diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 9 - 2010

Lingua dell'altro

Sgangherata, incantevole bestiola parlante. La lingua dell’altro secondo Anna Maria Ortese

Dove la lingua e il simbolico tradizionali falliscono, lì intorno a quel buco si situa l’eccellenza delle vere scrittrici. Scrittrici attendibili ed esemplari sono quelle che hanno fatto i conti con l’ineffabilità di una qualche esperienza impareggiabile, sfavillante o sciagurata. Hanno avvertito questo indicibile e ne hanno patito vivamente, animaluncoli incapaci di articolare quello sventurato segreto. Ecco perché si appassionano, caparbie, al linguaggio: mai più dovranno trovarsi in quella terribile mutezza.

La lingua però non esaurisce tutto quello che si propone di significare: sempre rimane al di là qualcosa di eccedente, di trascendente, di non articolabile. Non c’è quiete nel linguaggio.

Tanto meglio.

L’esperienza dell’ineffabilità e di un buco nel simbolico, che è anche un insolito buco allo stomaco, è senza dubbio balorda invece per l’animale dotato di riflessione disciplinata, concetto sfolgorante, formule terse al posto di cose opache. Sì, perché il logos elabora leggi coerenti per scongiurare la potenza perturbatrice del disordine e prescrive solidi criteri per assegnare a ogni elemento una collocazione esatta. E ciò che in alcun modo si può classificare perché molesto o ripugnante o spaventevole viene nascosto, assecondando una strategia difensiva e fraudolenta. Per fare un esempio, la continuità della vita umana con quella animale è un dato evidente ma relegato in qualche oscuro recesso dai precetti che sanciscono una discontinuità tra natura e cultura, perché animale o peggio bestiale è sconvolgimento dell’ordine bello, istinto indomito, prelogica supremazia della carne.

E’ sufficiente distogliere lo sguardo, e niente buco, niente mortificazione, niente scacco.

Con quanta sfrontatezza, con quanta perentorietà l’animale dotato di logos può esplicitare la propria autorappresentazione, paradigma e senso dell’umana specie!

L’animale razionale fulgido e verboso da un lato, dunque, e dall’altro una bestiola profondamente desolata, incapace di scandire per bene il proprio segreto.

Molesto o ripugnante o spaventevole, infatti, anche un certo femminile viene confinato in un anfratto buio allo scopo di non imbarazzare il logos.

Il corpo femminile custodisce un luogo vacante per l’inizio di una nuova vita, sempre è corpo materno in potenza: per questo è natura esorbitante, scandita da un ritmo regolare quanto indecifrabile, scaturigine di sangue né contaminante né mortifero bensì condizione di vita, pienezza sinuosa e tuttavia ricettacolo sorprendentemente accogliente, forza insospettabile misurata dalla grazia, spazio allettante e minaccioso, protettivo e soffocante, santificato e sconveniente. Fisiologicamente illogica, eccentrica, paradossale, la sostanza femminile condivide pertanto con la sostanza ferina il destino allegorico di alterità. Ambedue primitivi, prossimi all’origine, istintivamente implicati in un movimento che si perpetua come ciclo perfetto della vita che per essere si rinnova sempre uguale a se stessa secondo un codice misterioso.

Di conseguenza, la bestia irrompe come prezioso espediente figurativo e linguistico per sbaragliare le ordinarie categorie ermeneutiche e inventare nuove corrispondenze. Una bestia parlante, sia ben chiaro.

Le pensatrici più argute sanno evocare – non illuminare, mai – magistralmente quel punto cieco della rappresentazione, enunciando con ironica finezza l’insolenza del pensiero tradizionale per dare sembiante coraggioso e appassionato al femminile occultato, insostenibile quanto indispensabile stravaganza. La mancanza di risorse simboliche diventa un’autentica ricchezza, un’opportunità imperdibile.

