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per amore del mondo Numero 6 - 2007

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Sobre la guerra y la violencia en el discurso femenino (1914-1989)

Sobre la guerra y la violencia en el discurso femenino (1914-1989), a cura di Rosa Rius Gatell

publicacions i edicions de la Universidad de Barcelona 2006

 

 

Il testo nasce come atto finale di un Congresso Internazionale, intitolato Reflexions sobre la guerra y la violència en el discurs femení (1914-1989), tenutosi all’Università di Barcellona nei giorni 28 e 29 novembre del 2003. Il congresso- che trova collocazione all’interno del Seminario, Filosofia i Gènere, ideato nel 1990 da Fina Birulés, e che si propone di recuperare e analizzare differenti autrici, secondo una prospettiva filosofico- filologica- fu dedicato alla memoria della studiosa ellenista francese, Nicole Loraux, scomparsa nel 2003.

Il volume, curato da Rosa Rius Gatell, presenta diversi saggi di studiose di discipline differenti, che focalizzano la loro attenzione sul tema della violenza e della guerra, in un arco temporale che va dallo scoppio della Grande Guerra, fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989, data quest’ultima che solo convenzionalmente segna la fine di un’“epoca tragica”, perché come afferma Rius, <<indicare il 1989 come anno finale, non pretende eludere l’avvenire di guerre e violenze posteriori>>.[1] Infatti, la guerra in Iraq, nel 2003, è già esperienza viva e concreta, che segna profondamente le coscienze umane.

I saggi che costituiscono il volume possono essere ripartiti, secondo il loro contenuto, in due gruppi: il primo gruppo di interventi è dedicato alla violenza, che purtroppo costituisce una delle possibilità dell’essere umano e del suo comportamento; la seconda parte è riservata alla guerra, con due articoli dedicati alla Guerra Civile Spagnola, nell’opera poetica di Helen Joy Davidman e nel pensiero di Maria Zambrano.

L’ultima parte dell’opera in questione è una sorta di “tributo” alla personalità di Nicole Loraux, con due saggi di Montserrat Jufresa e Ioanna Papadopoulou, e un intervento della stessa Loraux dedicato alla figura mitologica di Fedra.

Ciò che appare evidente, in un volume così articolato, è che le autrici, seppur da prospettive culturali diverse, hanno voluto trasmettere, raccontandolo con la loro voce, un lavoro di paziente ricerca e memoria.

Lavoro che nasce e si alimenta dall’esperienza vissuta e che viene offerto attraverso la scrittura, la quale diventa strumento mediatore fra le coscienze, al fine di trasmettere qualcosa che rimanga nel tempo e soprattutto nell’anima di chi lo riceve. Come scrive Zambrano: <<Solo si vive veramente quando si trasmette qualcosa. Vivere umanamente è trasmettere, offrire, radice della trascendenza e suo compimento>>.[2]

Riguardo al tema della violenza, vorrei soffermarmi ad analizzare l’interessante ed originale ripresa da parte della scrittrice tedesca Christa Wolf[3], in un romanzo, uscito in Germania nel 1996, Medea-Stimmen, del mito di Medea. Da Euripide a Pasolini, Medea, che etimologicamente significa “colei che consiglia”, viene accusata di infanticidio. Tradita dall’argonauta Giasone, si vendica e uccide i propri figli, per poi scappare da Corinto, su un carro alato.

Wolf recupera la versione pre-euripidea del mito e la interpreta in chiave politico-sociale.

Medea, in Wolf, non uccide nessuno. Si serve, anzi, della sua arte magica per aiutare gli altri, accetta il tradimento di Giasone, si innamora a sua volta del personaggio, inventato dalla scrittrice tedesca, Oistro, abbandona la città di Corinto, legata alla cultura patriarcale e retta dal potere di Creonte e dalla logica del dominio maschile, e utilizzata come capro espiatorio dai corinzi, i quali uccidono i suoi figli, si rifugia nella selvatica natura della Colchide.

