenza però che sta, per modo di dire, all’origine della mondanità. Laddove il pronunciamento «sono una donna» ricompone la scissione tra mente e corpo operata dalla cultura patriarcale, per sua parte il dettato «sono anarchica» tende a predicare un cliché, per quanto singolare, in concordanza al genere grammaticale. Che ne è della soggettività femminile e dell’esistenza delle donne? I sessi sono due. Evidenza rimarcata dal fatto che li si trascenda, in corporis e in verbis.

I fievoli bagliori, la luce dei quali alla verifica dell’esperienza diventa viva, richiedono di domanda in domanda una risposta che pone all’occorrenza una questione ulteriore. La ricerca d’essere delinea l’orientamento.

 

Come sarebbe una società senza leggi scritte a governarla? È (stata) la domanda implicita formulata per proteggermi con abiti attillati. Il pozzo senza fondo del rispecchiamento riflette l’immagine ebete verso l’origine senza tempo di un’anima sconosciuta, che nel tempo avverte la creazione continua, ab aeterno, sub specie aeternitatis, nella forma dell’eternità.

“…non so come, ma l’universo è sempre esistito”[1] segna la scrittura dell’anima annichilita.

È un belvedere sul mondo che oriente, origine, orientamento, ordine girino in un punto oscuro di cosmogonia parlante, a condividere una stessa radice d’etimo: or, ur. Segno e significanza; urgenza e in-sorgenza simultanee.

Il richiamo dell’oriente fece scoprire a Cristoforo Colombo un altro continente… Che già esisteva indipendentemente dalla sua scoperta. Per trovare sentiero – identità persa nell’altro nome che non era il mio – sono attratta dall’India. Memore che India è il nome dato dagli esploratori occidentali (definitivamente dagli Inglesi) a quel territorio che gli abitanti autoctoni e i cultori della sua storia hanno cronicizzato Mahabàratha, il Grande Paese[2].

 

«Come sarebbe (stata) una società anarchica?». L’interrogativo richiede l’avventura del viaggio e occorre non perdere l’assunzione del «sono una donna». Ricerca più difficile a dirsi che a farsi – ma se non almeno tentata a dirla sembra non fatta del tutto. L’avventura mobilita interiorità ed esteriorità in una immaginifica commistione e, in scarti d’essere, frammenta confini, sgretola modelli, sprigiona realtà confinate ai margini dell’irreale; espande fantasmi dal profilo ammiccante.

In alto mare i bagagli sono d’ingombro; pèrdono le perigliosità voluttuose dell’alto e il sapore salato del mare sapiente.

Il bagaglio fa da zavorra alla leggerezza del pensiero che, chiglia di scafo marino, radica chi sta navigando: quasi fosse ormeggio iniziale da cui bisogna disattraccare, salpare e affrontare le acque.

Simone Weil annota nei Quaderni: “Si ritiene che il pensiero non impegni, ma esso solo impegna e la licenza di pensare racchiude ogni licenza”.

E un primo punto di tangenza nella circolarità tra politica delle donne e anarchismo vivente investe la dimensione simbolica del pensiero. Il balbettio dell’«essere anarchica» fa i conti con la tradizione e le presenze di quella cosa, che assumo per difendermi dalle minacce di arruolamento, trovano l’imperiosità fedele all’«essere donna».

I tradimenti però ci sono, tradimenti grandi per grandi amori. Che mai si rinnegano.

 

Sono dei significanti a incrociare le rotte distinte dell’anarchismo e del femminismo, sulla base dei quali prendo slancio per dirne. Di questo e di quello è un parziale e oscillante sguardo a focalizzare alcuni tagli. Non sono fornita di un grandangolo che faccia vedere a tutto campo, ed è bene così in quanto così è. Vado a tastoni come un bruco nelle viscere della Terra. Solo certi animali, come il jaco e il camaleonte, possiedono, insieme al mimetismo, un’ottica a trecentosessanta gradi: cinque unità in meno rispetto ai giorni che computano l’anno della rivoluzione terrestre.

 

Il Sottosopra verde, uscito nei primi anni ‘80 con il titolo Più donne che uomini, tocca il nervo vivo del lessico anarchico incentrato – per come io l’ho recepito – sul disfacimento di qualsiasi potere, autorità, ubbidienza. In quella pubblicazione emergono significanti che aprono una breccia proprio nella consolidata nomenclatura anarchica. Affidamentoautoritàgerarchie irrompono da quel testo come un fulmine a ciel sereno nel logòs che scorpora fuori di sé, dal luogo oscuro delle loro radici, significati e significanti.

È il fallologocentrismo – mascherato da neutro oggettivo – messo a nudo con l’avvento della libertà femminile che, in quell’opuscolo simbolicamente e segnatamente si manifesta come pensiero della differenza sessuale. La politica prima, che mette al centro la vita e le relazioni umane, viene altresì considerata “politica del simbolico” e per prima si intende quella che notoriamente è relegata dalla modernità come “questione della donna”.

