diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 4 - 2005

Il Dio delle Donne

Teologia femminista

Da qualche decennio alcune teologhe, puntando sulla possibilità ermeneutica di mettere in relazione il discorso su Dio con l’istanza femminista, si sono addentrate in un nuovo ambito di ricerca. Hanno tentato di dar forma ad un connubio inedito che è in qualche modo ricaduto sul pensiero già sedimentato con tutta la complessità e il carattere aperto delle indagini ancora sperimentali.

Ecco perché il panorama che oggi ci è consegnato non è affatto omogeneo ma si presenta in maniera frastagliata e intermittente. Non è sempre agevole riconoscere le varie prospettive, valutarne lo spessore ermeneutico, discriminare dove, dietro ad un linguaggio comune, sussiste una qualche divergenza e dove una difformità formale nasconde una confluenza.

Non è superfluo ricordare che la teologia femminista nasce essenzialmente da due istanze:

Difficile, riduttivo, parziale, ma necessario, classificare le varie prospettive: disporre di un ordine, per quanto penalizzato dalla semplificazione, consente tuttavia di addentrarci con maggiore consapevolezza nelle questioni fondamentali.  È in questo senso che mi sembra utile sottolineare tre “passaggi-chiave” che hanno significativamente attraversato la ricerca teologica femminista.

 

– Si è verificato un primo bivio già nell’approccio al testo sacro. Alcune teologhe, definendosi “post-cristiane” hanno ritenuto la Scrittura e la Tradizione troppo compromesse dall’ottica androcentrica per potervisi ancora misurare: un principio parziale ha funzionato non tanto come riferimento formale quanto piuttosto come un presupposto pericolosamente oppressivo e stagnante da far degenerare irrimediabilmente il contenuto stesso. L’unica via praticabile per una teologia femminile libera e politicamente efficace rimaneva l’uscita dalla Chiesa e la realizzazione di uno spostamento dell’interesse dal testo sacro e dal suo contesto patriarcale all’esperienza femminile, un’esperienza che è in grado di fare comunità. Emblematico si rivela in questo senso il percorso di Mary Daly, che si struttura a partire dal tentativo di leggere la tradizione biblica ed ecclesiastica secondo la prospettiva della donna, convinta che il vangelo rimanga pur sempre un messaggio di speranza, e che approda in seguito, già da Al di là di Dio Padre (1973), ad una posizione di rifiuto del cristianesimo giudicato come l’ideologia della società maschilista, come irreversibile distorsione dei rapporti umani. L’autrice auspica l’avvento di una comunità di sole donne, in aperta rottura con l’ordine patriarcale della chiesa. Ella però continua ad orientare la sua ricerca alla trascendenza, correndo il rischio di sottovalutare la difficoltà di conservare questa apertura senza relazione né con la tradizione religiosa né con una comunità di fede.[1]

Le femministe cristiane, invece, continuano a credere che la Scrittura, pur deformata dalla parzialità di un’ermeneutica androcentrica, continui a lasciar intravedere il volto misericordioso di Dio, a veicolare un messaggio di libertà che rimane sensato anche per le donne. Una ricchezza che si lascia intuire anche dietro le incrostazioni e i filtri ermeneutici.

Questa non è comunque una prospettiva ingenua, che non tiene conto delle molteplici interferenze che disturbano la linearità della ricerca, della ricerca teologica soprattutto.

Nessuna teologa femminista si illude di poter dar vita ad un discorso “puro” su Dio, privo di limiti e fraintendimenti. Tutte sanno che ogni discorso è storico, contingente. Innestando il loro discorso su questo strutturale radicamento in un contesto particolare, storico e parziale, mai pretendono di assurgere al livello dell’universalità.  Mirano piuttosto a creare pensiero autentico.

Dal punto di vista metodologico, la teologia femminista si pone anzitutto un problema ermeneutico ed esegetico: quale rapporto c’è fra testo e messaggio?

