Sue lame, suo miele
Sue lame, suo miele
Testi poetici di Mariangela Gualtieri
Introduzione di Roberta Del Bene
I versi qui pubblicati, sono quelli che Mariangela Gualtieri ha scelto per un incontro pubblico, dedicato al tema del presente, tenutosi all’Università di Verona il 30 novembre 2005[1]. Li ha letti in una grande sala, di quelle riservate alle cerimonie universitarie, con le pareti alte e affrescate, la luce del pomeriggio, seduta sul tavolo dei conferenzieri. Dopo la lettura, per circa un’ora e mezza, diversi studenti del corso di Filosofia del Linguaggio e altre e altri, studenti e non, chiamati dal tema o anche da Mariangela, hanno discusso e ragionato di presente attraversando la poesia, il teatro, la filosofia, la politica.
UNA POESIA CHE NASCE DA UN ESSERCI TOTALMENTE AL PRESENTE
Nel ripensare ai suoi versi mentre li pronunciano, li cantano o li gridano gli attori e le attrici del Teatro della Valdoca, tutt’uno con le azioni sulla scena, si ha subito un’idea di cosa possa intendere Mariangela Gualtieri dicendo che la sua poesia ‘nasce da un esserci totalmente al presente’. Subito rivedo il modo del tutto peculiare degli attori nell’arrivare sulla scena, con azioni forti, corse, danze, con parole cantate, spesso monologhi di presenze solitarie. Arrivano come irrompendo e ricombinando tutta la scena; come se ciascuna azione, ciascuna corsa, o canto o silenzio, riordinasse il tempo e lo spazio intorno a sé, come se il suo senso si svelasse tutto in una volta. Irruzioni di presente, in cui ogni cosa accade e si svela ora.
Quasi tutti i versi di Gualtieri sono versi nati per il teatro, o per meglio dire in teatro. Come lei stessa racconta, il suo lavoro di scrittura drammaturgica, che si intreccia all’intero percorso della Valdoca, avviene in gran parte nella ‘relazione in presenza’ con gli attori, il regista, i musicisti, e anche con chi si occupa delle luci, dei costumi, delle scene; nella pratica della Valdoca, cominciare a lavorare ad uno spettacolo significa ritrovarsi tutti nello spazio teatrale e avviarsi in un cammino senza progetto, senza parole già scritte, senza azioni e sequenze già pensate, dove tutto accade via via, al presente.
Il rapporto del tutto particolare tra il presente e la poesia di Mariangela Gualtieri, certamente dunque, ha a che fare con questo suo nascere così prossima ai corpi e agli spazi teatrali, e nutrisi di ascolto di quello che accade e di quello che arriva; una specie di matrice che la rende capace di far tornare il presente, che, nell’alchimia del teatro – dove tutto si ripete come se fosse la prima volta – nuovamente irrompe sulla scena.
Ma questa matrice, questa capacità di lasciar entrare il presente, la poesia di Gualtieri sembra mantenerla anche fuori dal teatro, quando la incontriamo nella dimensione del tutto diversa della lettura e il rapporto con le sue parole non ha più la mediazione del teatro e delle azioni degli attori. Nella loro dimensione per così dire ‘letteraria’, il rapporto privilegiato tra i versi e il presente si intuisce come qualcosa che ha a che fare propriamente con il linguaggio: con la grammatica, con la sintassi, con la morfologia stessa delle parole.
Nel leggere le poesie di Mariangela Gualtieri, mi ha sempre colpito il modo in cui la lingua risulta scompigliata e perfino sgrammaticata. Mi colpisce il modo in cui proprio questa sgrammaticatura – un apparente disordine, che richiede di tornare e soffermarsi sulle parole e sulle loro ‘combinazioni’ – riattiva la capacità delle parole stesse di evocare immagini, significati, paesaggi, esperienza.
Penso per esempio a come un sostantivo può diventare un verbo e di nuovo un sostantivo, scompigliando e al tempo stesso rispettando le possibilità della lingua, come in questi versi: “Sto qui nel patimentare di pensieraccio infame…”; che proseguono – disordinando e ricombinando l’ordine delle parole, i registri linguistici, l’uso delle preposizioni:
“Sto qui nel patimentare di pensieraccio infame con dentro basse onde della poca forza vitale d’oggi, giornataccia difficilissima all’andatura del fare, che niente ha dentro il riuscire quest’oggi”[2].
