diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 5 - 2006

Il Taglio del Conflitto

Un problema di egemonia

Non so se quel che mi è venuto in mente subito di fronte alla vostra domanda si possa definire propriamente un punto di conflitto. Mi sembra certamente un problema – che a me si presenta con particolare chiarezza, e direi anche gravità, a causa dei miei costanti contatti con donne di altri paesi dell’Europa (Est e Ovest), del Nordamerica (Stati Uniti e Canada) e dell’Oceania (Australia e Nuova Zelanda), nonché, sia pure in modo più occasionale e spesso indiretto, con donne asiatiche (Giappone e India) e africane (Sudafrica).

Parlo dell’egemonia della produzione teorica femminista di lingua inglese, e in particolare di quella statunitense, diventata punto di riferimento primario e ineludibile grazie al diffondersi dei women’s studies nella loro versione più accademica e accademicizzata, decisamente criticabile; mentre non credo che i women’s studies – intesi innanzitutto come arricchimento e affermazione di un sapere delle donne capace di innervare le discipline senza perdere il contatto con l’esperienza – siano da evitare a tutti i costi, anche in forme parzialmente istituzionalizzate. Ma questo è un altro discorso.

E’ un’egemonia che si fonda non tanto sulla qualità innovativa del pensiero (che pure spesso non manca), quanto sulla ben più evidente e pericolosa egemonia economica e politica degli Usa, cui finisce per corrispondere un potere culturale di “colonizzazione” che nel caso in questione si manifesta sia nell’amplissima diffusione di quella produzione teorica (attraverso le numerose traduzioni, e anche in originale, grazie all’ormai sempre più indispensabile conoscenza della lingua inglese), sia nella sua accettazione spesso non sufficientemente critica come base di ulteriori analisi, sia infine in un sotterraneo risentimento che però non diventa interlocuzione produttiva di cambiamento. Né può davvero diventarlo, perché altre lingue e altre culture, e dunque altri filoni di pensiero che in quelle culture si radicano e in quelle lingue si esprimono, sono sostanzialmente sconosciute nel mondo anglofono.

Solo un paio di episodi recenti, per illustrare in modi diversi di cosa parlo; ma altri potrei aggiungerne.

Febbraio 2006, Budapest; alla Central European University, fondata dal finanziare George Soros, ungherese di nascita e statunitense di adozione, si svolge un breve convegno organizzato per lo European Journal of Women’s Studies da Jasmina Lukic, che fa parte della redazione della rivista e insegna alla CEU. L’idea è di dar vita a un incontro tra alcune femministe dell’Europa centro-orientale – Ungheria, Polonia, la costellazione di stati nati dal disfacimento dell’ex Jugoslavia… – e la redazione, otto donne di varia origine e nazionalità (tre vivono e insegnano in Gran Bretagna, ma una di loro – per dire – è un’ebrea tedesca cresciuta in Nuova Zelanda; una è statunitense ma da decenni si è stabilita in Olanda; una è danese ma insegna in Svezia; Jasmina è di Belgrado ma ora abita a Budapest; poi ci sono una tedesca e un’italiana, io), ma complessivamente identificate, tranne Jasmina, come “femministe europee occidentali”.

Ascolto le relazioni che si succedono, e sempre il quadro teorico e politico di riferimento è quello della produzione Usa; non importa se il taglio è sociologico, filosofico o storico, se l’analisi tratta di questioni scottanti e ben radicate nel presente difficile di paesi da anni e ancora in transizione – sempre si avverte fortemente una spinta mimetica nelle premesse, nell’impianto argomentativo, negli obiettivi. Sforzo spesso ottimamente riuscito in quei termini, ma che per me ha fatto velo a una vera possibilità di conoscenza, malgrado i miei tentativi  di spostare l’asse del discorso. Sforzo necessario, scopro poi, perché non solo alla CEU si insegna in inglese, ma a partire da quest’anno solo le pubblicazioni in lingua inglese, per conto di case editrici o su riviste “scientificamente” accreditate – si legga, occidentali – verranno valutate per ottenere e poi conservare un posto di lavoro come docente. E perché un libro o un articolo venga accettato da una di quelle case editrici o riviste, deve essere non solo scritto, ma “concepito” in inglese, vale a dire secondo modalità di organizzazione del pensiero che non sono le stesse per chi è di lingua madre croata, o ungherese o italiana (parlo per esperienza). Altrimenti diventa a dir poco difficile, e si riesce a pubblicare solo se per un caso felice c’è in redazione qualcuno/qualcuna con la testa un po’ più aperta e qualche curiosità in più.