Non intendo rinnegare, e tanto meno a colpi di critica denigratoria, alcunché in questo fertile e arricchente intreccio tra politica delle donne e anarchismo. Dell’una e dell’altro sento il bisogno di essere nutrita nutrendoli. Ma per farlo occorrono, in fondo, momenti di digiuno.

Quelle brecce, racchiuse nella dimensione personale (il personale è politico), hanno una vena anarchica, in analogia a quel sottrarsi – coerente all’idea professata di giustizia – da leggi che statuiscono regimi di verità assoluta dimenticando il bene comune.

Le ferite inferte da quei e da questi fendenti curano, aprono ad altro nella modalità di chiudere agli arroccamenti dell’io, del medesimo e dello stesso sostenendo il vuoto da cui un’ulteriore verità è sempre possibile.

Chiara Zamboni nello studio su Pensare in presenza[3] pone la domanda, che svolge il suo lavoro, in questi termini: “Come combattere senza determinarsi?”. Anche se avvertito su percorsi e con mosse di pensiero diverse,  il richiamo politico della contraddizione non manca di agire in me. Mi fa dire: essere anarchiche/ci significa non deresponsabilizzarsi al mondo, ma starci con un di più di senso morale;  ed essere donne e uomini non sta a una definizione consolatoria, socialmente precostituita, assume bensì il valore di libero senso della differenza sessuale.

In che cosa consiste allora questo di più di senso morale? Paradossalmente sta – almeno io qui lo aggancio – nel rifiuto di agire in nome di leggi umane, scritte nel tempo e nelle forme che i tempi consentono – non di rado per legittimare ingiustizie e privilegi. È in ascolto fedele, e forse anche con rischio di dannazione, a qualcosa che preme cui mal si adattano i nomi, che è possibile strappare un lembo di verità.

Il ragionamento lo tento così: se non rubo, se non uccido, se non faccio intenzionalmente troppo male secondo i parametri del senso comune, non è per rispetto delle leggi vigenti, o per paura della sanzione che mi potrebbe essere inflitta, ma perché mi affido a quella cosa ignota, talvolta nominata Dio, talaltra Inferno. In fondo la mia ricerca nel mondo tende a sapere come gli umani sono, non come dovrebbero essere. E non intendo confondere gli umani con Dio come lo confondono le idolatrie dei poteri costituiti. Come non voglio confondere l’amore per la legge con la legge d’amore.

Ecco, la precoce domanda di come potrebbe essere una società senza leggi a governarla trova una remota parvenza di risposta nel sogno di crederla una condizione di autenticità. Lo so che i conti non finiscono mai e finiscono sempre per non tornare. I conti sono per questo operazioni di libertà.

Il di più di senso del «sono una donna» è il femminismo a rilevarlo. Per me è (stato) il femminismo della differenza a dischiudere l’orizzonte di un destino che accetto come un dono, che non è (stato) facile accettare.

 

Se penso all’abbraccio anarchico come contrappunto di una risonanza interiore che mette radici nella mia prima giovinezza, sorto per vivere nell’interlocuzione fra mondo umano e inumano del mondo, credo di poter dire che quella profezia del «sono anarchica» è (stata) una risposta su nulla. Efficace e imponderata: efficace perché mi avvicina alle cose e alle parole, imponderata perché va a lenire qualcosa di cui non ho misura.

L’ideale anarchico verso il quale nutro aspirazione e sul quale ispiro comportamenti di vita è irrealizzabile, lo so. Ma proprio per questo – magistralmente lo insegna Simone Weil – molto meno degradante, anzi “non degrada affatto se non per l’illusione di possibilità”[4]. È un desiderare senza fine e senza appagamento oggettuale che ai miei occhi rende l’ideale vero, disinteressato, sensibilmente bello. Simile ad una preghiera davanti a un limite su cui preme l’infinito, una barriera dalla quale la palla viene sempre rilanciata…, il rito degli ebrei ortodossi al muro del pianto.

Agire senza scopo è agire folle? Forse è l’unico modo per salvarsi? Alla preghiera, la necessità – ciò che esiste – invoca la bestemmia. Sono riportata, d’altra parte, con i piedi per terra dato che gli anarchici esistono. Esistono anche le anarchiche, ovvio, ma per l’impatto negli ‘anni ruggenti della militanza’, un po’ ammutolite nel linguaggio ideologico e annidiate all’ombra del compagno, quando la presenza femminile, senza che il simbolico sottostante possa dar conto del di più d’essere che eccede il linguaggio dato, si inscrive compiacente nelle icone della tradizione anarchica (Louise Michel, Emma Goldmann…). Affamata come ero e sono di quell’ideale romantico – frainteso e denigrato – condannato e criminalizzato nei corpi e nello spirito di chi a quel nome dà fede – Sacco e Vanzetti, Salsedo, Pinelli, Ferrer…- mi gettai nella mischia scoprendo amore, contraddizioni, vicende e storie con amiche e amici più ricche/i di quanto avessi immaginato; protetta dalla loro stessa esistenza, più numerosi/e di quanto un qualsiasi sedicente grande partito di massa in realtà conta, rassicurata dalla loro ingenua consapevolezza di saper essere  “un ideale l’amante sua”.