Penso anche ad alcuni versi dall’‘andatura zoppa’, in cui c’è un uso ‘sregolato’ degli avverbi e degli aggettivi, anticipando o posticipando la loro posizione tra le parole:
“Mio caro ba’, io sfinisco
nel troppo battente frullo dei pensieri
che sono piccoli assai e gocciolanti sempre
nel frazionato tempo”[3]
La lingua di Gualtieri sembra rinunciare agli articoli, alle congiunzioni, a quegli elementi del linguaggio che permettono di riconoscere con certezza un prima e un dopo nel discorso, che permettono di riconoscere la gerarchia delle sue parti. Ogni parola, ogni frase, arriva come una immagine a sé; e solo alla fine, si rivela un ordine, una immagine complessiva in cui ogni cosa è al suo posto.
“So che la scrivente mano non è mia. Voci.
Mio corpo multiplo, labirinto e popoli che non classifico.
Ritornare a voi, le sepolte, le molte mani col dono. Indicare
l’uscio, slegare il catenaccio, fare dormire tutto il respiro,
crescere me, prego, senza polvere, senza peso,
senza ginocchia piegate, senza parti rotte”[4]
La lingua sembra semplificarsi, e preferire le frasi brevi, i verbi al presente o all’infinito, gli elenchi, le ripetizioni:
Ecco il mondo che dice: m’increpo! m’increpo!
Ecco il mondo bussare alla mia porta con corpicini secchi secchi
Eccolo bussare con sua ciotola crepata e vuota
Ecco il mondino sghembo scortecciarsi e sbrecciarsi
Ecco la mia pietà intontita riprendere quota
Ecco la mia pietà adirarsi. La mia pietà bardarsi
la mia pietà imbestiarsi[5]
E in questo ‘semplificarsi’ della struttura della lingua, ecco spiccare parole del tutto nuove, impreviste, come, nei versi appena letti, questo ‘imbestiarsi’.
Nell’‘essenzializzare’ la struttura del linguaggio, nel giocare con le sue regole e rinunciare ad un ordine ‘coerente’ e riconoscibile del discorso, in questo scombinare la parola, la lingua poetica di Gualtieri fa spazio intorno alle parole, restituisce loro la capacità di chiamare chi legge ad ascoltarle.
Nelle Note al Parsifal Mariangela Gualtieri scrive a proposito del suo lavoro: “Il paradosso della mia scrittura sta nel voler essere affermativa, nel voler caparbiamente trovare armonia in mezzo a questi cocci […] Là dove la parola è dotata di potenza positiva si opera all’inverso, cioè si decostruisce, si toglie rigidezza, si allarga il campo visivo, ma soprattutto si opera per via di levare. Levare materia, calce e mattoni, levare peso, zavorra, ceppi.”[6]
Quella di Gualtieri è una ‘lingua a togliere’, ma che nel togliere non cancella l’impronta; rimane una sospensione, un dubbio, un vuoto. È grazie a questo vuoto che, nei versi come in scena, irrompe il presente: la lingua ci interpella, ci mette nella necessità di riguadagnare il senso delle parole e della loro sequenza solo a partire da quello che c’è. È quel vuoto, nel momento della sospensione dei significati già a disposizione, che permette alle parole di ricombinarsi e svelarsi in un senso inatteso: una parte mancante che mette in movimento quel che c’è, che interpella il presente, chiama e chiede nuove connessioni con l’esperienza, riattiva la possibilità di un rapporto vivo con la parola.
Io parlo all’amore. Lo scortico dall’incrosto
nel sogno e ne faccio musica storta
ne faccio delicato vento che solleva o dondola
e impollina al cuore. Alla scomposta
mente, impollina l’occhio con l’occhio
l’occhio con l’animale e viene il bello
che ci sviva, ci sviva tutti. Di più.[7]
LINGUA POETICA, LINGUA CORRENTE, LAVORO POLITICO
Più volte, nel corso della discussione del Seminario, è emersa l’idea che il rapporto privilegiato tra la poesia di Gualtieri e il presente, ovvero la sua capacità di riattivare e rinnovare il rapporto tra la lingua e l’esperienza, possa valere, per noi e per il nostro tempo, come una indicazione di lavoro politico.
