diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 8 - 2009

Visioni

SUR PARIS. Del parlare senza la lingua

 

Siamo arrivati a Parigi in treno il 18 Settembre 2007 ed eravamo tutti e due impreparati. Tanto impreparati che la gentile proprietaria del fast food dove andammo a mangiare il nostro primo pasto francese ce la mise tutta per spiegarci il segreto che rendeva superlativo il pollo al curry che avevamo sotto i denti, ma noi proprio non capivamo: la chiacchierata si risolse in grandi sorrisi, ampi gesti del capo e smorfie di incomprensione. Fu il preludio, quello, di una settimana difficile durante la quale affrontammo una lunga serie di trafile burocratiche e, di conseguenza, una lunga serie di impiegati piuttosto sbrigativi. Il tenore della conversazione certo non migliorò. In Italia avevamo frequentato solo un corso base di lingua, quel poco che bastava per parlare all’indicativo presente. Non esprimevamo né futuro né passato, nessuna sfumatura ipotetica, dubitativa o ironica. Nessuna sfumatura. Fu questa la prima caratteristica che ci colpì delle nostre minime facoltàverbali: ci sembrava che perfino i nostri pensieri fossero più netti, più duri, così polarizzati sul sì/no, bene/male, j’aime bien/je n’aime pas. L’identità tra pensiero e linguaggio entrava nella nostra esperienza cosciente e acquisiva tonalità emotive precise: la sensazione un po’ ridicola di essere obbligati all’iperbole con chi non parlava la nostra lingua, ma anche la paura che parti di noi si sarebbero atrofizzate, chiuse in quel mondo a due così conosciuto e familiare.

Nei mesi precedenti c’eravamo occupati di altri problemi legati alla partenza che ci sembravano più urgenti: in primis, capire cosa avrebbe potuto offrire la città ai nostri progetti di lavoro e trovare un appartamento economico. Eravamo impreparati, ma non totalmente sprovveduti  e confidavamo nella parentela che l’Italiano condivide col Francese.

In effetti, lo scompenso linguistico più profondo, quello che ci limitava a contatti brevi ­ sempre pieni di imbarazzo e ansia da prestazione ­ si risolse in breve tempo: un po’ perché ci eravamo pian piano rassegnati a non capire tutto, un po’ perché qualcosa iniziavamo a capirlo sul serio. Iniziavamo soprattutto a mettere a fuoco che la strada per alleggerire la tensione dello  scambio era stretta, tra la volontà di non ripiegarci sulla nostra comunità di origine e la consapevolezza chein un anno l’integrazione non poteva essere un obiettivo. Nei primi trenta giorni quindi, prendemmo la decisione più ovvia e pratica: ci iscrivemmo a una scuola per stranieri. Quattro ore a settimana di lezioni serali.

E’ difficile descrivere bene che tipo di atmosfera si crea dimg 1urante un corso di lingua. Si raccolgono in classe persone di nazionalità e di età diverse,che non hanno niente in comune. Il gruppo rimane legato da una comunione di intenti – imparare abbastanza per non aver più bisogno della scuola – ma questa comunione rende il gruppo una specie di antitesi della comunità. Il solo punto che viene condiviso da tutti è di solito la differenza che si rimarca rispetto al popolo di cui ci si sente ospiti. Un gioco delle identità e delle differenze che continua poi anche tra gli studenti:    spesso    viene    da    pensare    “com’è giapponese quel giapponese” oppure “com’è poco spagnolo quello spagnolo”. Come in una barzelletta, ognuno si trova nella condizione di rappresentare la sua origine. In che modo stilizzare  la propria storia per spiegare chi si è e contemporaneamente da dove si viene? Prendiamo per esempio la pizza. E’ un piatto generalmente amato da tutti, famosissimo, un simbolo dell’Italia – questo si sa. Senonché a Parigi molte pizzerie da asporto sono gestite da nord­africani e proprio un pizzaiolo algerino frequentava il nostro corso: appena la professoressa lo scoprì, intavolò una conversazione durante la quale noi e il nostro compagno fummo considerati a pari titolo degli esperti. Entrando a far parte di una cartografia inedita, anche se magari un po’ posticcia, l’italianità era diventata ad un tratto qualcosa di esotico. Quell’accostamento, vero o falso che fosse, segnalava forse la percezione di un’unità mediterranea sovrapposta all’identità europea? E noi? Eravamo diventati esotici anche noi?

La classe era una Babele, un luogo in cui anche l’identità di ciascuno veniva ridiscussa e forse per certi versi perduta. Ma questo non voleva dire che non ci fossero legami, anche molto forti. Al di là delle singole simpatie, prima di tutto c’era una partecipazione titanica alla fatica dei compagni: un coinvolgimento che rendeva le due ore di corso una riserva di fiducia nel poter essere capiti, se solo l’interlocutore avesse fatto uno sforzo.

Partecipazione e fatica aprivano e chiudevano il cerchio della lezione: due ore di pausa da una città molto poco comprensibile e poco disposta a star lì a capire, ma anche due ore di palestra. Ci si impegnava in una ginnastica di attenzione che rendeva cosciente il lavoro implicito della propria lingua madre, un lavoro smisurato. E smisurato, infinito era l’ultimo quarto d’ora di lezione, in cui si ascoltava ormai solo il suono delle parole, sfiniti, sperando che le orecchie trovassero da sole il senso del discorso, senza che ci si dovesse mettere di mezzo il cervello.