 

Il «sono una donna» mi riconcilia con il troppo umano che il trascendimento ideale induce, immemore dell’essere umano che mi è capitato di essere. Le parole non soffrono più la neutralità del discorso dalla cui presa, ai miei tempi, comincia(va) a svincolarsi la libertà femminile. “Il corpo è mio non dello stato” dichiarava lo striscione con l’insegna anarchica alle manifestazioni delle donne negli anni ‘70.

Riguardo alla scissione, operata dalla tradizione politica patriarcale tra pubblico-privato e superata dal femminismo che abbandona i luoghi misti maschili e  inaugura la pratica di relazione fra donne, rilanciata a sua volta dal femminismo della differenza sessuale con la reiterata richiesta agli uomini di aprirsi attraverso quel taglio – per quella scissione, dicevo, si impegnano a ricucirla la teoria e la pratica anarchiche. Pubblico e privato non delineano luoghi separati, questi vengono, per modo di dire e di fare, ricompattati sulla falsariga di un lavorìo morale di coerenza. La falsa riga è tale non perché la coerenza non riesca in assoluto – anzi questo insuccesso è il meglio che il tentativo esprime con il suo meno – ma perché insiste sull’istanza volontaristica contro tutto ciò che le si oppone, ricacciando fuori di sé ciò che sta in sé. E ovviamente perché il corpo politico lo si assume neutro, per quanto sia riconoscibile in figura di corpo maschile.

Per spiegarmi porto un esempio. Una cara amica, ma non è la sola, quando discutiamo di omofobia, cercando per mia parte di porre l’accento sulle dinamiche soggettive, svia il discorso sulle responsabilità della chiesa cattolica, sull’integralismo religioso, sulla economia capitalistica, sulla società classista e sessista… Non senza una buona dose di verità, io credo. Quello su cui la scissione pubblico-privato insiste sta forse nel non avvertire quanto dello spazio pubblico esca dallo spazio privato, intimo, del sé?

All’istanza volontaristica della coerenza si collega, a mio avviso, l’enfasi individualistica su cui ruota il discorso anarchico. Anche quello anarchico è un partire da sé, ma un partire da sé per ritrovarsi uguale a prima della partenza, laddove il partire da sé della pratica politica delle donne conduce a un non farsi trovare. O meglio, per ritrovare altro che non conferma il «se stessa».

Ma come si fa a perdere qualcosa quando quel che si ha sembra sempre troppo poco? Le donne rispondono con il riconoscimento alla madre. Il pensiero, aperto all’ordine materno e alla relazione di disparità che quell’ordine richiama quando, creature bisognose, ci siamo (donne e uomini) affidati a lei, lavora a dare corpo simbolico a quella cosa lì, che ci determina senza determinarci in assoluto.

Il pensiero occidentale ha preso le mosse dalla mossa oscena del matricidio simbolico e inizia a esercitare la libertà, a concepire la politica agendola tra individui maschi, sradicati dalla matrice della vita e scambiandola in riferimento a altri individui maschi, per i quali alla riproduzione della vita e ai bisogni del quotidiano hanno provveduto le donne.

Non di un lamento si tratta, ancor meno di una recriminazione. La libertà femminile ha guadagnato da quell’esilio. Lamenti e recriminazioni intonate dalle derive emancipazioniste si sono dimostrate piste omologanti. Se vuoi sapere chi sei – recita una canzone della Nannini – le cose che sai non bastano più. Per quel di meno di linguaggio che è un di più d’essere c’è l’opportunità di venir assunto, in tempi di fine patriarcato, non come un diritto a dire-fare, ma un obbligo nei confronti del mondo.

 

 

Prendo la palla al balzo; anzi al volo intendo prenderla.

Le parole-significanti del Sottosopra verde, Più donne che uomini, suscitarono alle mie orecchie “anarchiche” perplessità e incanto, tra sconcerto e indignazione. Ma proprio dai perturbanti turbamenti, mi resi conto, quasi a fior di pelle, che lì qualcosa di vero si apriva: qualcosa che mi riguardava. Sì, alla lettera: (mi) ri-guardava. Riguardava il (mio) «sono una donna» e sentivo l’obbligo verso il mondo dell’«essere donna», proferito fino ad allora tra nascondimenti e mimetismi, tra dissimulazioni e tentativi di riscatto, che il femminismo emancipazionista non dissipava ai miei occhi dallo sguardo anarchico.

Quel testo del Sottosopra verde nasce dalla lettura messasi in ascolto di un altro testo, molto più difficile da decifrare e inscrivere nella cornice di senso che lo considera luogo intimo, privato, indegno della nominazione politica. Ed intimo e privato lo è, con tutta la ricchezza e il di più di realtà che la sua parola dispiega. Hanna Arendt ritiene politico il fatto stesso del dire, non l’oggetto del dire. E la luce di quel luogo, senza fin qui riferimento politico, usciva lieve e netta dal fondo senza fondo da cui provengono pensiero ed essere.