Che sulla lingua insistano una questione e un ‘nodo’ fondamentali per il nostro tempo è reso evidente dal ruolo centrale che la comunicazione e la dimensione relazionale hanno assunto negli ultimi decenni, complice l’impennata di sviluppo tecnologico che ha trasformato radicalmente tutti gli ambiti della vita e le condizioni stesse della comunicazione e del linguaggio. C’è una espressione che l’economista e sociologo Christian Marazzi ha scelto come titolo per un suo saggio, che suggerisce con acutezza quale posto il nostro tempo riservi alla lingua: Produzione di merci a mezzo di linguaggio[8]. Se per tutti è evidente il modo in cui l’uso del linguaggio e delle parole sia fondamentale per la circolazione delle merci sul mercato, l’espressione di Marazzi suggerisce un passaggio in più: nell’epoca in cui la comunicazione e le relazioni tra umani sono al centro delle dinamiche di mercato e del modello di sviluppo economico, la capacità del linguaggio di far esistere una merce sul mercato è più importante della materia prima di cui è fatta. Ormai integrata nel ciclo di produzione e divenuta a sua volta merce – un bene il cui valore è traducibile in moneta – la parola arriva a far esistere quel che non c’è, ovvero far sembrare diverso quello che è. L’equivalenza con il denaro la rende indifferente all’esperienza, la svincola dalla consistenza e dalla materialità delle cose, la rende inaffidabile, e abituandoci all’idea che possa fingere, rinunciamo a consegnarle il senso di quel che viviamo e sentiamo. La parola perde autorità, non le riconosciamo più la capacità di fare ordine nello scambio libero tra gli esseri umani, perché dal momento in cui è messa a produzione, è il mercato a dare ordine e misura allo scambio. Ma dal momento abbandoniamo la parola alla equivalenza con il denaro, la lingua corrente, la lingua che permette e veicola la comunicazione quotidiana tra gli umani, dismette la sua funzione politica di immetterci nello spazio pubblico per implicarci nella significazione del reale e delle sue trasformazioni.
La lingua poetica di Gualtieri con quel suo ‘scorticare’ le parole, con quel suo scombinare le parti del discorso per svelare un altro ordine possibile, crea interferenza nella lingua corrente, la mette in forse, o più precisamente mette in forse l’ordine che il mercato le impone. Chiedendoci di soffermarci sulle parole, e di farci domande sul loro senso e sulla struttura stessa della lingua, chiamando in causa le nostre esperienze per rimetterle in gioco nel processo di significazione, i versi di Gualtieri ci aiutano a vedere l’assedio a cui è sottoposta la lingua corrente e ci indicano una via per riattivare la funzione politica della lingua pubblica: riattivare un rapporto vivo tra la parola e l’esperienza, restituire consistenza alla lingua, riconoscerle la capacità di disvelare un senso imprevisto del reale, singnifica reimettere fiducia nello scambio e nella comunicazione, restituire affidabilità alla parola, riattivare nella lingua la capacità, irrudicibile al mercato, di creare senso condiviso e spazio pubblico.
I testi che seguono ripropongono la stessa sequenza di versi scelta da Mariangela Gualtieri come suo contributo al Seminario di Filosofia del Linguaggio sul tema del presente. Sono tutti pubblicati da Einuadi (Fuoco Centrale, 2003; Senza polvere senza peso, 2006).
Lettura di Verona 30 novembre 2005
gli *** separano una poesia dall’altra
(la prima strofe è di Amelia Rosselli)
“Sento la grandine.
Sento la grandine che dice
“Tu! tu non sei dei nostri.
Noialtri ce la ridiamo delle bufere.
Tu ammaestri i polli con le tue lacrime,
da buon mercato,
il tuo usare la parola amore”.
Da buon mercato”.
Sento l’abete che dice:
“Tu non sei dei nostri.
Guarda noi come svettiamo per altezza di contemplazione.
Tu intorbidi il cielo con le tue richieste.
Merce avariata le tue preghiere. Merce avariata”.
E adesso senti?
Sta per rompersi tutto.
Sento ogni foglia cadere.
Sento l’albero che smolla che smolla.
Sento teste malate tutt’intorno.
Sento che il pane è in disordine.
C’è disordine dentro il pane
e dentro l’acqua.