La teologia femminista risponde utilizzando il metodo storico-critico: si muove infatti nella consapevolezza che i testi biblici sono sempre frutto di mediazioni culturali e simboliche. La Bibbia non consegna un’esperienza ma comunica l’esperienza di altri e altre. È Parola di Dio, certo, ma riflettuta all’interno di coordinate umane, spaziali e temporali: è sempre “situata”. La teologia femminista è diffidente verso quelle letture spirituali che non fanno i conti con un’esegesi scientifica e storica: esse aggirano l’ostacolo, vi passano sotto[2] autoestromettendosi dal confronto teologico serio e sensato. Essa ritiene imprescindibile questa metodologia che differenzia il valore teologico di un testo dalla modalità storica e contestuale con cui questo valore è enunciato e veicolato[3].

Solo così è possibile pensare di ricercare nella Scrittura, e non fuori di essa, quel messaggio di libertà offuscato da categorie a volte discutibili. È il percorso intrapreso ad esempio da Rosemary Radford Reuther[4] che riconosce nel discorso profetico un’istanza rivelativa che funzionava già all’interno del testo e da Phyllis Trible, che parla di un “principio depatriarcalizzante”[5]  intrabiblico.

Delineata su una discontinuità-continua fra testo e messaggio, questa prospettiva giudica equivalenti, dal punto di vista metodologico, l’interpretazione biblica misogina, che assume i dati biblici per legittimare una presunta inferiorità della donna, e l’interpretazione biblica femminista postcristiana, che prende le distanze dalla Bibbia perché ormai definitivamente compromessa con il paradigma androcentrico: entrambe identificano testo e messaggio.[6]

 

– Riconosciamo un secondo guadagno di pensiero nell’emergere più recente di un atteggiamento più cauto verso quell’ansia iniziale di dissotterrare e restituire visibilità alle figure femminili che l’ottica tradizionale aveva reso marginali, mute, insignificanti. Prima appariva decisiva ed efficace l’attenzione alla realtà di donne che la storia, come un filtro troppo largo, non era riuscita a far affiorare. Il progetto di recupero di quelle dimensioni che la trasmissione non aveva veicolato sembrava consegnare finalmente alle donne un passato utilizzabile come radice.[7] L’idea-guida era quella di separare, nella tradizione, ciò che conservava un senso vivificante per le donne da ciò che le mortificava. Ma si trattava di un’operazione che ancora dipendeva da una logica olistica: in nome di una omogeneità apparentemente legata alla differenza sessuale, pretendeva di tenere insieme dati femminili contrassegnati da scarti spazio-temporali notevoli. È stata la Gender Analysis ad introdurre una nuova metodologia, attenta al contesto storico, sociale, politico, culturale e religioso, prendendo le mosse da una concezione sociologica di “differenza sessuale”: la “mascolinità” e la “femminilità” sono delineate in relazione al contesto sociale in cui sono inserite.[8]

Nonostante i correttivi, molte teologhe hanno posto l’accento sui rischi latenti di un procedere “topico” che si orientava su un “tema femminile” lasciando intatta quella metodologia tradizionale da cui si tentava invece di prendere le distanze. La teologia femminista non è una “teologia della donna”, una “teologia del genitivo”, cioè un percorso settoriale, concentrato sul “femminile”, che tenta di reagire alle astrazioni della prospettiva neoscolastica. Anzi, la teologia femminista prende le distanze da questa impostazione, unilaterale e appoggiata alle medesime strutture di pensiero di cui si vorrebbe liberare. Se si vuole continuare a mantenere la categoria del “genitivo” per descrivere questo itinerario del pensiero, è necessario specificare la natura soggettiva di quest’espressione: il rimando non è solo alla settorialità dell’oggetto indagato ma a quella del soggetto indagante. È una teologia di donne fatta da donne. Da donne che sentono l’esigenza di riflettere sulla loro esperienza cristiana e di metterla criticamente in circolo.

