diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 9 - 2010

Grande Seminario

Tutto cade. Come mantenersi in bilico nella contemporaneità

Il titolo di questo mio intervento, nasce da una riunione di Ada (la rivista online di cui facciamo parte io, Tristana Dini, Maria Vittoria Montemurro, Nadia Nappo e Stefano Perna, nata da un’idea di Angela Putino e Lucia Mastrodomenico nella città di Napoli) in cui, una di noi, Nadia Nappo, raccontava di come ciò che faticosamente ha creato nel suo luogo di lavoro sia in piena caduta libera. Il luogo di lavoro in questione è la Biblioteca Nazionale di Napoli (biblioteca molto importante dopo quella di Londra e Parigi), un luogo del sapere, un “tra”, un ponte che collega la storia e i pensieri di chi è venuto molto prima di noi e il presente. Ci sono libri di tutte le epoche, la sua importanza è data dalla presenza di rari papiri, dai manoscritti leopardiani e da altri manoscritti non meno importanti e, anche, secondo il Ministero della Cultura, dal fondo della soggettività femminile nata in seno alla biblioteca, in un momento storico dove c’era una forza di relazioni tra donne, una forza che per quanto costituisse comunque una minoranza, era riuscita a creare un luogo simbolico in cui si trattava di far confluire un sapere altro.

In piena caduta libera non è chiaramente la biblioteca in sé, ma proprio il fondo della soggettività femminile che alcune bibliotecarie, tra cui Nadia, nel corso degli anni hanno messo su con molta fatica. Ciò che cade è il senso e la specificità di questo lavoro.

Il desiderio che ha mosso Nadia e alcune altre donne della biblioteca, era quello di creare qualcosa di inedito al suo interno: di far circolare un sapere che fino a quel momento non aveva trovato una sua collocazione. Dunque non una biblioteca delle donne per le donne, ma un fondo interno la biblioteca relativo al sapere creato da soggettività femminili. Attraverso questa operazione simbolica iscritta nel sapere, ciò che si voleva significare e dire è che la conoscenza è e dovrebbe essere sempre due; il problema qui non è delle pari opportunità che vuole i soggetti pari, unificati; il problema è dire che i soggetti della conoscenza sono due, che bisogna dar conto di un dispari non assimilabile in quel tipo di unità che non dà conto né dell’uno né dell’altra. Da segnalare che questa esperienza napoletana è unica nel suo genere: si tratta dell’unico fondo al mondo che ha una catalogazione relativa alle soggettività femminili, soggettività che grazie a queste donne circolava tra due milioni di libri. Ogni libro era in relazione a tutti gli altri libri e non relegato in una nicchia particolare del sapere. Questo è stato possibile perché c’era un’alleanza, una consapevolezza del lavoro pubblico che si stava facendo, condiviso silenziosamente anche da chi materialmente non contribuiva a metterlo su. Il fondo è solamente un esempio simbolico della differenza sessuale che dice di quel significato mancante che doveva essere rimesso in circolazione. Certo, resta comunque il fatto che si trattava di un’azione di disturbo per il sapere ufficiale che, come sappiamo, è normalmente chiuso a rimettere in discussione o a fare spazio a qualcosa di diverso.

Negli ultimi tempi è accaduto che per problemi di spazio il fondo è stato spostato in un’altra sede, e chi ha deciso questo spostamento non ha ritenuto opportuno avvisare le persone che avevano organizzato il fondo. Così Nadia e le altre hanno saputo del trasferimento solo a cose fatte con loro enorme incredulità e sgomento.

La cosa incredibile è che questo luogo oggi è chiuso e non aperto al pubblico perché lentamente le tarme stanno mangiando il sottotetto e, come spesso accade per il bene pubblico, non ci sono i fondi necessari per restaurarlo. Il fondo cade, il senso che questo fondo aveva all’interno della biblioteca viene occultato: mettendolo in un altro posto viene separato dalla distribuzione intera. Mentre prima stava in due milioni di libri, oggi lo si trova in una sezione speciale della letteratura che tra l’altro non è consultabile. Penso che di questa storia, è importante cogliere il senso della caduta dell’operazione simbolica fatta all’interno della distribuzione del sapere. È persa perché paga la cecità di un modo di fare economia che, per mantenere tutto un sistema, non riesce a contenere il senso di quel ‘di più’ che il fondo dava alla biblioteca. La domanda è: perché proprio quel fondo, perché tra tutti quei libri proprio quelli relativi la soggettività femminile? Forse perché non se ne comprende il senso, che non si comprende che quel sapere introdotto in quel modo significava qualcosa per l’intera comunità di uomini e donne che ancora fanno ricerca, leggono, vogliono sapere e pensare con la propria testa. Cambia così proprio la struttura della ricerca, che non è più una ricerca bibliografica ma una ricerca del testo. Ricercatori, ricercatrici, sono coloro che si avventurano nella ricerca e che non l’hanno mai già bella e confezionata. In questo senso la caduta del sapere è evidente: davanti alle leggi di una certa imprenditoria, o davanti alle proposte di formazione incentrate sulle tre “i” (inglese, internet, impresa), la riduzione di ciò che significa “fare ricerca” è più che evidente.