I legami, vuoi o non vuoi, si stringevano anche per il setting che l’insegnante era tenuto a seguire. Accanto alle lezioni di grammatica erano previste delle ore di conversazione, durante le quali si imparava il lessico minimo e un frasario per affrontare di volta in volta un argomento diverso. Ci si trovava così a parlare con dei semi­sconosciuti della propria casa, di come si poteva raggiungerla, della propria famiglia, del proprio lavoro, delle proprie aspirazioni per il futuro. Se ci avessero chiesto le stesse informazioni sui nostri compagni di classe al liceo, per alcuni non avremmo saputo rispondere nemmeno al quinto anno. Si era insomma gentilmente forzati alla conversazione. La forzatura era però ripagata dal docente con modi abbondantemente incoraggianti: anche i minimi progressi venivano sottolineati da esclamazioni entusiaste, mentre gli errori erano sempre petits, perfino quando della grammatica non rimanevano che macerie. Tutto il personale era professionalmente formato alla cortesia: sembravano infermieri addetti alla riabilitazione della nostra lingua.

Il corso tuttavia non si limitava a essere un incoraggiamento a comunicare. Se fai parlare due stranieri assieme, dopo due minuti si saranno inventati un linguaggio tutto loro di parole e suoni e gesti mezzi francesi, mezzi inglesi, mezzi boh. Durante la lezione quindi, niente era lasciato al caso: l’insegnante forniva sempre una griglia di domande prevedibili e possibili risposte entro le quali contenere la propria sfrenata volontà verbale o la silenziosa paura di sbagliare. Uno schema impersonale in modo inverosimile, un po’ robotico, ma comunque utile: era come un bordo vasca a cui aggrapparsi per non affogare, mentre ci si esercitava nello stile libero. E così ci trovavamo ad attivare quella specie di pilota automatico anche nel mondo reale, al di fuori della lezione, nei momenti di crisi o stanchezza. Quello stesso modo di comunicare lo avremmo ritrovato durante una delle fasi del nostro lavoro artistico e sarebbe stato uno degli scogli maggiori da superare per ottenere ciò che volevamo.

Prima di entrare nel dettaglio su ciò che abbiamo realizzato però, un ultimo sguardo alla scuola, al particolare che più di tutti ha catalizzato la nostra attenzione. Verso sera, nel vecchio edificio bianco di boulevard Raspail che ospitava le classi, avveniva una specie di cambio della guardia. I giovani studenti ­ perlopiù americani ­ che frequentavano il corso intensivo durante tutta la giornata, lasciavano il posto ai lavoratori dei corsi serali, un po’ più assortiti quanto a nazionalità. Nel passaggio dal giorno alla notte, si intravedeva tutta la composita gamma sociale che ruotava attorno all’istituto. A partire dalla mattinata fino alle 18, affluivano nei corridoi ragazzi e ragazze distribuiti in gruppetti piuttosto fissi che si creavano a mensa o durante le pause. Erano tutti più o meno giovani, ben vestiti e cool, tranne i pochi manager e gli impiegati col corso pagato dall’azienda, qualche casalinga con molto tempo libero o turisti che si erano concessi delle vacanze lunghe. Unica vera eccezione in quella fetta più che benestante di utenti, le baby­sitter: correvano in classe di mattina pure loro ­ una volta accompagnati i bambini a scuola ­ ma solo dalle 9 alle 11. All’imbrunire invece, gli spazi comuni, come il bar­ristorante o le sale di lettura, si svuotavano lentamente: chi li occupava, da una certa ora in avanti, era solo uno sparuto numero di studenti solitari, in ritardo coi compiti per la lezione delle 19. A quell’ora, una fauna ben più varia di umanità entrava alla spicciolata nell’edificio. Architetti, professori, concertisti, piloti d’aereo, idraulici, operai, muratori, studenti, impiegati, cuochi, professionisti di ogni settore confluivano nelle classi coi loro quaderni e i loro libri di esercizi.

Vedere tutta quella varietà riunita in una stanza di venti metri quadri era un bel colpo d’occhio. Sarebbe bastata una foto di classe per registrare la categoria di “straniero” nella sua complessità umana.

Soprattutto in una capitale cosmopolita in espansione continua, non si poteva ignorare che immigrazione significa anche trasferimento di saperi, competenze e capacità: parole lontanissime dal linguaggio del disagio che di solito occupa la scena. Non vogliamo però fare qui un’apologia di Parigi e dei parigini, anche perché quando si mettono di traverso sanno davvero essere stronzi come vuole il cliché. E non abbiamo intenzione di farla anche perché, oltre alla moschea costruita nel 1920 nel cuore della città, abbiamo visitato anche i foyers pour travailleurs nelle periferie: palazzoni fatiscenti di camere singole in affitto (9 m2 ciascuna), con bagni e cucine comuni, costruiti per ospitare lavoratori ­ tutti maschi ­ emigrati dalle ex­colonie francesi. Non vorremmo fare un’apologia quindi, ma piuttosto puntare l’attenzione sul fatto perfino banale che, nonostante tutto, si sopravvive, si vive, si lavora, ci si sporge verso il mondo anche senza la lingua, o senza una lingua di cui si è padroni. Quel che ci premeva, in quel momento, era porci una domanda: che cosa era andato dritto, che cosa aveva funzionato nelle vite dei nostri compagni di corso da quando erano arrivati a Parigi? Avevamo la fortuna di non essere dei sociologi, ma degli stranieri anche noi.