L’autocoscienza femminista dette i suoi frutti, spendibili subito e qui, per donne e uomini che sanno mettersi in ascolto di sé, da lì partire e lasciare che le cose accadano. Il taglio della differenza sessuale prende il volo simbolico di essere al mondo e di desiderare d’esserci con signorìa e agio.

L’istanza anarchica tiene in massimo conto l’impegno agìto in prima persona. Ma per come l’ho vissuta e percepita, essa risuona appunto nel pro-nome di prima persona, nell’io dell’atto individuale più di uomini che di donne. L’impatto della differenza sessuale apre un primo cratere nella solidificata ideologia del patriarcato, dove l’essere donna era, nella fattispecie rivoluzionaria, essere compagna. In breve, il femminismo della differenza, che in quel verde liberatorio del Sottosopra inaugura a livello simbolico l’avvento della soggettività femminile e che successivamente nel Sottosopra rosso, documento al contempo esplosivo e pacato in ordine allo spostamento simbolico che andava operando, nasce dicendo: «Il patriarcato finisce quando finisce nella mente di una donna». Ma non per ciò c’è da fare salti di gioia[5]. I colpi di coda del “drago”, si sa dalle favole, si fanno più virulenti quando la bestia è morente: una bestia che in realtà ha fatto ordine – nel bene e nel male – assume nell’agonia le sembianze del mostro sofferente.

 

Al pensare le cose, capita di imbattersi in un ordine di convergenza che immediatamente le distingue. Forse su questa magia alita lo spirito che fa parlare il pensiero?

In tempi di caos postpatriarcale[6] il sentore anarchico si fa profumato ed entusiasmante; la politica delle donne si libera sfrontatamente. Non nel senso, per l’una e per l’altro, di procedere senza criterio, ma di stare piuttosto ad un orientamento desiderante. Non cedere sul desiderio[7] mi sembra una perla di politicità, una fonte di risorse inesauribili e rinnovabili come lo sono le energie del sole, del vento e dell’acqua. E del desiderio orientante intendo quella che si sprigiona non per il raggiungimento di un oggetto-progetto, ma nell’efficacia dell’ideale che sta, in rapporto al pensiero e all’agire, in una impossibilità rinnovellante, in quanto contraddizione sempre irrisolta. È un gioco all’infinito, proprio come regole e punteggi del tennis coronano la partita da giocare. Infatti per come questi e quelle sono concepite, il gioco in teoria potrebbe in pratica non finire mai.

Sentore anarchico e sfrontatezza dicono di orientamenti giocati nelle contingenze del momento senza essere momentanei e senza in esse esaurirsi, come dire: l’universale in un dettaglio.

La Rivista A e Via Dogana sono tra le poche, se non le uniche, due riviste che nel territorio milanese vivono “felicemente” da poco meno di un quarantennio. Nate entrambe dagli ardori del ’68 e dintorni, continuano a esserci, vive e vegete: e senza contributi statali. Vorrà dire ben più di qualcosa se dal crollo delle ideologie, dalle derive del riflusso, dalla crisi dei sistemi economici, esse escono indenni continuando a fare pensiero, politica e cultura.

 

Il pensiero nasce attraverso l’oblio, si è detto; e attraverso l’oblio – oso dire – farsi passaggio ora all’impensato di allora.

Intorno all’area semantica del termine anarchia e in rapporto al lessico politico che la libertà femminile sprigiona e va sciogliendo gioca una specie di sortilegio che li accomuna nel subire gli slittamenti del piano inclinato del linguaggio. Stato di caos, disorientamento generalizzato, immaginario apocalittico gli effetti d’anima impressionati dalla voce “anarchica”; sostituzioni sistematiche, occultazioni e fraintendimenti le risposte fallocentriche riservate alle questioni poste dalla politica del simbolico, per le quali chi ha in mente la sintassi del potere istituito non ci sente. Ben-dice Ida Dominijanni[8] a proposito del “misterioso dispositivo per cui noi diciamo differenza e si traduce parità, noi puntiamo sull’autorità e si deduce che vogliamo più potere […]”. Mal-dice il diabolico Anarchik sogghignante: «Farò del mio peggio!».

L’una e l’altra ostruzione verso la benedizione del maledire che colorano il conflitto del simbolico, a me sembrano caricarsi su paure, sfiducie, forclusioni agite e indotte dal riferimento al potere che, nei tempi correnti, si difende dal riconoscimento della superfluità in caduta libera e consumata in sé medesimo, impegnandosi a normare i comportamenti perfino in ordine all’evento della vita e della morte.

Il conflitto apertosi non infierisce contro nessuno; è un conflitto simbolico in sé che si rivede subito fuori di sé. In altri termini posso dire trattarsi di conflitto reale tra spazio pubblico e spazio privato. «Sono una donna» appare, con gioia, il tratto che ricompone, in un certo senso e fortunatamente non definitivo, quella separazione sempre ridefinibile… Si tratta di andare in cerca di parole d’amore… come sa fare senza sapere di farlo il potere di chi non ha potere.