Chiaramente la teologia femminista si forma in un rapporto stretto, di adesione e di critica, rispetto alle istanze del femminismo moderno e si registra in essa il medesimo passaggio che si è verificato all’interno del movimento femminista: dalla tensione emancipatoria (che riuscirebbe al massimo a strappare una collocazione migliore alla donna ma pur sempre nello stesso ordine di prima) alla riconfigurazione simbolica, che è anche trasformazione, del mondo in cui uomini e donne sono inseriti e stanno in relazione. Un’istanza femminista in termini di uguale o pari dignità uomo-donna si è rivelata insufficiente, sia dal punto di vista pratico sia dal punto di vista teoretico. Quella di uguaglianza non era una categoria incontaminata e integra ma una nozione ormai irreparabilmente inficiata di androcentrismo: paradossalmente, un ulteriore luogo di alienazione femminile.

 

Ecco perché si è rivelata ben presto necessaria la ricerca di un’ulteriore chiave interpretativa, quella della “differenza”. [9]

Non era più il momento di “denunciare” ma di “costruire”. Le teologhe femministe hanno quindi scelto di radicare il loro lavoro in quel “partire da sé” su cui il movimento delle donne si è fondato. Naturalmente è un “partire da sé” che non si ripiega sull’io, che non ritorna al punto iniziale ma che conduce fuori di sé, nella relazione. Una relazione con Dio, innanzitutto, ma anche un confronto con altre teologie. Purtroppo i tempi non sono ancora maturi per uno scambio autentico con una teologia esplicitamente maschile, che accetta di sfilarsi la veste dell’universalità. In questo senso allora la teologia femminista evita di definirsi come “teologia femminile”, una definizione che avrebbe senso in un orizzonte di reciprocità, di dialogo con un pensiero maschile che ha compiuto un analogo percorso di riconoscimento della propria parzialità, che ha interiorizzato il segno maschile delle sue idee. Tutto questo, lo ribadisco, non è ancora accaduto.

La prospettiva femminista ha sollevato e chiama in causa tuttora questioni di teologia sistematica[10]:

  1. Circa la dottrina su Dio, cerca di correggere e integrare quel linguaggio religioso sessista che legge Dio come Padre e tenta un recupero della femminilità di Dio. Nasce da qui la ripresa del culto della Dea che permetterebbe l’affermazione del potere simbolico femminile come benefico e creativo, permetterebbe una rivalutazione della corporeità femminile, restituirebbe alla volontà femminile il riconoscimento di una sua propria dimensione energetica, attiva, potenzierebbe i legami fra donne.[11] In questa prospettiva si insiste su alcune immagini e concetti biblici: Sophia per l’Antico Testamento e lo Spirito Santo per il Nuovo Testamento. Chiaramente si tratta di un’operazione simbolica e complessa: non si tratta di una declinazione al femminile di un linguaggio originariamente maschile.
  2. Circa la cristologia, la teologia femminista si interroga sul senso della mascolinità di un Salvatore universale. Se non avesse significato soteriologico ma fosse un semplice fattore accidentale, questo avrebbe forti ripercussioni ecclesiologiche (andrebbe ripensata la questione della strutturazione della comunità cristiane). Vanno qui menzionati i lavori di Doris Strahm, teologa svizzera che si è particolarmente occupata di cristologia femminista mettendo in rilievo soprattutto le diverse cristologie sviluppate dalle donne in Asia, Africa e America. [12]
  3. La mariologia si presenta, per la teologia femminista, sotto la cifra dell’ambivalenza. Da una parte essa significa il recupero della dimensione simbolica femminile in Dio all’interno del dogma cristiano e il ripensamento della figura di Maria in termini profetici e non più come modello di sottomissione. Dall’altra però costringe a misurarsi con la sua posizione subordinata alla cristologia. Questa riflessione inoltre mette in guardia dalla divinizzazione di Maria e quindi dall’archetipizzazione della sua femminilità: la sua giusta subordinazione rispetto alla Trinità si trascinerebbe dietro una legittimazione della soggezione femminile. La tensione è verso il recupero di una mariologia profetica, che riconosca nella figura di Maria quella di una donna aperta allo Spirito, che esprime il suo sì a Dio nel Magnificat, che si dona a Lui nella fede. Allo stesso tempo indaga come Maria, rappresentante di quella dimensione carismatica così essenziale alla chiesa, possa acquistare una sua visibilità ed entrare veramente in comunicazione, nella chiesa, accanto al “principio petrino”, alla dimensione istituzionale. [13]
  4. L’ecclesiologia è toccata dalla teologia femminista e ne costituisce un luogo ermeneutico delicato e complesso. Le dispute si incentrano sull’esclusione delle donne dal sacerdozio, sancita dalla Dichiarazione Vaticana Inter Insigniores, del 1976. Questo rimane comunque il punto focale di un discorso più ampio, proteso ad operare il passaggio da una teologia (e da una pratica) dell’esclusione ad una prospettiva inclusiva.
  5. Nel campo dell’etica, la teologia femminista cerca di convertire l’etica della competitività (maschile) in un’etica della riconciliazione (femminile) e ridisegna in senso relazionale le nozioni etiche fondamentali. Non si può comunque ascrivere esclusivamente alla teologia femminista il recupero di questa dimensione relazionale (che è biblica) delle nozioni etiche. Già durante il Concilio Vaticano II, c’è da dire, i Padri avevano avvertito la necessità di affrancarsi dall’impostazione casistica postridentina, da un’etica legalistica sganciata dalla dimensione del soggetto e aveva ridisegnato il male in senso relazionale, come una fondamentale distorsione dei rapporti. Quello che è ascrivibile al pensiero teologico femminista è però la partenza antropologica duale. Il soggetto da recuperare nella riflessione etica è già “due”. Questo si visibilizza ad esempio nella riconfigurazione “binaria” della nozione di “peccato”: il peccato femminile appare come una tendenza alla dispersione di sé, come la perdita del proprio centro, come un continuo etero-appoggiarsi del soggetto; quello maschile invece si disegnerebbe piuttosto come il risultato di un autocentramento, di un egoismo, un ripiegamento sull’io.[14]

