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per amore del mondo Numero 9 - 2010

Grande Seminario

Un paese di ex poveri assediato dai poveri

È capitato in provincia di Milano come poteva capitare nel Veneto o nel Meridione, con qualche variante.[1] Una giunta comunale decide di allestire un campo per un gruppo di nomadi, ma alcuni abitanti del paese guidati da seguaci della Lega hanno dato fuoco alle tende del campo. Dopo di che, nelle successive elezioni comunali, vince la lista capeggiata dai leghisti.

Pare che la nuova giunta sia scadente, ma è un fatto secondario, perché, contrariamente a quello che ci piace credere, nel giudizio sui personaggi politici, la loro capacità di governare bene e di fare gli interessi reali del paese conta sicuramente, ma meno della loro capacità d’interpretare i sentimenti diffusi. E questo non è demagogia, è politica. Se a questo punto passate a concludere che quel paese sarebbe abitato in maggioranza da xenofobi anti rom, sarebbe affrettato e ingiusto, come spiegherò più avanti.

Sui rapporti fra sentimenti e ragionamenti in politica, consiglio di leggere George Lakoff, The political mind (2008). Scrive Lakoff: morale e politica sono idee incarnate, e se vogliamo ragionare politicamente, non dobbiamo seguire la concezione illuministica della ragione, che era astratta. Noto qui per inciso che questo lo sapeva già Leopardi, che conobbe da vicino l’Illuminismo: c’è da piangere, scrive (più esattamente: “è veramente compassionevole”) a vedere come i legislatori della repubblica francese abbiano creduto di “conservare, assicurare la durata e [assecondare] lo scopo della rivoluzione col ridur tutto alla pura ragione” senza vedere che “l’imperio della pura ragione è quello del dispotismo” (Zibaldone di pensieri, 8 luglio 1820). A differenza di Leopardi, Lakoff crede nel progresso e nella ragione. Ma deve trattarsi di “una razionalità profonda che possa tener conto e sappia servirsi di una mente che è in larga misura inconscia, incorporata, emozionale, empatica, metaforica e solo parzialmente universale”.[2]

La sua analisi critica del pensiero e del linguaggio dei progressisti aiuta non poco ad affrontare una questione che si pone anche in Italia, quella della presa che ha la destra sui ceti popolari, dei quali non fa gli interessi. Ci sono, ovviamente delle differenze da tenere presenti, una sopra tutto. La cultura politica del nostro paese è stata segnata per quattro decenni da due grandi partiti di massa che hanno sempre fatto posto non semplicemente ai valori etici ma a veri e propri ideali, e che, nella loro azione,  hanno fatto leva sui sentimenti che portano le persone comuni a trascendere il loro “particolare” per impegnarsi nella realizzazione di quegli ideali. Buoni sentimenti, dunque? Non soltanto, anche altri, come il sentimento partigiano di appartenenza, un certo senso di superiorità, la tendenza a nutrire pregiudizi verso “gli altri”.

Quando, davanti a fatti come quello citato all’inizio, o quello più recente della violenta cacciata degli immigrati africani da Rosarno (Calabria), ci chiediamo “che cosa è cambiato”, “che cosa sta capitando a questo paese”, non dobbiamo dimenticare la sparizione dei partiti di massa. Come sappiamo, si sono dissolti  per più ragioni, fra cui la sconfitta del comunismo e la fine del movimento operaio. Il mondo cattolico ha contribuito alla sconfitta del comunismo ma credeva, a torto, di poter subentrare con la sua visione del mondo. Paolo Giuntella, fondatore nel 1979 dell’associazione La rosa bianca: “Il tramonto del comunismo è anche il tramonto delle sue alternative sognate”, tra cui mette anche, a ragion veduta, l’alternativa pluralista, mite, tollerante, pacifica al capitalismo.[3]

L’effetto più evidente della fine dell’idea comunista e degli ideali cattolici, nel nostro paese, è stato il restringersi dell’orizzonte. Una seconda immagine che uso è: l’abbassarsi del cielo, che è complementare della prima. E ciò ha prodotto tristezza in molti. Una tristezza accompagnata da continui motivi di amarezza davanti alla perdita di orientamento e di moralità a tutti i livelli della scala sociale. In effetti, gli ideali, quando ci sono, agiscono in maniera invisibile, e quando non ci sono più, non agiscono più e si vede.