Medea in Euripide è contraddistinta dall’irrazionalità e usa la sua magia per vendicarsi e uccidere: personaggio violento e cattivo che si ribella alla realtà con la forza. Medea in Wolf , invece, ha una propria personalità, indipendente dai condizionamenti del potere maschile.

Per questo, la rilettura di Medea diviene un’interrogazione sul problema della ricomposizione dell’identità. La questione si inserisce nel contesto storico in cui vive Wolf, la riunificazione tedesca del 1989. Il mito di Medea costituisce il presupposto per riflettere sull’identità e sull’essere stranieri. Infatti, la scomparsa della DDR pone ai cittadini della parte orientale della Germania il problema della loro integrazione.  La parte occidentale viene identificata con Corinto e si contraddistingue per forme di potere rigide e stereotipate, quali il principio di regalità, la centralità della forza, il ruolo della ricchezza. Il mito di Medea di Wolf auspica una società fondata su una cultura di stampo matriarcale, caratterizzata dalla “diversità femminile”, che si oppone intrinsecamente alle regole stabilite dalla forza, che rifiuta risolutamente la violenza, invocando la magia del corpo e della fertilità.

La Medea di Wolf è depositaria di un sapere più vicino all’esperienza, legato ai sensi, alle percezioni. La scrittrice tedesca, come afferma Anna Fedele, presenta <<una donna selvatica, una wilde Frau, tuttavia il suo essere selvaggia deriva dal rifiuto del razionalismo, che soffoca i sentimenti e le intuizioni>>.[4]

Non è un’eroina che trionfante se ne va su un carro alato, ma una donna che unisce in se stessa ragione e sentimento, perché capace di vivere la sua esperienza fino in fondo, senza staccarsi dalla realtà, bensì accogliendola. Anche se alla fine, tuttavia, decide di rifugiarsi fuori dalla società, nella natura selvaggia, perché la sua <<lucidità le impedisce di compromettersi e cambiare il corso degli eventi>>. L’alterità, nella nostra cultura occidentale, genera paura e, a volte, disprezzo. Per questo motivo, Medea vuole vivere liberamente, desidera essere se stessa, e prigioniera fra due differenti modelli sociali, sceglie di non prendere nessuna “postura politica”.

Così facendo vive la propria diversità.

Sono partita dalla lettura del mito di Medea di Wolf che ne fa Anna Fedele, perché come afferma Victoria Sau[5]: <<la storia si ripete costantemente, cambiano le forme però la struttura rimane la stessa. La tragedia greca è la tragedia attuale, perché le donne non solo sono assassinate, bensì la maggior parte di loro vengono uccise simbolicamente>>.

La paura della diversità genera inevitabilmente violenza. Il patriarcato che sottomette la donna ad una posizione subalterna, nega al sesso femminile di esprimersi liberamente, per non perdere autorità e potere. La morte simbolica delle donne nasce e si alimenta della continua discriminazione a cui la donna viene sottoposta, in qualsiasi campo, culturale, politico, sociale, lavorativo.

Negare capacità simbolica alla donna significa servirsi della forza per impedire la libera esplicazione delle potenzialità femminili.

La diversità femminile deve essere “controllata”, così come le altre alterità che si manifestano.

Il rafforzamento dell’ideologia razionale, la secolarizzazione della cultura occidentale, il totalitarismo delle fede religiose, fanno si che nascono delle contrapposizioni insanabili che non promuovono il dialogo e il riconoscimento della reciproca diversità, ma una tolleranza che sfocia in violenza. Dovremmo impegnarci, innanzitutto, ad aprire un orizzonte che si istauri sulla ragione dialogante ed accogliente, e soprattutto a rivalutare il concetto di responsabilità, che devo tornare a far parte del vocabolario di tutte le società.

Una responsabilità che ognuno deve avere nei confronti del mondo e delle circostanze.

Sono convinta che solo una riforma urgente dell’intelligenza, così come la stessa Zambrano[6] invoca, possa riuscire a trasformare l’uomo in una persona responsabile.