 

Ne viene fuori comunque un volto di Dio che non sta solo fuori, che non è tutto di là. Il Dio che cercano le donne si rivela come un Dio che è anche in loro stesse. Un Dio vicino, immanente, contingente, veramente incarnato, intensamente implicato nelle vicende umane, al punto da lasciarsene toccare. Un Dio che, pensato a partire “dal margine”, si rivela periferico, sfuggente alle categorie di onnipotenza e perfezione ontologica. Un Dio che ci vuole “in piedi” e che si ritrova ovunque i nostri piedi stiano camminando.

La teologia femminista comunque non si situa mai al di fuori dell’orizzonte della rivelazione, non esce da quello spazio relazionale tessuto per iniziativa divina. Dietro alla sua ricerca di un accesso e di una dicibilità differenti dell’esperienza di trascendenza c’è già, previo, il chinarsi di Dio verso l’essere umano. Quello cristiano è un Dio che “ha parlato” per primo e che continua a comunicarsi e a coinvolgere in maniera pervasiva.

L’esperienza di Dio vissuta e interpretata da donne si inserisce in questo evento relazionale non come un fatto accidentale, come un elemento occasionale che dà concretezza ad una struttura formale astratta: è piuttosto condizione stessa del rivelarsi di Dio.

Accade quindi che alcune donne, partendo dalla loro personale esperienza di rivelazione (esperienza che comunque non viene mai sganciata dall’evento gratuito e personale dell’autocomunicazione di Dio) si ritrovano ad interpretarla e a rimetterla nel circolo del pensiero secondo una modalità che sentono più vicina, più autentica e rispettosa del loro vissuto.[15]

Un guadagno reso possibile dal fatto che la presenza salvifica di Dio trascende la struttura di trasmissione umana, sempre segnata dal limite, e ci incontra nella nostra specificità, nella nostra integralità, così come siamo.

Non è facile descrivere come questo possa accadere e accada effettivamente.