Il rivoluzionamento dei rapporti di forza dovuto alla fine del comunismo, riguardava direttamente il mondo politico maschile e non ha inciso  in senso deteriore sul movimento e sulla politica delle donne. Mi riferisco sempre all’Italia. Ma bisogna dire che pochi hanno saputo approfittare di questa contingenza. Qui s’innesta un discorso che dobbiamo interrompere, perché esorbita dal tema.

Per la questione che qui interessa, più importante dell’effetto evidente di un restringersi dell’orizzonte ideale, è il fenomeno, diffuso specialmente nelle classi popolari, di un autorizzarsi a esprimere i cattivi sentimenti. Mi pare la formula più precisa.

Leggiamo la seguente lettera, firmata Fiorella, pubblicata con speciale evidenza su un giornale gratuito, “DNews”, il 7 ottobre 2009:

 

Andate a vedere chi occupa le case popolari, o sono extracomunitari o sono meridionali. Scorrete il giornale e ditemi chi è che commette reati: o è extracomunitario o è meridionale. E se vedete qualcuno che sporca la città potete stare certi, tutto come sopra. Perché è inutile continuare a fasciarsi gli occhi come fa certa sinistra o come fa il partito del nostro premier, che al sud prende i voti. L’Italia ha un doppio problema: uno è l’immigrazione clandestina e l’altro l’arretratezza del sud. Arretratezza che noi continuiamo a pagare a caro prezzo. E non venitemi a dire che questi sono discorsi razzisti. No, il razzismo è altro. Questa è la semplice constatazione di una realtà che è sempre più difficilmente tollerabile. Io vorrei essere libera di uscire la sera, di andare dove mi pare senza dovere guardarmi le spalle o dovermi difendere da ubriachi e sbandati che bivaccano lungo i marciapiedi. Questa è la verità: noi milanesi non siamo più i padroni a casa nostra. E la cosa inizia francamente a stancare un po’ tutti.

 

È una lettera degna di attenta lettura. Si tratta molto probabilmente di una lettera finta, ossia inviata al giornale (escluderei che il giornale stesso l’abbia inventata) da una persona che non vive in prima persona i sentimenti lì espressi e che nemmeno si trova nella situazione evocata (es., potrebbe non essere affatto una donna che ha paura di uscire la sera). Tuttavia, quei sentimenti, nella forma che prendono sulla carta, la o lo scrivente li condivide e sa che, così espressi, sono condivisibili da innumerevoli altre persone. Non c’è, da parte sua, inganno o ipocrisia, escluso l’intento trasparente ma non dichiarato di fare propaganda alla Lega.

Si tratta, inoltre, di una lettera che vuol essere, al tempo stesso, moderata ed esauriente. Chi scrive ha la preoccupazione di misurare le parole quanto basta per non incorrere in censure, non ultima quella delle persone stesse di cui mira a interpretare i sentimenti. Ma si preoccupa anche di elencare tutti i motivi che possono favorire l’identificazione da parte di una larga fascia di lettori popolari, compreso il motivo “femminista” del muoversi liberamente di notte. Senza cadere in contraddizione, possiamo considerarla una lettera vera, cioè un testo che opera una mediazione praticabile per l’espressione di sentimenti popolari che in parte sono di vecchia data, quelli contro i meridionali, in parte recenti, quelli verso gli immigrati poveri. Da notare che non c’è soluzione di continuità. Da notare inoltre che l’ostilità verso gli uni e gli altri viene motivata e quindi moderata: quelli sono affetti da un’arretratezza che a noi costa, questi fanno problema in quanto “clandestini”. Silenzio sui cittadini europei di origine rumena, nemmeno una parola contro Roma.