Il vecchio anarchico del presente mi dice: «noi anarchici dobbiamo voler bene a tutti; non c’è uno stato anarchico…». «Il potere non ama altro che se stesso», (mi) insegnano le politiche di Diotima.

L’arte della guerra[9] comanda di deludere la realtà, spiazzare l’avversario simulando e dissimulando; obbliga a non perdere il momento in cui è necessario disattendere gli ordini dell’imperatore: ordini che per la vita simbolica, non meno per quella reale, si rivelano ben più necatori dei gesti marziali con cui il nemico si para. Comporre una vita non richiede diserzioni, richiede di praticare l’arte della guerra stando saldamente in bilico tra ordine e disordine, tra ideali e necessità, giacché il valore della legge consiste nel trasgredirla.

 

 

 

Che posso farci se lei è anarchica?

 Niente se non la imito

Clarice Lispector, Un soffio di vita

 

Per sottrarsi al potere bisogna averne molto. Lascio il molto per dire altro. Quantità persa, qualità ritrovata? Dico sì, senza accanirmi sulla quantità che perde di sguardo. La prospettiva vacilla e l’eco dell’altro invoca no: di quanto potere ho bisogno per vivere in serenità? Equilibrio instabile e principio di indeterminazione vanno di pari passo alla dismisura tendenziosa. Aiuto, arrestatemi!

Ho bisogno di essere ordinata dalle cose: esse non soffrono il mio disordine. Kafka scrive Odradek, Autore di Lispector trova la parola Faruscante, Samuel Beckett esclama Basta[10].

Tra oggetto e risoluzione sta un participio presente. Scrivo scarno e brutto, non ho ornamenti. Me li regala Walzer: “Ho raccolto fiori per deporli sulla mia semplicità”[11]. È così che l’amore viene alla mancanza? Ciò che non ho mi tiene in vita, ciò che non so mi tiene al mondo.

Per la fatalità di non conoscerlo lascio le cose al loro destino; i fatti mi sorpassano. Insisto sulle parole e mi manca essere. È spossante il potere: per questo lo rifiuto? Non ho potere di scelta, in vero. Qualcun altro sceglie per me: beata infanzia di chi senza parole rende bene il male. La ricchezza invisibile è la grande povertà.

Ecco, partecipo al presente di crisi non decidendo nulla, anzi decido di non decidere. Sto bene nell’essere non-tutta lì nella logica consequenziale di voler conseguentemente quello che a parole si dice e in concreto si intende: la realizzazione del desiderio. Il desiderio sta nel realizzante . “Lei non può avere quello che dio vuole che lei abbia, perché se avesse quello che dio vuole, dio non vorrebbe”[12].

La tradizione anarchica è documentata per buona parte in riferimento a personaggi singolari, non collegabili a un unico e precisato ceto sociale che  ridimensioni in qualche “…ismo” il senso della vita, del loro ideale di pensiero e di azione. In questa specie di anomala storiografia astorica[13] si incontrano: prìncipi e fornai, intellettuali e contadini, combattenti e contemplativi naturisti, operai e rivoluzionari, aristocratici latifondisti dismessi e mistici banditi. Tutti potenziali e alcuni deliberati attentatori, senza organizzazione alle spalle, della regalità costituita.

La filologia vivente della tradizione anarchica è emblematica nella autobiografia di Emma Goldman che si intitola appunto Vivendo la mia vita. Segnatamente tale caratteristica storiografica dà conto di una movenza filosofica “in atto e in pratica”- per usare i termini con cui Simone Weil definisce la filosofia – per cui la verità è la vita che ognuna/o testimonia, a volte distrattamente, altre dichiaratamente ma sempre e necessariamente esposta allo sguardo dell’altro a sua volta esposto. È la condizione umana di relazione espositiva a definire i contorni della politica, troppo schiacciata sul logos del ragionamento etico.

 

Con l’avvento della libertà femminile e il richiamo alla politica del simbolico, il senso della storia scorre anacronistico – il presente resuscita il vecchio-nuovo che è rimasto indietro. Pensato come guadagno e spendibile in ogni tempo è, per uomini e donne, rigiocabile in tempi di crisi.

Con la sua lezione al Seminario di Diotima, Annarosa Buttarelli invita a praticare l’anacronismo. Approfittare dell’assenza simbolica delle donne dalla storia storicistica, intendo dire dall’iscrizione con cui il patriarcato ha monumentalizzato la storia (non poteva scriverla se non nei termini del proprio sessuato linguaggio, oggi in disfacimento caotico) è una risorsa che mostra come essere al mondo in piena libertà (le donne sono sempre esistite) prescinde dall’adesione ai poteri statali, per quanto diverse siano le forme da essi assunte nel corso dei tempi: modernità e democrazia rappresentativa incluse.