Senti che disordine?
***
Ecco il mondo che dice: m’increpo! m’increpo!
Ecco il mondo bussare alla mia porta con corpicini secchi secchi
Eccolo bussare con sua ciotola crepata e vuota
Ecco il mondino sghembo scortecciarsi e sbrecciarsi
Ecco la mia pietà intontita riprendere quota
Ecco la mia pietà adirarsi. La mia pietà bardarsi,
la mia pietà imbestiarsi
Ecco il grande aereonautico baccano
Ecco i quaranta ladroni del mondo
Ecco la cacciagrossa
Ecco il mondo che dice: fate piano fate piano
Eccolo che dice: sono delicato
Ecco il mondo messo nelle lotte
Ecco l’alta marea del pianto con singhiozzo e cateratte
Ecco il veleno. Ecco lo schiaffo e l’ustione. Ecco l’amputazione.
Viene il mondo alla mia porta
e vedo vedo sue faccine esplose
vedo vedo che mi innamoro di lui mondo
Ecco che mi innamoro di lui mondo
di suo corpo celeste rotante, fra mille stelle
Ecco il grande cozzare, ecco il grande boato salire
e mi fa dispiacere sì grande
mi fa così dispiacere sì grande, sì grande, sì grande
Salverò io il viandante infreddolito
cucirò coperte di purissima lana
darò fettine di pane
io allatterò, avrò cura per ogni piuma e chicco
per ogni alveare, ogni cervo impigliato lo libererò
ricucirò il palato dei pesci
ogni antenna di grillo e ala e squama
e capannetta di fango e tetto rotto
e abituccio logoro: farò bene, farò bene
aggiusterò, nutrirò, ogni manina secca io la ingrasserò,
ogni testa inceppata, ogni casa scoppiata, ogni campo pestato e rotto,
ogni, ogni, ogni.
Ecco il mondo che dice:
“i tuoi sogni sono una manciata di parole funebri”.
Eccolo che dice: “calmati e tutte le scodelle si riempiranno”.
***
Forse sono i bambini a sostenere il mondo
e gli animali, forse sono i cuccioli d’ogni specie.
C’è tanta gioia dentro quei corpi piccoli
tanta di quella preghiera, forse sono i bambini
i fiori l’acqua, le cose fatte da due mani,
la quiete di una casa, robe di niente.
Forse la gioia è la preghiera più alta.
Ma avevo troppo da fare io
ero sempre nel pieno d’una lotta
ero nelle velocità del sangue
nella sua corsa impennata di sangue
che chiede una vittoria
una qualunque. Ero
dentro la storia – a quella solfa
di nomi e cognomi a quella graduatoria
di chi gliela fa.
Forse la gioia è nella geografia che non ha
nomi di persona ma catene di monti
continenti città mari campi. Ere.
***
Annunciare le stelle
accogliere quel loro pane
nella mente, farsi nutrire
dondolare la mente fino
alla pulizia totale
Tendere all’insù, come dettano
le cime delle piante.
Che cosa sei, tu? Movimento
del sangue che prende
aria e la circola per tutto
il regno. La diffonde. Io respiro.
sono nella vita in una forma
respirata tiepida, morbida e rosa.
Respiro continuamente. E’ il mio
punto d’innesco alla fiamma centrale.
Io respiro anche quando dormo
sto attaccata alla fonte respiratoria.
E’ così semplice: respiro. Sono. Sono qui.
Una forza mi aziona il battito
gonfia e svuota il polmone
una forza mi tiene qui.
Le nuvole vanno al lavaggio spirituale.
La madre è bellissima oggi
avvolta in un cielo fiammeggiato
sento la sua antichità serena
quel suo essere cosmo
Sento il cosmo che tiene
e non è stanco.
Solo l’uomo è stanco.
Solo lui dispera. Vuole e dispera.
che cosa vuole? che cosa vuole?
l’inquieto grumo de la creazione.
Valore vuole. Essere certo
d’esser qualcuno, d’esser qualcosa.
Essere meno non lo sopporta
meno di un altro come Caino.