È che il testo,[16] come tutte le altre dimensioni sacramentali, funziona come uno “specchio infranto”[17]: è il segno che rimanda (anche se frammentariamente) al divino senza star fuori dal divino. Questa complessità deve rimanere aperta, in tensione. Essa è la cifra della fisionomia stessa della relazione fra noi e Dio: una relazione che “si fa” attraverso i simboli, prende forma e consistenza attraverso quelle mediazioni che da un lato indicano e richiamano una realtà altra ma dall’altro realizzano, fanno essere questo rimando.[18] Sono i simboli, dunque, a rendere percepibile la vicinanza di Dio, e permetterne la comunicazione senza tradirla totalmente, senza annullarne la trascendenza. Avviene qualcosa, nella conoscenza simbolica, per cui facciamo esperienza di un’ulteriorità che ci tocca, che ci riguarda. Un’ulteriorità che fa traboccare il linguaggio senza renderci muti, una estrema pienezza che non ci avvilisce mostrandoci il nostro vuoto. Il simbolo fa quello che dice: crea una relazione effettiva in cui eccesso di Dio e povertà umana si toccano per un attimo senza porsi in confronto. [19]

Il simbolo travolge, disloca e disorienta ma allo stesso tempo apre spazi di significazione inediti e inesplorati, crea un luogo vuoto e silenzioso in cui Dio possa trovare dimora e parola.

È un evento che non provochiamo, che non costruiamo, che accade indipendentemente da noi ma non senza di noi.

Questa esperienza di Dio è già sessualmente connotata: essendo una relazione reale e autentica fra due soggetti, essa mette in gioco, nell’asimmetria e nella conflittualità naturale di ogni autentica relazione, due soggettualità.

Chiaramente la differenza sessuale si rende visibile in quel lavoro di codificazione che il simbolo, per sua natura, richiede[20]. Qui si gioca infatti la sensibilità ermeneutica delle donne, tutta protesa a far emergere quella promessa di libertà e di pienezza riflessa, seppur imperfettamente, nel testo.

Attraverso un lavoro lungo, mediato, paziente, che scommette sul senso di una connessione fra testo ed esperienza, la teologia femminista affronta anche delle rotture, dei drammi e delle lacerazioni. Innanzitutto chiede di prendere le distanze dalle letture tradizionali. Questo distacco è quasi sempre molto difficile e doloroso. La sensazione provata è quella di un’arrischiata sospensione, tutta pervasa da quelle incertezze che colgono chi lascia il vecchio, consolidato nel tempo, per un nuovo ancora non-caratterizzato ma comunque affascinante.

Questo “strappo culturale” non è certo quello più penoso: sono le ricadute sul piano interpersonale a far soffrire di più, a volte accompagnate da una non ben tematizzata sensazione di tradimento, dalla effettiva difficoltà nel dire dei no, nell’assumere posizioni apertamente in conflitto con quelle dominanti. La creatività femminile ha necessità… sensata e credibile una gestione del conflitto che sia relazionale, che non sia giocata sulla contrapposizione frontale e antitetica.

Il guadagno del pensiero, comunque, non è mai “a buon mercato”.

Non va taciuto che in questi ultimi anni la teologia femminista ha registrato l’influsso anche di altre differenze rispetto a quella sessuale: differenze geografiche, politiche, sociali, culturali hanno dato vita a diversi luoghi di scambio e di confronto, misurati su differenti tensioni, segnati da differenti forma di oppressione e da diverse modalità di orientare lo sguardo sull’ulteriorità.

Per questo la teologia femminista è un incrocio di prospettive e di accenti che non cessa di respingere un uso formale della categoria di ”esperienza delle donne”, categoria che non è affatto omogenea e onnicomprensiva.[21] Qualora questa categoria funzionasse come qualcosa di statico e chiuso, finirebbe paradossalmente per cancellare le differenze fra donne.

 

 

[1]              Rischio di cui ha discusso con il teologo Americano John Cobb. Cfr. R. D. GRIFFIN- TH. J. J. ALITZER, John Cobb’s Theology in Process, Westminster, Philadelphia 1977, pp. 84-98, 171-176

[2]              Cfr. MARIA CRISTINA BARTOLOMEI, Le donne dicono Dio. E Dio dice le donne?

[3]              Cfr. L. RUSSELL, Teologia Femminista, 1974, p. 89.