A onor del vero, solo nei luoghi della politica delle donne e nei testi del pensiero anarchico ho sentito affermare: «la democrazia non mi rappresenta»  e «ogni stato, democratico, dittatoriale, aristocratico o comunista esso si dichiari, esercita sempre il dominio dell’uomo sull’uomo». Sono due  proposizioni differenti, come i sessi che parlano al mondo, ma hanno in comune il senso dell’umano-storico.

Paradossalmente, o se si vuole – anacronisticamente – i successi della rivoluzione femminista (unica rivoluzione sorta dalle ceneri del ’68 e che a più uomini ma anche a non poche donne accade di non riconoscere) potrebbero rivelarsi una perdita secca per la stessa libertà femminile.

È il pensiero della differenza sessuale a interrogare e rimarcare questo rischio: la scomparsa, nell’abbraccio egualitario ed emancipazionista, delle donne. Il nuovo rimasto indietro, quello che, tornando al passato, riguardava il senso delle battaglie per i diritti (aborto, divorzio…), non si esauriva, né si esaurisce tutto nella forma del diritto, appunto. La legge a favore dell’aborto non era una legge abortista. Si lottava (anche) per ‘semplicemente’ depenalizzarlo, visto che il codice Rocco, nonostante la caduta del fascismo, rimaneva in auge nel codice nato dalla resistenza, rubricandolo reato contro la stirpe. Fermo restando che i cucchiai d’oro dell’aborto clandestino continua(va)no, sotto mentite spoglie, a rimestare nel corpo delle donne. Stesso discorso vale, sotto certi aspetti, anche per il divorzio: un inghippo per salvare la famiglia patriarcale, lo stesso per demonizzare le convivenze omosessuali?

Ma il discorso che tento non sta proprio così. È un sentore, più che un ragionamento, quello che mi fa giudicare gli slittamenti normativi, cui viene sottoposto il discorso della libertà femminile, una difesa del potere che si rifugia appunto nell’accanimento giuridico come in quello terapeutico. È la biopolitica nei tempi di esaurimento patriarcale….

Le leggi vengono sempre dopo la polvere, nel migliore dei casi a diluire, nel peggiore a nascondere le tracce di percorsi viventi che vanno oltre la legge. Il richiamo imperante (e lagnante ) alla necessità di “regole certe, norme chiare per tutti”(?) con cui si esprime la politica immischiata con il potere, è come fare la voce grossa quando non si ha l’autorità di dire qualcosa di vero. È la difesa che ogni stato promuove a dissimulazione della propria futilità, per non rendere superfluo il suo esercizio.

Cosa vuol dire barcamenarsi tra femminismo e anarchismo in cerca di altro? Vado davvero in cerca di altro? o di nulla.

In alto mare le sponde sono miraggi, danno la forza di proseguire. Non so né perché né come: una chimera forse che espande i confini del reale.

Il colpo perfetto nel tennis è gesto-zen: freccia in tiro con l’arco. Nella frazione di un secondo-primo, corpo-palla-spazio si concentrano in punto. Il punto che non sta “tutto” nell’errore dell’altro è fuori da ogni spiegazione tecnica. È il colpo perfetto che accade, di fare.

 

A partire dal duplice proferimento «essere donna», «essere anarchica» sento di toccare elementi scissi, simili eppure profondamente diversi. Per significarli servono termini differenti: astensionismo di cui ragiona la politica anarchica e pratica sottrattiva di cui parla la politica delle donne, segnalata dalla ‘storia’ come assenza. L’uno e l’altra (me li) dicono in maniera dissonante. Nel movimento anarchico votare o non votare, parteciparci o star fuori dai governi costituiscono i punti forti e i punti deboli del dibattito interno. Le argomentazioni per non starci al gioco del potere sono espresse sulla base del “simile che infetta il simile” e forse anche in base ad un latente convincimento di non avere gli anticorpi. Il punto è debole se il movimento è ingabbiato sulla trovata di un quadro di riferimento precisato una volta per tutte, da applicare come principio di validità e di connotazione. In pratica però la cosa resta irrisolta, potenzialmente “aperta” perché chiusa nei limiti della relazione interlocutoria. In ciò sta la forza della sua indeterminazione. Per mia parte, ritengo l’astensionismo un punto forte della teoria anarchica, del «sono anarchica». Ne percepisco il lato desiderante che mi si presenta come bisogno di distanziarmi. Da che cosa? Sento di poter rispondere: dalle cose appaiate, troppo vicine e dall’estenuante reiterato valore riservato al già detto, già fatto, già istituito e ricostruito a scapito del molto ancora che il presente rinnova.

Aperta resta anche l’operazione sottrattiva rispetto al potere e al dominio perché racchiusa nella forza istituente della parola. Parola che parla non come parola d’ordine, bensì come parola bucata[14]. La parola vuota, da non “dover” colmare con parole d’ordine costituito, è la parola che mette al mondo l’altro/a, altro di nuovo. Di nome e di fatto, è la parola che la madre e la sua creatura, maschio e femmina che sia, si rivolgono all’origine del mondo, rinnovandolo con la loro reciproca nascita. La parola balbettante invita l’altro a non chiudersi sulle ragioni dell’”io”. Non salta l’altro simbolicamente, non lo opprime socialmente. Gli dà parola indipendente (dal potere costituito) e lo slega dall’obbedienza coatta. La donna è figura dello scambio, non del potere. Che la utilizza – oggi è plateale – come oggetto di scambio.