Ma la vera questione è che lo stesso sistema democratico cade, cadono i servizi, cadono le biblioteche, le case, le strutture, il senso delle relazioni e delle parole che ci comunichiamo. L’architettura stessa dell’umano si sgretola ogni giorno sotto i nostri occhi. Cosa fare? Dobbiamo pensare con María Zambrano che si tratta di parole che vanno a loro modo conservate e difese, quali persona, democrazia, ecc, dal momento che non si sono mai pienamente realizzate, oppure pensare con Simone Weil che dopo secoli di storia di oppressione e ingiustizie prodotte dall’impianto politico tradizionale sarebbe il caso di lasciarlo cadere facendo spazio ad altro? Questioni difficili, certo, che però ci rimandano tutto lo spessore e la sostanza di ciò di cui qui si sta parlando.

In realtà, la seconda motivazione che mi ha spinto a dare questo titolo alla conferenza, è un breve articolo di Angela Putino apparso su Madrigale nel 1988 dal titolo: Una spinta. Riferendosi alla celebre affermazione di Nietzsche: “Io dico: a ciò che sta cadendo si deve dare anche una spinta. Tutto quanto è dell’oggi – cade, decade: e chi può aver voglia di trattenerlo! Ma io – io voglio anche dargli una spinta!”[1], Angela tesse il suo discorso sul senso dello spingere ciò che sta cadendo e che non vale la pena trattenere.

In questo articolo ci sono tre punti su cui mi sembra importante riflettere: il primo riguarda l’indipendenza, soprattutto di una donna, nei confronti dell’epoca storica attuale (nel senso che la libertà femminile rimanda anche al senso dell’inattualità su cui una donna può formarsi il senso della propria vita, dal momento che la sua “quotidianità” è stata storicamente diversa da chi doveva sbrigarsela con i problemi immediati della polis). Da aggiungere anche che tale indipendenza significa tante cose – materiale, spirituale – ed è l’unica via di accesso per una libertà che sia piena e concreta; il secondo punto riguarda la capacità di non tenersi, di lasciarsi cadere per aprirsi ad altro, come nell’esperienza di G.H. nel romanzo di Clarice Lispector, La passione secondo G.H, in cui l’incontro con la blatta fa da ponte proprio per questa apertura all’inedito. “Il compiuto di sé, scrive Angela, è quanto cade per volare e per volare occorre precipitare in fretta”. Ora, questa capacità di non tenersi rimanda a un modo della passività che la maggior parte delle filosofe del XX secolo ha indagato con attenzione, contro un certo attivismo che crede che tutto nell’essere umano sia dominabile; il terzo e ultimo punto riguarda la produzione di salti verso ciò che non è addomesticato, vale a dire imparare ad essere di inciampo a se stessi/e per non aderire a quella domesticità che ci costringe a un ordine creato senza di noi ma che ha bisogno di noi. Qui entra in gioco il senso più alto di ciò che significa per Angela “sperimentazione”.

La caduta muove anche le corde della risata, la sua forza dirompente è fonte di destabilizzazione per ogni cosa che si credeva compiuta. L’esempio classico, alle origini della filosofia, è la risata della servetta di Tracia nel vedere la caduta di Talete nel pozzo mentre è intento a contemplare il cielo e le stelle. Penso che la filosofia ha avuto bisogno dell’uno e dell’altra: di Talete, perché senza di lui non ci sarebbe né geometria né astronomia così come le conosciamo, della servetta, perché senza di lei non ci sarebbe quel ritorno alla realtà di cui la filosofia nel corso dei secoli ha avuto bisogno.

Detto in breve, nella spinta che si dà a ciò che non vale più la pena di essere trattenuto, c’è qualcosa che ne viene fuori, foss’anche solo una risata. La caduta è anche il punto della risorsa (l’esempio più evidente è la caduta dei bambini quando devono imparare a camminare. Loro sanno cadere, fa parte del loro gioco). La caduta può anche significare una capacità di trasformare il negativo in positivo. Ciò che fa problema oggi è la velocità dei fatti che si susseguono uno dopo l’altro lasciando vuote le nostre menti e i nostri corpi, il problema è che non c’è il tempo neanche di soffermarsi a riflettere sull’evento che accade, sul dove ci mettiamo e in che direzione vogliamo andare. Ma nel frattempo il bene cade, accade, ci ricorda Simone Weil, aggiungendo anche che ciò che cade e accade non dipende da noi che siamo sempre sottomessi al regno della necessità. Se non si sa spendere la propria vita in relazione a ciò che accade, a quell’evento che non dipende da me, non si va in mare aperto. Noi in mare aperto ci siamo e vogliamo continuare a starci e vogliamo anche far cadere ciò che sta cadendo. Non vogliamo più trattenere nulla, anche se sappiamo che le cose non sono più come prima, che bisogna essere consapevoli del pericolo della caduta. Non si è più sprovvedute in questo. La caduta può essere anche il punto della risorsa che ci mantiene vive anche se fuori dal progetto politico istituzionale. Politicamente certe cose sono già accadute, ma ciò non significa che restano fisse e immutabili; c’è sempre qualcosa da fuori, una forza, un’energia che spinge altrove.