L’istituto che frequentavamo non era situato in un’area di frontiera, né era un’associazione benefica senza fini di lucro: al momento dell’iscrizione veniva richiesto un documento di identità e  il pagamento anticipato di una retta mensile non onerosa, ma nemmeno economica. Date le condizioni, era impossibile incontrare sans papiers o persone veramente indigenti per i corridoi. Pur scremata questa parte di realtà però, al corso avevamo per compagni persone residenti in Francia da ormai quattro o cinque anni che non erano ancora in grado di esprimersi meglio di noi, arrivati da appena una settimana. Ci girava la testa. Come avevano fatto a sopravvivere, a resistere tutti quegli indiani, pakistani, cinesi, giapponesi, sauditi che non potevano nemmeno farsi aiutare da qualche assonanza lessicale? Ci domandavamo noi, sentendo forte il peso della nostra condizione di afasici, di pesci. Avevamo bisogno di imparare dai nostri compagni, di ascoltare i loro consigli e le strategie che avevano collaudato negli anni per non perdere il bandolo della matassa nei boulevards della Ville Lumière. Da quel bisogno siamo partiti per realizzare Sur Paris, un documentario. Più o meno un documentario.

 

La premessa era chiara: avevamo bisogno soprattutto di ascoltare e domandare. Non potevamo essere noi il centro dell’atto creativo. Senza farci del tutto da parte, abbiamo assunto piuttosto il ruolo di guide ­ nell’uso dei mezzi artistici che mettevamo a disposizione e all’interno delle relazioni che andavamo creando. Tolte quelle relazioni, l’intera opera non sarebbe stata nulla, semplicemente non ci sarebbe stata.

Abbiamo lavorato con due gruppi distinti che durante la fase di realizzazione non si sono  mai incontrati. In un primo tempo, sono stati intervistati da noi circa quaranta studenti della scuola di lingua, per circa un’ora ciascuno. Erano diversi per età, origini e sesso, ma la differenza più vistosa la faceva la loro capacità linguistica: si andava da chi non aveva altro che un vago progetto di vita o di villeggiatura iniziato da due giorni o poco più, a chi ormai abitava a Parigi da anni, aveva messo su famiglia e conosceva palmo a palmo la città. Il secondo gruppo invece era composto da una ventina di francesi DOC, tutti già immersi nell’ambiente metropolitano come pesci nell’acqua. A loro non chiedevamo discorsi, ma immagini: abbiamo consegnato la nostra telecamera nelle loro mani perché filmassero la città e i luoghi che nella loro esperienza la rappresentavano di più. Gli uni avrebbero offerto, a parole, una sceneggiatura per le riprese effettuate dagli altri: il documentario non sarebbe stato realizzato dalla mano di un autore, ma si sarebbe composto quasi da solo, attraverso la mediazione dei punti di vista. Pur essendo noi il bandolo di tutte queste relazioni, ci siamo riservati la possibilità di un’azione diretta solo nella successiva fase di montaggio, sintesi di una mole immensa di materiali anche antitetici fra loro.

Nell’ ottica di Sur Paris, l’antitesi non è tuttavia un elemento indesiderato da risolvere o sopprimere. Al contrario, è la chiave d’accesso che permette allo spettatore di partecipare all’opera: di fronte a due dichiarazioni o due immagini dal significato contrastante, chi guarda è costretto a interpretare, a decidere chi ha ragione e chi ha torto, a mettere in discussione il proprio parere e il proprio vissuto. Inoltre, sono proprio le divergenze tra interviste e riprese, più che le coincidenze, a rendere prolifico, effettivo l’incontro tra i due gruppi nello spazio virtuale dello schermo. Lo scarto tra alcuni silenzi degli stranieri colmati dalle immagini raccolte dagli autoctoni, o viceversa tra la cecità parziale di questi rispetto alle testimonianze degli altri, contribuiscono a circoscrivere uno spazio in cui negoziare ciò che si conosce e ciò che si percepisce come reale. In quello spazio generato dallo schermo, attraverso la condivisione di un’esperienza artistica, volevamo fondare una comunità ­ seppure effimera, circoscritta e di breve durata. Come nei lavori di Rirkrit Tiravanija, il nostro esperimento assume un valore nella misura in cui appare in grado di mutare il modo in cui, chi vi prende parte, vede il mondo e agisce in esso. Ciò che ci premeva cambiare era soprattutto una determinata rappresentazione della città, una rappresentazione di cui avevamo sentito il difetto  anche in passato.

Prima di arrivare in Francia, abbiamo abitato per quasi cinque anni a Venezia, una realtà che, come Parigi, deve fare i conti con il potente immaginario che riesce ad evocare. Si tratta di un immaginario per certi versi pericoloso: a causa della bellezza che mette in luce, funziona da anestetico per la visione. Fa credere che la città basti a sé stessa, che faccia da sola tutto il lavoro che la rende vivibile, come un feticcio. E se feticistico è questo immaginario in senso antropologico, lo è a maggior ragione in senso psicanalitico, per il suo meccanismo a sineddoche, attraverso cui fissa l’essenza della città in un numero ristretto di luoghi rappresentativi che assorbono le altre interpretazioni possibili.