D’altro lato, la pratica sottrattiva pone uno stato d’essere particolare e consistente: (mi) orienta e disorienta. La cosa si dice difficilmente, e tanto più mi è qualcosa di imprescindibile.

Ho potuto dire prima «sono anarchica» e dopo, con il femminismo della differenza, ho segnato a pieno titolo di «essere una donna», anche se donna lo sono sempre stata, almeno fino ad ora… Quindi, misure scisse nella contingenza storica in cui mi è capitato di essere al mondo. Non scisse però nella mediazione vivente che sono.

Nel desiderio di distanza, al passo da contropotere subentra il corso a ritroso, a trovare presso di sé ciò che non è proprio me. Sento di non essere un tutt’uno. In chiave politica, il trascendimento prende la via dell’al di là del potere.

Le cose capitano sempre quando meno te le aspetti e nel modo in cui neppure le hai immaginate: diventare madre anarchica non essendo né madre naturale né unica madre adottiva – in sintesi: realizzare l’adozione di gruppo che non ha nome possibile per la nomenclatura del costituito; contrarre matrimonio per liberare l’amore della libertà liberata dall’iscrizione istituzionale – in poche parole: amare senza fine…

 

Scendere in campo, stringere la racchetta – per l’emozione, la mano tende a perdere la presa e con essa il prolungamento del braccio – prendere le misure, riconoscere il tempo dell’avversario e battere il ritmo fuori tempo: rallentare, forzare, smorzare, allungare, indietreggiare, attaccare e soccombere. Non importa chi vince, il gioco è fatto. Il gioco è fatto di games per gli scambi del play; la partita potrebbe in pratica non finire mai, si è visto. Il batti e ribatti è gioco proteso all’infinito come, su altro piano e diversamente tra loro, politica del simbolico, ideale anarchico e pratiche di vita scommettono il libero senso di essere al mondo.

Le cose accadono, non occorre forzarle. Esse hanno una luce così pura da abbagliare il lume dell’intelletto; illudono, rivelano nella forma del nascondimento. L’umano ha da imparare molto dall’inumano. Per gli occhi umani, rivolti alla natura e ceduti sulla bellezza delle cose, strappare un attimo di luce richiede pazientare nelle tenebre, lasciarsi scrutare dalle tenebre e vedere ancora tenebre. Il mistero segna il punto massimo di scienza e conoscenza – scienza d’intuito, se la cosa ci tocca.

D’altra parte avviene, «nella forma del disordine», un modo di dire pittorico. Nell’ordine del linguaggio la cosa è chiamata «catastrofe».

La tragedia classica inscrive la catastrofe nel momento dove la strofa mette giù lo scioglimento dell’intreccio: la soluzione.

Siamo in piena catastrofe? La soluzione per le cose del mondo sarebbe appunto, come in poesia, la catastrofe? Lasciarsi suggerire una poetica anarchica ha un dire di senso e di fatto in ordine allo smarrimento di sapersi in crisi.

Ripensando alle mitiche letture degli utopisti anarchici, le scritture dei quali fanno corpo con esperienze di vita vissuta[15], mi sobbalza alla mente la gioia delle tre giocatrici azzurre che si abbracciano sullo sfondo sfocato del campo da tennis, con cui la copertina di Via Dogana illustra il Caos postpatriarcale. Se non proprio un inno alla gioia, sicuramente non è una gioia per la vendetta. È la gioia paradossale di realizzarsi in quello che per altro è un inferno. Lo so che le cose non stanno tutte lì, eppure quelle cose anarchiche e quelle donne felici sono emblema dell’ora attuale. Proprio ora che dire «siamo in piena crisi» è l’altro modo sessuato per dire l’agio nei tempi di disagio.

 

«L’indipendenza simbolica si nutre giudicando e lasciandosi giudicare», mi ha  risposto la filosofa-amica. Indipendenza – rifletto secondo l’espressione proferita – che non richiede, a priori e realmente, il doversi sottrarre con atto di volontà e premunirsi dal potere. Anzi, Una donna nella casa dell’altro[16] attesta un’indipendenza guadagnata e rilanciata nella relazione giudicante, dove i guadagni crescono spendendo. A questo proposito l’autorità femminile come figura dello scambio va oltre il potere costituito e il regime dogmatico. L’idea che l’indipendenza simbolica dal potere non necessariamente esiga sottrarsi fisicamente dal potere è una scossa, grazie a cui perdo una “certezza” maturata nell’idea anarchica che mi sono fatta e che mi è sembrata fondamentale. Ciò non toglie, alla pratica del sottrarsi dal potere, essere una disposizione di indipendenza simbolica, considerato che il fine è già nel mezzo, come ontologia politica delle donne e coerenza anarchica condividono: ma non in ‘perfetta’ sincronia. In questa prevale il senso secondo cui il mezzo tende al fine ideale, per esempio rifiutare il servizio militare in vista di una società senza esercito. Nell’altra il senso è retratto dal fine ideale, insiste sull’enfasi istantanea: il frutto della bontà è immediatamente la bontà del frutto. Le tempistiche sono differenti, sconnesse direi, seppure agenti-implicate in uno stesso soggetto. La loro azione squilibrata l’ho appurata in me; a interrogarle occorre distinguerle. Ho a che fare con due diverse percezioni del tempo interiore: tempo del futuro ideale, istante del presente qui-ora. La condivisione sta fuori tempo nello stesso tempo, rappresenta il punto di massima adesione fra le parti di un’incolmabile distanza.