È quello che secondo me può fare la nostra generazione (con nostra intendo quella mia e di Tristana, quella che si affaccia lentamente sulla soglia dei quaranta), siamo quelle che devono vedere e ricostruire il senso di questa caduta. La caduta – come scrive ancora Angela in un testo inedito che uscirà nel libro curato da me e Giovanna Borrello[2] – “non è il venir meno o un eccesso, ma una traiettoria che viene percepita come sorprendente perché procede in senso inverso a quello che avremmo pensato naturale. Un’impressione sconcertante come quella che segnala il poeta: “E noi che pensiamo la felicità come un’ascesa, ne avremmo l’emozione, quasi sconcertante, di quando cosa che è felice, cade[3]. Nessun estraniamento o incanto, solo qualcosa che inaspettatamente compie un altro tragitto ed è percepito fuori dalla costruibilità”.

 

Come si fa di fronte a questa caduta dei molteplici piani di cui è fatta la nostra vita quotidiana a trovare forme di resistenza affermative di altro, di altre prospettive e di sguardi diversi?

La nostra posta in gioco oggi è quella di creare alleanze che escano fuori dal gioco politico, di non farsi mangiare e rimasticare da ciò che fa audience. Molte parole chiave del femminismo sono confuse, mischiate, fatte proprie e dette senza tener conto del contesto in cui sono nate. Il “partire da sé” ad esempio è una di queste. Quale differenza tra il partire da sé di Carla Lonzi in Vai pure, colloquio privato, d’amore, tra Carla Lonzi e il suo compagno Pietro Consagra, e la vita privata del nostro premier?

Il punto è capire che si tratta di un partire da sé che non è l’individualismo di un soggetto che si pone nel suo rapporto autoreferenziale all’altro, un partire da sé che quasi non ha nulla di personale, o se lo ha, è relativo a un sé che è sostrato della soggettività. Angela parlava della libertà femminile impersonale, una libertà che non si fonda sul proprium, di ciò che si è e si ha, ma sull’improprio, su ciò che non ci appartiene, di ciò che ci è accaduto di essere, sapendo che ciò che una donna ha fatto per sé risuona in tutte/i noi e ci accompagna.

Le filosofe di cui mi occupo mi hanno insegnato ad oppormi alla cultura mortifera del ‘900, una cultura che ha fatto del negativo il centro della sua riflessione, per recuperare il concetto di vita: non la vita civile, quella rinchiusa nelle celle dorate del quieto vivere, ma la vita del “fondo oscuro”, quella corporea, animale, che ritorna sempre quando credevamo di averla così bene addomesticata. Emil Cioran, che condivideva questo interesse per quel fondo oscuro al limite dell’umano comune alle nostre filosofe, scriveva: “Lo spettacolo della decadenza prevale su quello della morte: tutti gli esseri muoiono; soltanto l’uomo è chiamato a decadere. Egli è in bilico rispetto alla vita (come la vita, del resto, lo è rispetto alla materia). Più si allontana da essa, sia innalzandosi sia cadendo, più si avvicina alla propria rovina. Che giunga a trasfigurarsi o a sfigurarsi, in entrambi i casi erra. E bisogna anche aggiungere che tale errore, egli non può evitarlo senza eludere il suo destino”[4].

Queste donne filosofe sono figure del limite e, allo stesso tempo, di un’eccedenza, perché hanno saputo guardare e distinguere ciò che è addomesticabile da ciò che non lo è.

 

Il restare in bilico fa parte di questa libertà che ci vogliamo prendere; l’esigenza di una posizione altra in cui non si sta né lì né qui.

 

 

[1]              F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1993, pp. 245-246.

[2]              AA.VV., Esercizi di composizione per Angela Putino. Filosofia, differenza sessuale e politica, a cura di S. Tarantino e G. Borrello, Liguori, Napoli 2010.

[3]              R.M. Rilke, Elegie Duinesi, Einaudi, Torino 1999, p. 69.

[4]              E. Cioran, La caduta nel tempo,  Adelphi, Milano 1995, p. 131.