[4]              Cfr, R. RADFORD REUTHER, A religion for Women: Sources and strategie, in Christianity and Crisis, 1979

[5]              Cfr PH. TRIBLE, Depatrarchalizing in Biblical Interpretation, 1943

[6]              Schlusser Fiorenza ritiene improbabile quest’operazione di differenziazione fra testo e messaggio e quindi le pare insensato valutare il primo patriarcale e il secondo liberante. Chi ritiene possibile individuare proprio all’interno della Bibbia l’istanza critica con cui rapportarsi agli elementi patriarcali si basa sulla scorretta visione di un testo che non coincide con il messaggio ma che si limita a costituirne il contenitore in cui è inserito. Il messaggio finisce col diventare qualcosa di essenziale e astorico. Cfr, In memoria di lei

[7]              Cfr ad esempio E. K. BORRESEN, Natura e ruolo della donna in Agostino e Tommaso d’Aquino (1968)

[8]              Un guadagno ermeneutico che comunque ha sollevato varie critiche dal “pensiero della differenza sessuale”: il pensiero “di genere” finisce per perdere la differenza stessa, ritrovandosi a fare un discorso che non parte dalla singolarità sessuata ma dal contesto sociale, ad utilizzare metodologie falsamente “neutre”, ad invalidare  quella che è una radicale asimmetria fra i sessi, asimmetria che si gioca nel pensiero, nella scrittura, nell’atteggiamento verso la storia e la politica…

[9]              Un’attenzione ermeneutica si rivela fondamentale, di fronte a questa categoria che si ritrova a funzionare in contesti diversi e quindi ad assumere, conseguentemente, accezioni differenti. Possiamo individuare in questo senso quattro orientamenti:

  1. essenzialismo e culturalismo: si parte dal presupposto di qualità innate propriamente femminili (qualità “biofile”) atte a produrre una “cultura femminile”, materna, vitale;
  2. decostruzionismo: questa posizione nega uno specifico biologico originario e interpreta l’identità femminile come una stratificazione di simboli e di significati che vanno scomposti e disfatti per rivelarne il carattere fittizio;
  3. pensiero della differenza sessuale: approccio che si caratterizza per una domanda di fondazione del pensiero femminile, in aperta denuncia contro la falsa neutralità e universalità di un pensiero che nasconde in sé una matrice maschile e parziale. Il punto di partenza è quello di una irriducibile essenza corporea sessuale e femminile nel pensiero che induce alla ricerca di una fondazione autoreferenziale, specificamente femminile e quindi un una sostanziale irrelazione verso il pensiero maschile. Il pensiero della differenza si snoda a partire da questa strutturale asimmetria che segna irriducibilmente il pensiero. Un’asimmetria ricavata sia osservando che, nel pensiero, siamo implicati integralmente con la nostra individualità sessuata, sia anche sottolineando che il percorso di soggettivazione della persona umana inizia per tutti in relazione con la madre ma si diversifica nella sua seconda forma, quella dell’identità sociale, in un itinerario di sostanziale continuità con la madre per la bambina e di riferimento al padre per il bambino.

       

  1. orientamento incentrato sulle differenze situate che conduce a servirsi di un’altra categoria: quella di genere. Il “genere” è inteso come l’insieme dei processi, adattamenti, modalità di comportamento e di rapporti con i quali la società interviene sulla sessualità biologica trasformandola in un prodotto culturale, organizzando la divisione dei compiti, differenziandoli l’uno dall’altro. Si tratta, riassumendo, della costruzione sociale della differenza sessuale a partire da un dato biologico che non si dà mai nella sua purezza ma sempre inserito in una determinata cultura. Questo approccio funziona in un quadro relazionale: solo in un quadro di confronto la differenza sembra accessibile. La teologia solo di recente si è aperta a questa prospettiva: cfr. KARI E BORRESEN, A immagine di Dio. Modelli di genere nella tradizione giudaica e cristiana, Carocci Roma 2001.

Questa classificazione è tratta da CETTINA MILITELLO (a cura di), Donna e teologia. Bilancio di un secolo, EDB, Bologna, 2004.