La lettera della pseudo Fiorella funziona come un documento, simile a un passaporto, fatto per autorizzare il passaggio all’espressione pubblica di sentimenti spesso respinti come sbagliati o cattivi, e questo ancor oggi, anche a livello popolare, negli stessi che li provano, come ho avuto modo di costatare.

Consideriamo ora il passo della lettera che respinge l’interpretazione in termini di razzismo. L’accusa di razzismo, sempre più diffusa nel linguaggio politico di sinistra e della opposizione in genere, è rivolta regolarmente contro la politica governativa e la propaganda della Lega, ma è nata come lettura sociologica dei comportamenti e dei sentimenti diffusi nella popolazione,  e come un controcanto opposto duramente alla vecchia immagine di un popolo bonario e ospitale, “Italiani brava gente”. Quando il governo di centrodestra ha preso in mano l’ambigua politica italiana di contenimento dell’ondata migratoria, caricandola di provvedimenti vessatori nei confronti degli immigrati, xenofobia e razzismo erano già parole correnti, sempre a disposizione per interpretare le difficoltà e gli incidenti tra immigrati e popolazione locale. Perciò, difendendosi dall’accusa di razzismo, la pseudo Fiorella ha buon gioco nel difendere automaticamente anche la Lega e la politica governativa.

La difesa si limita a poche, ben dosate parole: “E non venite a dirmi che questi sono discorsi razzisti. No, il razzismo è altro”.

Sono parole che tradiscono, insieme a numerosi altri particolari, che la lettera è finta, nel senso che ho spiegato. La sua operazione mediatrice, qui, consiste nel tracciare un confine che esclude il razzismo. Lo fa con tono sicuro, fermo. La persona ordinaria non ha così chiaro il confine tra i cattivi sentimenti suscitati dalla vicinanza di stranieri poveri, da una parte, e il razzismo, dall’altra. L’espressione tipica e ricorrente, nel popolo, è stata per anni questa: “Io non sono razzista, ma…”.

Da parte sua, il linguaggio politico di sinistra ha fatto un’operazione uguale e contraria, ossia ha risolto la difficoltà di molti annullando il confine e accusandoli di razzismo. Notiamo, per inciso, che un’operazione simile è stata fatta per altri problemi, per esempio identificando con l’omofobia anche l’opposizione al matrimonio omosessuale (che, chiaramente, può avere ragioni di tutt’altra natura). In entrambi i casi c’è sottinteso uno schema a due facce che intende la politica di sinistra come conquista e allargamento dei diritti umani e, sull’altra faccia, come denuncia della loro violazione.

 

In un articolo recente della rivista “Via Dogana”, io mi trovo invece a dare ragione alla pseudo Fiorella sul punto del razzismo, perché penso che l’accusa di razzismo non offra nessuna mediazione: è come un “mandare a male il negativo”, di cui si è parlato in un libro di Diotima.[4] Penso pure che l’autorizzazione a esprimere i cattivi sentimenti, a certe condizioni, sia una cosa giusta e buona. Per queste ragioni, in quell’articolo anch’io cerco di mettere fuori causa il razzismo. I cattivi sentimenti di molta popolazione verso gli immigrati poveri, sostengo, significano, sia pure malamente, una giusta contrarietà alla globalizzazione e non sono espressione di razzismo. Il razzismo non è radicato in Italia. Anche in Africa è accaduto e purtroppo accadrà che gli immigrati dai paesi più poveri, come il Burkina Faso, in altri meno poveri, come il Mali, vengano aggrediti e cacciati con la violenza e perfino uccisi. Il male antropologico di cui soffre il nostro paese è un altro, è il disprezzo dei poveri, molto sentito nelle classi che dalla povertà sono uscite recentemente, ecc. La conclusione dell’articolo è che bisogna ripartire dall’incerto confine di colui che dice o diceva: “Non sono razzista ma…”: sono parole che vanno lette come una domanda d’aiuto. [5]