Il che non vuol dire, se del caso, convivere in camere rigorosamente separate o, per opposto, in due cuori e una capanna. Si vivono entrambe; esistono mari e monti, si offrono questi e quelli. A me piace andarci e dico andarci, non starci: perché dove non sono, l’altro mi innamora. Su questo andirivieni sollevo un piccolo lembo del velo che riscopre il disincontro d’amore del conflitto dei sessi?

 

Non sono una donna tutta d’un pezzo. Né, per coerenza a ciò che ritengo il “bene”, mi sottraggo all’imposizione (del potere) per poi imporre la sottrazione (dal potere). Semplicemente quel potere mi immiserisce, non mi piace; è lì sempre fermo su se stesso. I giochi della vita non stanno in linea con la logica, per cui godano della proprietà transitiva tout court. Se A vince con B e B vince con C, non è detto che C perda con A, ossia che A vinca anche con C. Insomma i giochi – non solo quelli di azzardo, ma proprio quelli ‘banali’ dell’esistenza quotidiana – sono fuori dalla linea del ‘prevedibile’. È questo il loro ‘bello’, il ‘divertente’- la libertà e la felicità che si provano a giocarli. Ogni partita ha la sua storia – da narrare in onore dell’oltre-mondo.

Dalla storia delle donne e dalla tradizione anarchica intingo la passione di fare a meno perché l’essenziale non venga perso. Perché allora non dovrei per lo meno pensare che fare a meno sia modo per eliminare un po’ di ingiustizia? Non si tratta di vedere dio ma intuirlo nel quasi-nulla che conduce Al mercato della felicità[17].

Senza fare orecchie da mercante, in ascolto di ciò che non capisco, ridicola di me continuo a saltare da clown nell’inconcludente versione di tornare a capo di quell’«essere donna» e quell’«essere anarchica» da dove, con stupore e non meno stupidità, sono partita.

 

[1]              La citazione è tratta da Clarice Lispector, La passione secondo G.H., ed. La Rosa, 1982, trad. di Angelo Morino.

[2]              Si confrontino i testi dell’epica indiana (sic!) Mahabàratha, Ramayana e Mahavamsa (la Grande Cronaca).

[3]              Chiara Zamboni, Pensare in presenza, Liguori, 2009.

[4]              Simone Weil, Quaderni vol.3°, Adelphi, 1988.

[5]              Cfr. il Sottosopra rosso, Non è accaduto per caso e Un filo di felicità.

[6]              Caos postpatriarcale è il titolo del numero di dicembre 2009 di Via Dogana, rivista di pratica politica.

[7]              La frase fa parte del contributo di Luisa Muraro al Grande Seminario di Diotima  nell’autunno 2008.

[8]              Nella piega del presente, in AAVV. Diotima, Approfittare dell’assenza, Liguori 2002.

[9]              Sun Tzu, L’arte della guerra, Mondadori, 2003

[10]            Franz Kafka, Racconti, Mondadori 1970; Clarice Lispector, Un soffio di vita, ed. Amore fuorilegge, 2010; Samuel Beckett, Teste-Morte, Einaudi 1969.

[11]            Robert Walzer, La passeggiata, Adelphi, 1999.

[12]            Margherita Porete, Lo specchio delle anime semplici,  San Paolo, 1994; trad. Giovanna Fozzer.

[13]            Francesco Codello scrive di un “anarchismo a-storico” da considerare come un problema aperto. Gli anarchismi –una breve introduzione, La Baronata, 2009

[14]            Rubo l’immagine della parola bucata a Luisa Muraro, da me ascoltata e letta nei suoi molti contributi alla politica del simbolico e al pensiero della differenza sessuale.

[15]            Cfr. Emma Goldman, Vivendo la mia vita, La tartaruga 1998

[16]            Una donna nella casa dell’altro è il titolo della lezione tenuta da Luisa Muraro durante il Grande Seminario di Diotima nell’autunno 2006. La lezione partiva dalla constatazione che nella lettera dell’allora cardinale per la dottrina della fede Ratzinger era riconosciuta la differenza sessuale. Risulta chiaro il riferimento alla persona della filosofa-amica.

[17]            Luisa Muraro, Al mercato della felicità. L’irrinunciabile forza del desiderio, Mondadori, 2009.