Da sé vuol farsi, sua propria mano
rimodellarsi. Creatura strana
anima zoppa – sempre –
***
“Giuro per i miei denti di latte” giuro per il
correre e per il sudare giuro per l’acqua e
per la sete giuro per tutti per i baci d’amore
giuro per quando si parla piano la notte
giuro per quando si ride forte giuro per la parola no
e giuro per la parola mai e per l’ebrezza
giuro, per la contentezza lo giuro.
Giuro che io salverò la delicatezza mia
la delicatezza del poco e del niente
del poco poco, salverò il poco e il niente
il colore sfumato, l’ombra piccola
l’impercettibile che viene alla luce
il seme dentro il seme, il niente dentro
quel seme. Perché da quel niente
nasce ogni frutto. Da quel niente
tutto viene.
***
Io sono spaccata, io sono nel passato prossimo,
io sono sempre cinque minuti fa,
il mio dire è fallimentare,
io non sono mai tutta, mai tutta, io appartengo all’essere
e non lo so dire, non lo so dire, io appartengo e non lo so dire, non lo so dire,
io appartengo all’essere, all’essere e non lo so dire
io sono senza aggettivi, io sono senza predicati,
io indebolisco la sintassi, io consumo le parole,
io non ho parole pregnanti, io non ho parole cangianti,
io non ho parole mutevoli,
io non disarticolo, non ho parole perturbanti,
io non ho abbastanza parole, le parole mi si consumano,
io non ho parole che svelino, io non ho parole che puliscano,
io non ho parole che riposino, io non ho mai parole abbastanza,
mai abbastanza parole, mai abbastanza parole
ho solo parole correnti, ho solo parole di serie,
ho solo parole del mercato, ho solo parole fallimentari,
ho solo parole deludenti,
ho solo parole che mi deludono,
le mie parole mi deludono, sempre mi deludono,
sempre sempre mi deludono, sempre mi mancano
io non sono mai tutta, mai tutta,
io appartengo all’essere e non lo so dire, non lo so dire,
io appartengo e non lo so dire, non lo so dire,
io appartengo all’essere, all’essere e non lo so dire
oh! ascolto!
oh! pazienza dell’udire!
oh! udire ! udire!
oh! solitudine da cui parlo!
oh! cosa che non ti consumi!
oh! sapere! oh! verità!
oh! tu cangiante, tu mutevole, tu sempre incinta!
***
Preghiera degli animali alla madre terra
per ogni cucciolo d’uomo
Fa che non si facci uomo per intero, ma’,
che poi si inficca ne lo stretto del pensiero
e si assepàra dalle zanne e dai peli e
dalle nostre tane di silenzio.
Non dargli voce, ma’, fa che non parla
fa che non costruisce le città
fa che non dà i nomi a tutte cose,
che sennò perde il regno,
fa che i suoi piedi parlano a la terra
e le sue mani a l’aria
e nel sonno fatti maestra ancora
con la tua voce vento
tua musicata voce, ma’.
Fa che non s’addimentica il tuo ridere,
tuo fiorire, tuo scorrere, tuo
far notte, tuo corpo stellato e corpo
nuvolato e minerale corpo duro
e vegetale sconosciuto corpo
e tuo ombroso stare addistesa e
e tuo gonfiore ne le maree e tuo
cascare con acqua con foglia
tuo salire in ala e in stella
e in fiamma abbruciare.
Sconosciuta ma’, noi ti sappiamo,
tu ci respiri addentro il respiro
tu ci dormi addentro il dormire e ti fai
cibo per noi nutrire ti fai silenzio
per noi morire. Bella, ma’.
Tu sei bella.
***
La candela dice:
io mi consumo senza lamentele
che pena, quel tuo chiedere durata
la pianura dice:
io accolgo, accolgo largamente
e l’ago dice:
perdermi mi piace, stare
dimenticato nelle fessure, essere
ignorato. E tu?
e il coltello dice
io taglio i ponti
divido un pezzo dall’intero
so dare ferite perfette.
E tu.
***
Monologo del Non so
Io non so se l’amore sia una guerra o una
tregua, non so se l’abbandono d’amore
sia una legge che la vita cuce fino al
ricamo finale.
Io non so spiegarmi l’imperturbabilità
di Dio, e non mi spiego di non udire il
suo grave lamento, il suo urlo di collera o
d’amore, e non so vederlo che sono in cecità
ma vorrei sentirlo almeno piangere come piango io
guardando le facce indolorate, guardando le
facce con grave malattia terrestre,
io non so invocarlo né bestemmiarlo che
è troppo nella sottrazione e troppo
astratto per i miei chili umani.