Non si tratta, come giustamente afferma Elena Laurenzi, di una responsabilità morale astratta e auto-referenziale. Per Zambrano non esiste una morale astratta, l’atto morale è una risposta alla chiamata delle circostanze; è un <<dar la cara>>.

Se esiste un impero della necessità, occorre che le persone generino una passione dell’intelligenza che vive a diretto contatto con l’esperienza.

Per questo le diverse scrittrici, che compiono in questo testo, raccontano, dalla loro identità femminile, che non è schematizzata, ma aperta e fertile, una maniera nuova di vedere le cose. Quello che propongono è un metodo in fieri perché radicato nell’esperienza e in grado di rivelare qualcosa che sfugge alla razionalità imperante. Già il fatto di narrare la violenza e la guerra, partendo dalla storia, dal mito, dalla vita vissuta, impedisce un’astrazione concettuale dei termini in gioco e suggerisce un “taglio” della differenza che non si basa sul potere, ma sull’autorità.

Un’autorità altra rispetto a quella che genera forza e violenza, un’autorità che si impone perché semplicemente presente. Se la donna ha la capacità di dare vita, è pure in grado di generare simbolicamente nuovi legami politici.

Attraverso le immagini della poesia di Helen Joy Davidman o mediante l’utilizzo di termini significativi perché rivelatori- si pensi alla parola pietà in Zambrano, o alle espressioni contenute nel vocabolario ideologico di Victoria Sau, o alla stessa filosofia di Hannah Arendt- è possibile interagire in modo creativo con il reale, e raccontare, soprattutto per non dimenticare, come insegna Benjamin, esperienze forti come la guerra.

E’ impossibile prendere in esame tutti i saggi del testo, il comune denominatore che li accomuna è questo sguardo nuovo che si offre e offre immagini filosofiche e poetiche trascendenti, perché non contaminate dalla forza della violenza.

 

Indice

 

Sulla violenza

Fina Birulés. Revolución y violencia en Hannah Arendt, p. 3

Anna Fedele. La provocadora Medea de Corista Wolf. Un figura mitológica de la alteridad representada en clave femminista, p. 25

Montse Barderi i Palau. La explotación animal en la obra de Margherite Yourcenar, p. 43

Sonia Guerra López. Reflexiones sobre la violencia en compañía de Victoria Sau, p. 53

Rada Ivekovic. Violencia, política y razón, p. 63.

 

Sulla Guerra

Aránzazu Usandizaga Sainz. La mujer y la Primera Guerra Mundial, p. 83.

Maite Larrauri. No se gana la guerra con la fuerza, p. 103.

Stefania Fantauzzi. La relación entre guerra y política en Hannah Arendt, p. 115.

Maria Salvador Ribes. Imágenes de la Guerra Civil Española en la obra poética de Helen Joy Davidman, p. 131.

Elena Laurenzi. <<Si cae España>>: Maria Zambrano y la guerra, p. 143.

 

 

Per leggere Nicole Loraux (1943-2003)

Montserrat Jufresa. Nicole Loraux, lectora del presente en los intersticios del pasado, p. 163.

Ioanna Papadopoulou-Belmehdi. Nicole Loraux: del humanismo al <<alma de la ciudad>>, p. 171.

Nicole Loraux. La gloria y la muerte de una mujer, p. 181.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1]              Sobre la guerra y la violencia en el discurso femenino (1914-1989), a cura di Rosa Rius Gatell, pubblicato dall’Università di Barcellona nel 2006, vedi introduzione di Rosa Rius, p. X.

[2]              M. Zambrano, Los bienaventurados, Siruela, Madrid 1990, pp. 106-107.

[3]              Anna Fedele, La provocadora Medea de Corista Wolf. Una figura mitológica de la alteridad representada en clave feminista, nel testo preso in considerazione, pp.26-42..

[4]              Ivi, cit., p. 36.

[5]              Sonia Guerra López, Relexiones sobre la violencia en compañía de Victoria Sau, pp. 53-62.

[6]              Elena Laurenzi, <<Si cae España>>: Maria Zambrano y la guerra, pp. 143-160.