[10]            In questo settore, come pure in quello storico, c’è molto lavoro da fare (mentre in quello dell’esegesi si cominciano a vedere i primi risultati riconosciuti e messi in circolo nel dibattito teologico).

[11]            Cfr C. CHRIST, Why Women Need Goddes, in C. CHRIST- J. PLASKOW, Woman-Spirit Rising (1979), pp. 273-286 o MARY DALY, Al di là di Dio Padre, 1973, A. ROPER, Ist Gott ein Mann? Ein Gesprach mit Karl Rahner, (1979) o ancora L. BOFF, Il volto materno di Dio. Saggio interdisciplinare sul femminile e le sue forme religiose, Queriniana Brescia 1981.

[12]            Una lista esauriente delle pubblicazioni cristologiche femministe fino al 1996 composta da D. Strahm si trova in Schlagenbrut 14 (1996) 53, 27-29.

 

[13]            Cfr. CETTINA MILITELLO, Donna in questione. Un itinerario ecclesiale di ricerca, Cittadella Editrice, Assisi 1992. L’autrice comunque, in un confronto con Von Balthasar, mette in luce le difficoltà create da una prospettiva ecclesiologica che, funzionando “per principi”, è incagliata nella metafisica più astratta, riconducendo Maria ad un’istanza spirituale che ne cancella l’individualità.

[14]            Cfr. VALERIE SAVING, The Human Situation: A femminine View (1960)

[15]            Cfr. LUISA MURARO, Il Dio delle donne, Mondadori, Milano 2003 e anche WANDA TOMMASI, Etty Hillesum. L’intelligenza del cuore, Messaggero, Padova 2002.

[16]            La Scrittura non esaurisce la Parola, anche se rimane il luogo privilegiato attraverso cui accediamo alla Parola stessa.

[17]            Espressione di Duquoc.

[18]            In questo senso ontologico il discorso teologico utilizza il termine “performativo”.

[19]            Chiaramente affermare questa valenza performativa del simbolo non significa farla coincidere con la soteriologia.

 

[20]            Questa non è affatto una considerazione pacifica, all’interno della teologia femminista. Cito ad esempio le obiezioni di Cettina Militello, in Donna in questione, riguardo all’utilizzo della “differenza” quale unica chiave ermeneutica per l’esperienza del trascendente e il discorso teologico delle donne. Per lei bisognerebbe avere il coraggio di affermare che questa categoria è estranea al pensiero cristiano delle origini e che essa non può funzionare come categoria portante del discorso teologico: è una categoria limitata e che si trascina dietro molti equivoci. Militello ritiene che interrogarsi sullo specifico femminile conduca inevitabilmente nelle secche della mistica della femminilità. Lavorare a partire dalla differenza, in teologia, chiude la questione femminile di nuovo nel silenzio, nel privato. La differenza sessuale porta alla coincidenza, nella donna e solo nella donna, di “corpo” e “natura”. Parlare di differenza significa mettersi al di fuori della soggettualità e della storia.

Militello ritiene preferibile pensare e porre il femminile, non diversamente dal maschile, con un’identica metodologia antropologica, metafisica, teologica. Preferisce utilizzare le categorie di “complementarietà” e “reciprocità”. In fondo, sottolinea la teologia, il dato biblico racconta di una comune e reciproca umanità che precede e fonda la differenza sessuale (Gen 1,26-27). Maschio e femmina hanno per lei in comune l’essere “a immagine di Dio”, per cui la sua antropologia teologica è innestata sulla reciprocità trinitaria. La chiave analogica fra l’essere umano e Dio sarebbe quindi quella della differenza-nella-reciprocità.

 

[21]            Elisabeth Green mette in guardia dal rischio di universalizzare una femminilità parziale e suggerisce quindi di utilizzarla come una chiave dinamica, che si definisce di volta in volta in interazione con i testi biblici. Shlusser Fiorenza, sensibile alla stessa problematica, suggerisce di evitare l’astrattezza ancorando la categoria di “esperienza femminile” a quell’esperienza di dissonanza cognitiva che le donne mettono a tema di fronte a situazioni di oppressione.