Io non so o forse non voglio
consegnarmi negli uffici del mondo,
e stare buono nelle sale d’aspetto della
vita. Io non so niente altro
che la vita e molte nuvole intorno che
me la confondono me la confondono e non
so cosa aspetto, cosa sto aspettando in questo
sporgermi al tempo che viene, io non so
e vorrei, vorrei, non so stare
fuori misura, fuori misura umana,
fuori da questa taglia finita.
Io non so perché guardando l’acqua del mare
mi salta al petto una gioia di figlio con la
madre, non so se questa uscita mia in un secolo
a caso, se questo essere qui a casaccio,
io non so spiegarmi questa malattia
all’attacco del mondo, non so guarire
questa malattia che indolora e vorrei
sistemare ogni cosa, in un sogno puerile di
tregua, in un’arcadia anche retorica,
in un dormire abbracciato dei
guerrieri che si innamorano.
Io non ho capito e dovrei,
non ho capito il mondo della
vita, io non ho capito la legge sottostante
e non ho da fare la consegna a
questi eredi cuccioli che aspettano, che esigono
da me l’aver capito.
Io non so la canzone
che spensiera e non so soccorrervi
non so pur volendolo
con quella forza di cagna
che dà il latte, non so soccorrervi nel vostro
sbando, io non so farvi un canto della
guarigione, non so farvi da balsamo.
Io non so se la bellezza è questa accademia di
centimetri, se la bellezza, la bellezza è questa
decadenza di saltimbanchi,
e non mi spiego perché
mi trovo qui, in questo covo rivoltato
in questa fossa con gli orchi attuali
in questo lato barbarico della specie.
Io non so in quale mano
non mano o zampa di Dio mi stanno
torchiando, e sottoponendo al duro
allenamento dei dolori terrestri.
Io non so se la solitudine, se quello
strazio chiamato solitudine, se quell’andare
via dei corpi cari, se quel restare soli
dei vivi, io non so se quel lamento della
solitudine, se quel portarci via le facce
se quel loro sparire
di facce che avevamo dentro il respiro, non so
se il dono sia questo portarci via le
carezze, questa slacciatura.
è poco il poco che so e di questo
poco io chiedo perdono. Io chiedo
perdono per quello che so, perdono io chiedo
per tutto quello che so.
***
Ma se non sto più
attenta se non tento di stare
nel presente tutta dentro
finirò vecchiamente con occhio
spento e la gioia che sento diventerà
marrone sulla testa e sarò morta
nel camposanto fra gli altri morti
dell’indifferenza.
[1]“Sue Lame, Suo Miele. Lettura di testi, intervista e dialogo con Mariangela Gualtieri. Seminario aperto dedicato al tema del presente nell’esperienza e nelle pratiche del teatro, a partire dal rapporto tra scrittura drammaturgica e azione teatrale” (cfr. presentazione in locandina). Mariangela Gualtieri è poeta e drammaturga. È fondatrice con il regista Cesare Ronconi del Teatro della Valdoca (1984). Il Seminario è stato organizzato nell’ambito del Corso di Filosofia del Linguaggio, dal Dipartimento di Filosofia dell’Università di Verona con la collaborazione dell’associazione di cultura e servizi Mimesis, che dal 1987 promuove attività culturali e teatrali in contesto universitario.
[2]M. Gualtieri, Equestre, in Fuoco Centrale e altre poesie per il teatro, Einuaudi, Torino 2003, p. 99.
[3]M. Gualtieri, Fuoco Centrale, in Fuoco centrale…, op. cit. p. 31.
[4]M. Gualtieri, Il non detto, in Fuoco centrale…, op. cit. p. 47.
[5]M. Gualtieri, Predica ai pesci, in Fuoco centrale…, op. cit. p. 110.
[6]M. Gualtieri, Note al Parsifal in Fuoco Centrale…, op.cit pp. 122, 128.
[7]M. Gualtieri, Fuoco Centrale in Fuoco centrale…, op. cit. p. 25.
[8] Christian Marazzi, Produzione di merci a mezzo di linguaggio, in AA.VV., Stato e diritti nel postfordismo, Manifestolibri, Roma 1996.