Ora, se ciò che si cerca di determinare di una città è la sua essenza, non si potrà fare a meno di parlarne in termini di verità e falsità. Lo fanno i turisti in pellegrinaggio alla Tour Eiffel o al Louvre, ma anche molti autoctoni, come i giovani petits princes che con guardaroba vintage imitano lo stile bohémien degli anni ’60, o come chi dichiara il suo amore per la rive gauche piuttosto che  per la rive droite. Ah, celle­ci c’est la vraie Paris – questa è la vera Parigi! – pensano. Bisogna chiedersi però se ha senso parlare in questi termini. Che cosa vuol dire per una città essere vera? Sembra un imbroglio della logica. Come si può attribuire un valore di verità a qualcosa che, come una metropoli, è esposto per natura all’eterogeneo, si fa percorrere da elementi contraddittori, diventandone l’habitat?

La nostra ricerca era partita dal bisogno di capire una nuova lingua e nello stesso tempo la nuova città in cui abitavamo. Per questo, percepivamo i due piani ­ quello del linguaggio e quello della metropoli ­ come strettamente intrecciati. C’è tra essi, crediamo, una forte analogia. Ed è seguendo l’analogia che si può iniziare a dare una risposta sulla questione della verità. Domandiamoci allora: è possibile che un intero linguaggio sia vero o falso? Oppure, è possibile che solo alcune parole rappresentino la verità, l’essenza di una lingua? Certamente no, converremo tutti. Sono piuttosto le varie combinazioni del materiale linguistico, sono le proposizioni, a poter essere vere o false. Ebbene, le metropoli non si comportano in maniera diversa. Ciò che conta è l’abilità di tessere insieme, in maniera armonica, le molte strade e i molti spazi a cui di volta in volta si vuole approdare. Le metropoli non sono una cosa, ma una rete organica di relazioni possibili. Al contrario, non si dà mai il caso che una città, presa nella sua interezza, rappresenti un’essenza distillata; né esistono posti in cui essa è più vera o più autentica. Perfino un quartiere turistico – pur sembrando un parco­giochi fuori dal tempo ­ segnala qualcosa di vero poiché mostra come la città tratta i suoi ospiti e che cosa di se stessa vuole far vedere loro. Racconta qualcosa di autentico, quel quartiere, nel momento in cui lavorano e vivono in esso persone in carne e ossa, nonostante e grazie ai turisti.

Sur Paris ha percorso in lungo e in largo le strade di Parigi attraverso racconti ed immagini. Ciò che si è andato costruendo è una vera e propria guida della città. A differenza delle altre guide però, non punta a trasmettere lo spirito di un posto a chi ancora non c’è stato, né a elencare cos’è veramente imperdibile vedere. Al gioco della verità abbiamo preferito la potenza di ogni singola narrazione. E appunto la palese singolarità dei racconti a cui ci si trova davanti impedisce che il nostro lavoro insegni qualcosa sull’oggetto di cui parla, impedisce che lo spettatore vi aderisca o vi si mimetizzi. Piuttosto che a seguire un itinerario, questa guida invita a riflettere sul proprio modo  di entrare in relazione con un territorio. Quando nell’opera ci si trova a un bivio, non è nemmeno detto che una delle due strade sia quella giusta. La realtà urbana fa incrociare il proprio sguardo con una varietà di punti di vista, componendo una mappa che non esclude lo strabismo. Ogni percorso, ogni discorso, trova legittimità nell’esperienza, nello scambio, nel bisogno di ciascuno.

 

« Sur Paris è un documentario – più o meno un documentario » abbiamo scritto qualche riga più sopra. Potremmo però anche dire così: Sur Paris è un documentario, ma non solo quello. Oltre  al video infatti, abbiamo scelto di utilizzare altri media tra cui il disegno e la fotografia. Anche in questo caso, abbiamo cercato di asservire lo strumento artistico alla buona riuscita della relazione concreta: il risultato estetico, affidato al rapporto con i componenti dei due gruppi, è dipeso da sentimenti come la fiducia e la serenità.

Poiché molti degli intervistati stranieri parlavano il Francese ancora poco o niente, il primo problema da risolvere, rivolgendoci a loro, era di superare l’imbarazzo reciproco dato dalla paura di non capirsi. Al naturale disagio di dover fabbricare lì per lì ogni frase, a prezzo di grandi sforzi, si aggiungeva per loro la soggezione verso la telecamera, pronta a registrare ogni défaillance col suo occhio impietoso. All’inizio di ogni ripresa, la tensione si tagliava col coltello e rischiava di far naufragare la comunicazione in un mare di stiracchiati monosillabi. Per scongiurare il rischio e rompere il ghiaccio, ci inventammo un piccolo gioco grafico che introduceva all’argomento, senza bisogno di usare parole.img 2

Chi entrava nella piccola aula bianca che  ci era stata messa a disposizione, trovava, ben fissata alla cattedra, una sorta di lavagna in plexiglas 50×30, quasi perpendicolare al piano sottostante: attaccato ad essa con lo scotch, un foglio A3 di acetato trasparente, su cui era stampata una mappa dettagliata di Parigi. Per ogni nuovo studente intervistato, alla piantina della città veniva sovrapposto un ulteriore A3, anch’esso trasparente, ma vuoto. Quest’ultimo supporto delimitava lo spazio di lavoro vero e proprio; gli strumenti da utilizzare, quattro pennarelli indelebili.

Sfruttando la trasparenza dei fogli, ad ognuno degli studenti stranieri veniva chiesto di associare i quattro colori – giallo, rosso, blu e nero – alle zone di Parigi che conoscevano meglio. L’associazione era assolutamente libera: ciascuno poteva cioè colorare senza limite di sorta tutte le zone che riteneva opportuno, avvalendosi di simboli, tipologie di linea, disegni scelti a piacere. Quando l’intervistato aveva finito di disegnare, il foglio colorato veniva staccato dalla lavagna e sostituito con uno ancora intonso, in modo che gli studenti non si influenzassero tra loro, vedendo i lavori dei compagni.