Ma deprivare della propria lingua una mente pensante è una crudeltà pericolosa; una mutilazione e mutazione che può anche essere feconda, se praticata come scelta e esplorazione, ma che comporta comunque dei costi, e quando viene imposta ha anche l’amaro sapore di una umiliazione. Come umiliante è la premessa implicita di tale imposizione: che le riviste o le case editrici dei paesi est-europei siano di scarso spessore culturale, giustamente marginali nel “mercato” delle idee che contano. Da cui quel sotterraneo risentimento, sopravanzato dalla ostentata competenza di citazioni bibliografiche, intonazioni, giri di frase, a volte anche manierismi propri dell’esibizione accademica di marca “occidentale”.

Marzo 2006: il manifesto mi propone di intervistare Julia Kristeva, a Roma in occasione del premio Amelia Rosselli, assegnato al suo volume su Hannah Arendt e alla casa editrice Donzelli che l’ha pubblicato l’anno scorso, dopo quello su Colette apparso nel 2004 – una trilogia che si completerà con il libro su Melanie Klein, in uscita a settembre 2006. A margine delle domande che le pongo, e in particolare a quella sulla sua costante indagine del femminile e soprattutto del materno, visto nei suoi molteplici aspetti – centro dell’abiezione per la minaccia con/fusionale che in esso si incarna; aurora del legame con l’altro perché luogo di un amore unico nel suo essere amore per il “qualunque” che viene; “presa” a cui sottrarsi in una dinamica di libertà che passa attraverso il matricidio – mi viene naturale chiederle se conosce la produzione del femminismo italiano, con la sua ricca elaborazione sulla figura della madre. Mi risponde che no, tranne la sua amica Jacqueline Risset, e tramite lei Rosa Rossi per il lavoro su Santa Teresa d’Avila, su cui vuole scrivere, del femminismo italiano non sa proprio nulla. E aggiunge: “al momento leggo soprattutto le studiose statunitensi”.

Ora è evidente che Kristeva non ha problemi di subalternità culturale; il suo pensiero, con tutti i suoi caratteri di originalità, si è pienamente sviluppato nell’alveo di quella riflessione di matrice europea che – semplificando, ma ci capiamo – si può definire strutturalista e post-strutturalista, nei suoi variegati incontri con le diverse scuole psicoanalitiche. Sottolineo di matrice europea, perché proprio la stessa riflessione ha avuto oltreoceano altri sviluppi e esiti. Ma non vi è praticamente traccia, anche nei più recenti scritti di Kristeva, di influssi riportabili alle teorie di una Judith Butler, o di una Donna Haraway, o di una bell hooks (tanto per citare alcuni dei nomi più noti; aggiungetene a piacere, l’affermazione secondo me resta vera). Però è quando si diventa note negli Stati Uniti che si diventa davvero note a livello mondiale, ed è da lì che possono arrivare gli inviti più prestigiosi e – punto fondamentale – meglio pagati; per cui qualcosa di quel lì avviene anche Kristeva ritiene di doverlo sapere, mentre può tranquillamente trascurare quanto donne di valore stanno pensando e scrivendo assai più vicino a lei.

Non mi dilungo oltre, né mi sembra necessario esplicitare le conseguenze negative di questo stato di fatto; quanto al che fare per cominciare a uscirne, se il problema non sembra tale solo a me, parliamone.