La politica a due facce, conquista dei diritti umani e denuncia della loro violazione, ha il vantaggio di essere molto semplice, alla portata delle persone comuni che non dispongono di cariche o potere. Ne ha un altro, più segreto, che non è un vero vantaggio. Essa è come un dispositivo simbolico sempre pronto a fornire occasioni per indignarsi e denunciare, cioè per “dare la colpa” ad altri e farci sentire migliori. Che deve essere un bisogno diffuso, se ormai da ogni parte arrivano come proiettili e s’incrociano nella scena pubblica grida veementi di “Vergogna! Vergogna! Vergogna!”. In una scena pubblica dove tacere equivale a perdere, bisogna avere parole sempre pronte, e l’indignazione le fornisce. Ma la ragione è più profonda. Sembra quasi che moltiplichiamo le cause buone per moltiplicare i motivi d’indignazione. Io non sono affatto immune da questo atteggiamento che è di voler “dare la colpa”, al punto da subordinare a questo esito anche l’amore del bene. E sospetto che esso sia imparentato con il noto e potente macchinario simbolico del capro espiatorio. Ma come disinnescarlo?

 

Ricordate quel racconto di Marguerite Duras sull’uomo incaricato di “tagliare” l’acqua a quelli che non avevano pagato la bolletta? Racconta di uno che è incaricato di farlo in piena estate, ai danni di una famiglia formata da quattro persone, genitori e bambini, povere e isolate, che non sanno difendersi neanche a parole. Finirà in una tragedia. Il paese allora s’interroga su come sono andate le cose: il racconto è fatto con i brani di questa postuma ricostruzione, che non porta a niente, anche perché è incompleta.[6] Mancano due notizie: l’incaricato non dice di aver visto che in quella casa c’erano dei bambini, la padrona dell’osteria vicina alla casa non dice che, dopo il taglio dell’acqua, la donna andò da lei… perché, che cosa cercava? Acqua per i bambini, forse, ma non lo sappiamo, appunto. La colpa è pesante da portare, si capisce, soprattutto quando di mezzo ci sono dei bambini, e sappiamo che ci sono sempre dei bambini tra i piedi e nelle braccia dei poveri.

Come dicevo, c’è il bisogno di buttare la colpa via da sé su qualcun altro. Ricordo un gioco della mia infanzia che consisteva nel rincorrersi per “darla” all’altro, dopo una conta per stabilire lo sfortunato che “ce l’aveva” e doveva liberarsene su un altro, per contatto. Ebbene, Marguerite Duras lo conosce questo gioco ma non corre dietro a nessuno, ascolta pietosamente i racconti dei paesani, anche quelli reticenti dell’incaricato dell’azienda  e della padrona dell’osteria.

A questo punto devo fare un passo indietro. Quel racconto della Duras doveva servirmi come un esempio di quel legalismo burocratico che consente di vessare i più deboli con l’aria di fare il proprio dovere. Lo avrei citato nel contesto di un articolo di commento a un fatto di cronaca, riferito da un giornale locale, che aveva avuto come protagoniste e vittime delle bambine, figlie di immigrati, lasciate sotto la pioggia lontane da scuola, il primo giorno di scuola, perché non avevano il biglietto richiesto per usufruire dell’autobus. Quel giorno, in effetti, piovve a dirotto, ma quando m’informai per più dettagli, venni a sapere che il giornalista si era sbagliato, il guidatore dell’autobus avrebbe voluto, sì, un biglietto ma non aveva lasciato le bambine a terra. La scoperta che quella cosa odiosa poteva capitare ma non era capitata, grazie al buon senso o alla bontà di qualcuno, invece di rallegrarmi, mi irritò come un contrattempo perché avrei dovuto disfare il mio articolo già impostato. Questa mia reazione non fu né così lieve né così passeggera da poterla trascurare. E mi rese consapevole dell’economia simbolica in cui mi portava la mia volontà di denunciare l’ingiustizia: più vicina al male che al bene, dalla parte della realtà che con le mie parole pretendevo di voler trasformare. Resa complice, insomma, non dico nella volontà, ma nelle emozioni, e queste erano suscitate dalla volontà stessa di fare la mia vibrante denuncia.