Il fine di questo gioco­laboratorio consisteva nell’integrare una propria personale legenda alla mappa della città. Speravamo così di ottenere qualche informazione visiva su come i nostri diversi interlocutori percepivano e organizzavano lo spazio metropolitano. Per quanto l’analisi di un campione così piccolo non sia rappresentativa, la collezione dei quaranta disegni diede un risultato imprevisto. Chi abitava da meno tempo in città, chi meno la conosceva, era generalmente spinto a riempire il foglio di segni e colori fino a cancellarne del tutto gli spazi vuoti. A portare il proprio gesto pittorico fino all’estremo della compulsione, furono tre americane in vacanza­studio: non abbiamo mai capito se il loro fosse horror vacui in rapporto a un territorio ancora sconosciuto, uno slancio colonizzatore, oppure se le tre credessero effettivamente di conoscere tutta Parigi attraverso la Lonely Planet. La terza ipotesi è avvalorata dal fatto che anche altri turisti, pur più discreti nel tratto, avevano segnato sulla carta sia i monumenti già visitati, sia quelli che avrebbero voluto vedere, o addirittura tutti quelli riportati sulla mappa. Nella loro percezione, itinerario reale e percorso simbolico si identificavano. Perlopiù, le linee adottate erano piccole sottolineature o cerchietti, cosicché le chiese, i musei, i palazzi, gli obelischi prendevano le sembianze di boe: punti fissi sparpagliati in un mare di quartieri sostanzialmente inesplorati. Disposti uniformemente in corrispondenza degli arrondissements centrali, i segni si facevano più radi vicino all’anello della périphérique.

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Forme conchiuse, come cerchi o quadrati, rimasero  quasi  una costante anche nei disegni di chi abitava  in città da più  tempo. Diminuiva  invece la quantità  di figure distribuite sul  foglio, mentre cresceva la  loro dimensione: erano ora  evidenziate dal disegno  porzioni anche più ampie delle  singole circoscrizioni  comunali. Il labor limae effettuato  sulla totalità  della superficie, permetteva l’inclusione di  nuovi  settori più variamente connotati. A prescindere da  questa tendenza complessiva però, non era possibile  assegnare alle divisioni risultanti un significato  univoco perché esso dipendeva dalla personale scala di valori che ciascuno adottava liberamente.

Due erano le interpretazioni più comuni del gioco da noi proposto. A chi sceglieva di descrivere con taglio personale gli spazi urbani, attraverso le funzioni assunte da essi nell’esperienza quotidiana di vita e lavoro, si affiancava chi forniva consigli pratici e generali rivolti a un ipotetico visitatore: allora venivano considerati come parametri il grado di pericolosità di una zona, le occasioni di svago, l’atteggiamento degli autoctoni.

Puntualmente ignorato fu invece il sistema di collegamenti attraverso cui poter passare da un punto all’altro, da una zona all’altra. La funzionalità dei luoghi di transito ­ fondamentale per una metropoli, ma connotata da rapporti anonimi e limitati – sembrava venire rimossa. Attraverso i loro disegni infatti, tutti gli intervistati dimostravano di organizzare lo spazio in sottoinsiemi, intuendo la presenza di quelli che gli antropologi chiamano villaggi urbani, tuttavia quasi nessuno segnalava i percorsi che permettevano a questi sottoinsiemi di integrarsi. Il dato diventa poi ancora più interessante se consideriamo che il piano urbanistico di Parigi è stato progettato secondo linee­guida estremamente riconoscibili dal punto di vista della viabilità. Era infatti la circolazione d’aria e di traffico uno degli obiettivi del barone Haussmann quando, a metà del XIX secolo, fece convergere i principali assi stradali verso i monumenti più celebri e diede alla città la sua tipica forma a spirale. Un rinnovamento urbano totale, che ancora adesso caratterizza la Ville Lumière. Perché tutto questo non emergeva nei disegni? Forse perché una delle peculiarità dell’ambiente metropolitano è quella  di occultare la propria struttura rigida per favorire tipi differenti di adattamento,  senza  creare frizioni interne. Il passaggio dev’essere rapido, in modo che il cittadino non percepisca come non a misura d’uomo la grande estensione del territorio che percorre.

Il gioco dei fogli da colorare era duttile ­ come si è visto ­ tanto da prestarsi a una molteplicità di interpretazioni. Chi vi prendeva parte, declinava il compito assegnato secondo scelte personali mai del tutto coincidenti a quelle degli altri. Dal punto di vista dell’analisi dei risultati poi, gli acetati potevano essere classificati in un’infinità di modi diversi: ce ne si accorgeva quando si sovrapponevano le superfici trasparenti l’una sull’altra al fine di abbozzarne uno studio comparato. Attraverso questo sistema, ad esempio, si poteva avere un colpo d’occhio su quali erano le zone frequentate da una determinata comunità etnica, ma anche su come alcuni quartieri non fossero significativi per la quasi totalità degli intervistati. Una duttilità così elevata però, non scadeva mai nel campo dell’aleatorio e del relativo perché c’era pur sempre la mappa di Parigi a fare da minimo comune denominatore sotto agli altri fogli. Essa rimaneva lo strato iniziale, il punto di partenza che guidava il disegno.

 

La presenza della mappa a fare da base era per noi un elemento imprescindibile del lavoro: attraverso il riferimento costante ad essa, volevamo segnalare la precedenza della realtà urbana sul contenuto delle singole narrazioni che raccogliemmo in seguito. Questo l’assunto: la metropoli è la condizione reale di tutti i percorsi e di tutti i punti di vista possibili che la attraversano. Senza il legame con la struttura della città, i segni impressi sui fogli perdevano il loro significato di impronte, tracce di un passaggio, diventando semplici linee astratte.

Tracce o astrazioni apparivano quei segni a seconda di come li si guardava, riferiti al loro contesto originario o isolati. Un terzo modo di considerarli è emerso in seguito, grazie al lavoro fotografico compiuto nella fase successiva. Con una macchina digitale, abbiamo realizzato una serie di ritratti degli studenti inquadrati frontalmente dalle spalle in su, richiamandoci nello stile alle foto­ tessere delle carte di identità o dei passaporti. Sul ritratto di ogni straniero è stato poi sovrapposto  un particolare o l’intero disegno tracciato sul foglio trasparente, in modo da creare un’associazione ulteriore. Le linee che così vanno a modificare ognuna delle quaranta facce ritratte, sono contemporaneamente un indizio e un elemento enigmatico: attraverso il rinnovato utilizzo degli acetati, lo spettatore è spinto a intuire o immaginare quale sia la storia e l’identità del soggetto fotografato. Avvenuto questo riorientamento, il segno si trasforma in simbolo di uno stile di vita o quantomeno di un’estetica.

Realizzare un ritratto era lo scopo anche delle interviste, le quali costituiscono la parte del lavoro che ci ha impegnato di più. La telecamera fissa inquadrava la persona a mezzo busto, ricordando l’impostazione delle foto. Oltre alle frasi di senso compiuto, ancora prima del messaggio, ci interessava catturare i movimenti del volto e del corpo, i silenzi e le esitazioni, le strategie non verbali per aggirare le lacune e raggiungere ugualmente una forma espressiva comprensibile. I colloqui duravano all’incirca un’ora e si svolgevano tutti senza la presenza di terzi: solo due volte provammo a filmare nel corso della lezione, ma l’ansia di parlare alla macchina davanti ai compagni si faceva sentire troppo alta. Desistemmo subito. Ci importava più di tutto che si instaurasse un rapporto sereno, in modo da far emergere una sincerità che altrimenti non avremmo potuto sperare di ottenere. In questo senso, giocò un ruolo fondamentale la possibilità che avevamo di presentarci, noi stessi, come stranieri. La distanza aperta dal video veniva colmata dalla condivisione di una lingua bricolage che faceva passare sopra agli errori – nostri e loro ­ con più facilità. Raccontare prima di tutto la nostra storia, della necessità di avere consigli e scambiare pareri, fu quindi una prassi che adottammo in maniera programmatica: fu una scelta di metodo.

La metodologia che seguimmo prendeva ispirazione dalla tecnica di ricerca etnografica che Malinowski definisce osservazione partecipante, la quale prevede che l’osservatore non rimanga ai margini, ma entri appieno nel mondo del gruppo studiato, condividendo con esso spazi, tempi e attività. In quanto ex­studenti della scuola di lingua, noi di certo non abbiamo avuto difficoltà a farlo.

I risultati in effetti arrivarono: i filmati sono zeppi di piccole confessioni, da straniero a straniero, che non crediamo avremmo ottenuto se fossimo stati degli intervistatori autoctoni. A sorprenderci fu in particolare l’enorme mole di pregiudizi sui Francesi che collezionammo. Si andava dal giapponese che li accusava di lavorare poco, alla cinese che li trovava tutti molto accoglienti e romantici, dalla brasiliana che descriveva indispettita quanto fossero chiusi e perfino un po’ puzzolenti, allo statunitense che ci metteva in guardia: le donne parigine sono frigide, guardano solo ai soldi. Pochi furono insomma gli intervistati che non si lanciarono in qualche audace generalizzazione, magari di segno nettamente opposto a quella formulata da un altro compagno. Eppure la scuola di lingua li aveva scoraggiati dal farlo, dedicando un’intera lezione di ogni corso agli stereotipi e alla loro scarsa attendibilità. Ciononostante – come si è visto – i pregiudizi si erano fatti strada. Perché? Che senso dare a tutte quelle dichiarazioni? Cosa c’era di irrinunciabile in quel tipo di ragionamento? Per cominciare, possiamo fare una considerazione di ordine fenomenologico: il processo che porta alla conoscenza di un oggetto determinato non inizia mai da un vuoto, dalla tabula rasa, ma da una precomprensione che fissa i primi, basilari punti di riferimento. Lo stereotipo è una delle forme sociali che tale precomprensione può prendere: positivo o negativo che sia, è una guida minima, la quale orienta l’azione in funzione delle aspettative che suscita. Al di là dei suoi contenuti banali, è uno strumento largamente diffuso e condiviso di interpretazione della realtà. Ma bisogna chiedersi a questo punto: a quale realtà si riferisce? Probabilmente a nessuna in senso esclusivo. Trattandosi di una forma di precomprensione, l’immaginario di ogni stereotipo non può attingere totalmente alla realtà nuova cui si rivolge, poiché essa risulta ancora in gran parte sconosciuta. D’altro canto, non può nemmeno derivare unicamente dal contesto di provenienza, il quale non viene esplicitamente chiamato in causa e dal quale, in ogni caso, è già in atto un processo di allontanamento. Ecco che allora si potrebbe definire lo spazio del pregiudizio come un ponte tra la terra d’origine e la terra d’approdo: lo spazio che permette di elaborare il distacco e ridefinire, in un modo o nell’altro, la propria posizione.