La presa di coscienza mi rese più sensibile al registro narrativo di Marguerite Duras. Lei non si indigna, non infierisce, cerca per tutti le parole che non fanno male e dicono la verità. La dice, infatti, senza fare velo alla spietatezza della condizione umana, fino alla fine, fino alle ultime righe del racconto, dedicate alla giovane madre dei bambini assetati.

 

Come si fa dunque a starne fuori senza diventare indifferenti? Mi sembrò in quel momento che ci fosse da disserrare le due tenaglie di un dilemma, tra combattere il male e non fare del male, non innescare cioè il macchinario del gettare la colpa sugli altri. E mi si affacciò un’immagine, per via di certe letture che stavo facendo, quella delle porte dei cieli che sono i bambini ad aprire o a chiudere, secondo il vangelo.

Se c’è una cosa che suscita un’incontenibile indignazione contro gli uomini e perfino contro Dio, sono i bambini che patiscono inermi il male di questo mondo. Ma, cosa degna di ammirazione, i bambini stessi non si indignano per il male patito, non danno la colpa a nessuno, non denunciano e non condannano. Perché sono immaturi, si dice, non hanno l’età della ragione per cui non hanno il senso del male e del bene. Non so, forse è così, a me pare che sappiano intensamente discernere male/bene, basta vedere come reagiscono quando il male colpisce una persona amata.

Io ho una risposta diversa. In realtà, secondo me, le persone piccole non si indignano del male patito da loro stesse perché sono troppo occupate, direi assorbite, nelle loro strategie per attirare il bene. Il loro pensiero guida è questo: disarmare il male, attirare il bene. Perciò non giudicano, perciò il vangelo le promuove porte del regno di Dio. In quanto esperte e cultrici di strategie per attirare il bene su questo mondo, quando le cose buttano male l’unica domanda critica che formulano è rivolta a sé: in che cosa ho sbagliato? È questo un atteggiamento che in noi adulti suscita una pena immensa, è naturale. Ma riconosciamo che obbedisce a una logica sublime. Secondo questa logica, non ha senso rispondere al torto patito con una ritorsione (occhio per occhio) o con il suo succedaneo (il diritto), serve invece escogitare mosse per convertire quello che era cattivo in qualcosa di buono. Nei bambini trionfa la pratica del non credere di avere dei diritti.

Ma una simile logica, mi si può obiettare, vale solo per chi si trova in balia di altri, non per chi ha dei diritti, lo sa e li fa valere. Ma di chi stiamo parlando? Noi tutte e tutti, per condizione umana, siamo in balia degli altri…

Qui le tenaglie della morsa cominciano a disserrarsi. Qui si interrompe il mio testo.[7]

 

[1]              Con queste parole ho introdotto il mio contributo al grande seminario di Diotima, il 16 ottobre 2009, di cui ho conservato integralmente il titolo e la seconda parte; la prima invece è stata ripensata recentemente in vista della pubblicazione in rete.

[2]              George Lakoff, Pensiero politico e scienza della mente, tr. it. di Giuseppe Barile, Bruno Mondadori, Milano 2009, p. 16.

[3]              Paolo Giuntella. La fedeltà. Trasgressione e follia per il mondo, Il Margine, Trento 2009, p. 64.

[4]              Diotima, La magica forza del negativo, Liguori, Napoli 2005.

[5]              Luisa Muraro, L’accusa di razzismo: scorciatoia mentale, esonero morale, errore politico, “Via Dogana” n. 82 (marzo 2010).

[6]              Marguerite Duras, Le Coupeur d’eau, in La vie materielle, Gallimard, Paris 1999, pp. 115-120.

[7]              A questo punto io mi sono effettivamente fermata e il pubblico presente ha preso la parola.