E’ l’elaborazione del distacco una delle funzioni esercitate dagli stereotipi che gli stranieri utilizzano. Almeno in due sensi. Esso rappresenta, per prima cosa, un tentativo di identificare i valori cardine della propria cultura, dalla quale ci si è allontanati. Prendiamo ad esempio le interviste: anche se oggetto delle descrizioni sembravano essere i francesi, essi non erano altro che il termine di un paragone implicito. Il metro era sempre dato dal paese di provenienza, il quale ­ nel vissuto della distanza, nella fatica di un nuovo inserimento ­ rappresentava la rassicurante certezza di appartenere ad una comunità. E poco importa che si tratti di una comunità reale o frutto di un processo compensatorio. In secondo luogo poi, pensare in modo stereotipato consente di restaurare la propria autostima anche in situazioni nelle quali ci si sente inferiori o a disagio. Nel caso ci si attenga a uno stereotipo positivo, tutte le grandi o piccole débâcles della relazione potranno essere annoverate tra le eccezioni trascurabili: se si presuppone di essere immersi in un contesto di  generale armonia, un’esperienza sgradevole verrà facilmente assorbita. Al contrario, nel caso lo stereotipo sia negativo, la responsabilità del fallimento o della mancata comprensione potrà essere attribuita interamente alla cattiva attitudine dell’interlocutore: egli sarà arrogante, schivo, con la puzza sotto il naso, come del resto tutti i suoi simili. In questo modo, la generalizzazione permette  di non considerare le proprie incompetenze verbali e simboliche come concause del proprio isolamento.

La produzione di pregiudizi è in ogni caso un fenomeno complesso, che intrattiene con la verità e la falsità un rapporto difficile da analizzare in poche battute. Le nostre parole certo non lo fanno a dovere. In questo senso, l’opera d’arte ha invece un vantaggio: permette di avere esperienza diretta della realtà di cui si fa oggetto. Attraverso la fruizione di Sur Paris, uno dei nostri obiettivi è dunque di mettere gli spettatori – francesi e non ­ faccia a faccia con lo stereotipo, in modo tale che il suo meccanismo possa essere riconosciuto ed elaborato. O quantomeno subìto, interrogato.img 4

Sur Paris ha un vantaggio ulteriore: mette in mostra delle strategie positive che agiscono sul pregiudizio per arginarlo. La prima – forse paradossale – potremmo chiamarla soluzione turistica. Essa consiste nel circoscrivere la propria vita in città a una zona limitata, che corrisponda appieno al proprio stereotipo positivo. Così faceva ad esempio un professore australiano che passava qualche mese all’anno a Parigi: da molto tempo non metteva piede fuori dal Marais, perché  in quel quartiere aveva trovato la sua dimensione. Così faceva la nostra amica Francesca, che lavora in uno di quei foyer pour travailleurs. Una sera cidisse convinta: « Alla fin fine io rimango una turista, anche se vivo qui da tre anni ». Lei, ogni due mesi, si concedeva una serata al Quartier Latin e, come in Erasmus, si abbuffava di crêpes per poi girellare lungo la Senna. Sulle prime ci sembrò un comportamento strano, quasi sbagliato. Poi capimmo meglio. Il suo lavoro la teneva a contatto con situazioni di enorme malessere: le sue fughe nei quartieri del centro erano tentativi di riconciliarsi con la città attraverso la bellezza, di ritrovare le motivazioni che l’avevano spinta ad abbandonare la Calabria. Ciò che cercava era lo stupore, uno stupore che solo l’atteggiamento disinteressato del flâneur o del turista possono assicurare.

 

Questa sorta di tecnica però non dissolve lo stereotipo, cerca piuttosto di accordarlo alla realtà vissuta. Il vero scarto, quello che cambia totalmente la visione delle cose, viene prodotto in altro modo: il più ovvio forse, ma anche il più dirompente. E’ il creare legami che scompagina, che rivoluziona tutto. Rapporti d’amore, certo, ma anche di lavoro, che inseriscono il percorso di vita in un progetto consapevole. Nel momento in cui parlavano dei loro legami, le persone che abbiamo intervistato riconoscevano allo stesso tempo di aver compiuto ­ mentre lasciavano il loro paese d’origine ­ una scelta cosciente, responsabile, voluta. Tutte queste persone riuscivano a limitare la voglia di generalizzazioni per concentrarsi su un linguaggio carico di esperienze personali.img 5

Un simile passaggio lo descrisse alla perfezione una gentile ragazza giapponese sulla trentina. Ecco cosa ci raccontò: « Vivo a Parigi  da dieci anni e sono sposata. I primi tempi non ero felice qui e non facevo altro che lamentarmi  di quanto poco andassi d’accordo con i Francesi: pensavo fossero molto chiusi e che lavorassero poco. Avete notato che la domenica qui è tutto chiuso? Siamo in una capitale europea e di domenica i negozi non sono aperti?! Un giorno però stavo lamentandomi come al solito al telefono con una mia amica a Tokyo, quando lei mi  dice  “sai  che  sei  diventata  lagnosa  come i parigini di cui parli? Non ti riconosco più”. Per me è stato uno shock, ma mi ha fatto riflettere. Ero cambiata davvero. Ho pensato al mio compagno, al lavoro che faccio e che mi piace. Da quel giorno mi sono ripromessa di non lamentarmi più e prendere solo il buono ». Più sinteticamente, una suora delle Fiji, che non sapeva quasi per nulla la lingua, alla nostra domanda se fosse stato difficile il trasferimento, rispose « I’ve got my mission »: come i Blues Brothers.


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Non solo legami d’amore o lavoro. Inaspettatamente, nelle  interviste venne messo a tema un altro tipo di relazione, che  addirittura eccedeva la vita dei singoli per includerla in un  flusso  più ampio. Non della loro storia, ma della Storia ci  parlarono una  coppia di tedeschi in pensione. Li avevamo  adocchiati in  caffetteria  e furono tra i più disponibili a farsi  intervistare. La  signora stava  mostrando al marito le aule  che trent’anni prima  l’avevano vista  studentessa: fu  lei a  tenere banco durante l’intera  chiacchierata. Ci spiegò che  ogni anno si concedeva una vacanza in una diversa nazione europea, includendo sempre nel suo pacchetto di viaggio l’iscrizione a un corso di lingua. Non cercava esperienze avventurose – ci disse – era mossa piuttosto dal bisogno di fare i conti con gli eventi che avevano segnato il passato del suo paese. Alle fratture che il nazismo e la guerra fredda produssero, cercava di rispondere diventando lei stessa paladina dell’Europa. Con gli occhi tranquilli che parlavano anche loro, seppe raccontare di come fosse stata sua madre a infonderle il sentimento di una responsabilità così alta, sua madre che nel dopoguerra aveva provato la vergogna di essere tedesca. Lei di quella vergogna aveva sentito il peso durante i suoi primi viaggi, quando puntualmente percepiva l’astio di chi aveva vissuto i conflitti dall’altra parte della barricata. Voleva riscattarsi, la nostra Elke, prendersi carico della pesante eredità, senza rimanervi schiacciata. La strada che aveva trovato faceva perno proprio sull’apprendimento delle lingue: parlando le lingue degli altri, rispondeva all’ostilità con un’apertura che andava oltre l’espiazione.

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Come le persone, come Elke, anche le città hanno una storia. La raccontano attraverso palazzi e monumenti, segni che cambiano significato mano a mano che la metropoli si espande, aggiunge nuovi strati, demolisce o modifica quelli vecchi. Basta un nuovo accostamento di forme perché il racconto evocato sia un altro. La città ha memoria e questa può essere rimossa o rimanere implicita ai passanti.  La città ha un linguaggio, ma parla a ciascuno in maniera differente: come in ogni dialogo, serve un buon ascoltatore che risponda, che   interpreti.

Basti  pensare  alle  piramidi  di  vetro  e   acciaio costruite da Ieoh Ming Pei davanti all’ingresso del Louvre che si affaccia su Place du Carrousel.

« Quando guardo quelle piramidi, vedo il mio Paese » ci disse un muratore egiziano. E continuò con foga sempre maggiore a descrivere come, soprattutto la domenica, i visitatori affollano il museo per vedere i capolavori dell’Egitto antico. « Il 90% dei francesi è interessato all’Egitto » ci disse  ancora «e anche chi non lo è, deve studiarlo sui libri di scuola. E’ obbligato ».

Quell’obbligo non è solo un’inevitabile passaggio storico ma forse anche l’evidenza di un debito tuttora aperto. Motivo di orgoglio e istanza di riconoscimento.

 

Con il gruppo di francesi abbiamo lavorato in maniera diversa. Non siamo stati costretti a pedinare nessuno: ci è bastato affidarci a relazioni che già esistevano. Attraverso il passaparola, su internet o a voce, ognuno dei nostri amici parigini ha coinvolto nel progetto la propria rete di conoscenze. Siamo entrati in contatto così con venti perfetti sconosciuti, tenuti insieme da una labile ma preziosa amicizia di secondo grado. Li abbiamo riuniti nel nostro atelier, lanciando loro una sfida: filmare  per un’ora la propria città. Il gioco consisteva nel far passare di mano in mano un’unica videocamera – la nostra – dando vita a una staffetta di riprese e visioni. Stavamo tracciando una nuova mappa empirica di cui ognuno era responsabile per il tratto di strada che andava rappresentando. Chi riprendeva si portava dietro un’idea consolidata della realtà metropolitana dove aveva vissuto per anni. Ma quanto quell’idea era veritiera, comprensiva e ben fondata? Come poteva tradursi in immagini? Ciascuno cercava le prove per documentare la propria opinione di partenza.

La dimestichezza con il mezzo video era generalmente molto scarsa, ma questo rendeva l’impresa interessante. Come nelle interviste, avevamo posto i nostri interlocutori a confronto  serrato con un linguaggio che non apparteneva loro. Anche in questo caso, l’inesperienza era il motore espressivo di un esercizio comune. Lo sforzo che i Parigini dovevano compiere per improvvisarsi filmaker aveva una funzione creativa: li costringeva a porsi con occhi nuovi dinnanzi ad un paesaggio consueto. Senza parole e con una vista traballante, diventavano stranieri nel loro stesso habitat.

Del risultato delle riprese e di come dialogheranno con le interviste non ci è ancora possibile parlare: la videocamera continua a girare e tornerà a casa tra qualche mese. Per ora, tutto ciò che abbiamo è il nostro slancio verso i molti legami che la città ci ha offerto. Mettere a disposizione i nostri strumenti ed il nostro tempo è stato un dono diretto a tutte le persone che abbiamo coinvolto. Un gesto di fiducia che attende risposta.