Esempio eccellente, la giovane Anna Maria Ortese patisce ben presto l’esperienza squisitamente femminile del disagio nei confronti del linguaggio, a causa della mancanza di predicati per cogliere qualcosa del movimento del reale che consenta di individuare la propria posizione tra le cose e orientare la propria condotta. La formula perentoria di Ortese è perfetta anche per la situazione del femminile non previsto: «O esprimermi o tornare al niente».

Il problema non nasce dalla mancanza di istruzione e dall’autodidattismo dell’autrice, che invece  senz’altro la sostengono nella sua originale pratica linguistica, ma da una inadeguatezza del linguaggio ordinario ai mutamenti imposti dalla legge invisibile e bestiale, come la chiama lei, che domina le cose di natura e aggiungo, tra le cose di natura, anche il corpo femminile, morfologicamente dubbio e metaforicamente inquietante.

Così Anna Maria Ortese diventa maestra ineguagliabile di audacia poetica, inventando espressioni bellissime per dire l’estasi e l’incanto di tutte le cose fluenti e strane e di materia celeste, al di fuori del mondo smagato del luogo comune.

Come alcune tra le più brillanti studiose del femminile, la scrittrice non sottovaluta il ruolo della morfologia corporea nell’immaginario. Tanto interferiscono con il lavoro del simbolico il cuore che pensa di Maria Zambrano o il mucoso di Luce Irigaray, tanto interferiscono i mostriciattoli che popolano la narrativa di Ortese, folletti o monacielli o creature mezzo donna e mezzo bestia. Con immaginosa sagacia, Anna Maria Ortese crea infatti figure femminili dal sembiante strambo quanto seducente e dalla lingua sghemba quanto raffinata: sgangherate incantevoli bestiole parlanti, per l’appunto.

Come la donna-scimmia, personaggio di Uomo nell’isola, un racconto pubblicato all’interno della raccolta L’Infanta sepolta. Questa la descrizione della bestiolina: «una donnina vestita completamente di nero, come una monaca, il viso grinzoso coperto di un velo verde, e il soggolo bianco. Aveva palpebre rosse, santamente abbassate, e in lei riconoscemmo subito la vecchissima Anna, governante di mio zio […]. Con le manine giunte sul petto, così simili a due zampine per il gran pelo rosso che le ricopriva»; e dal momento che non era sufficientemente bruttina, l’autrice le fornisce anche «[…] un’inquieta coda rossa e spelata che le usciva dalla sottana». Si tratta della bizzarra descrizione di una scimmia-monaca, purezza e verecondia naturalmente impastate con sfrontatezza e lubricità: una figura sbalorditiva e non congruente, non catalogabile, non oggettivabile, non quantificabile. Illogica, eccentrica, paradossale, tanto vicina al pensiero eppure dal pensiero mai e poi mai afferrabile: nel racconto suggerisce l’eccedenza del femminile, la sua scandalosa irriducibilità in grado di scompaginare tutte le forme logiche tentate, dalla poesia alla medicina. Anna Maria Ortese la rappresenta come ibrido di natura femminea e natura ferina, mezzo monaca e mezzo scimmia.

Oppure mezzo servetta e mezzo iguana come Estrellita, «una bestiola verdissima e alta quanto un bambino, dall’apparente aspetto di una lucertola gigante, ma vestita da donna», una servetta dalle vezzose e grottesche mossettine, una bestiolina parlante che ringhia sospira e ride disfando spensierata imperativi gnoseologici e chiavi di lettura, bruttina e tutta accartocciata nella sua ambiguità. E quando gli uomini pensanti dissertano, balorde complicazioni architettoniche permettono all’iguanuccia, osceno piccolo corpo celeste, di scivolare attraverso botole e passaggi segreti fino alla sua stanza, uno scantinato. Nascosta per evitarne il lampo d’occhi che altrimenti rivelerebbe l’incapacità tutta umana di afferrare la verità indiscutibile ma offuscata che «la vita che si espande da tempi immemorabili è prima dell’uomo, prima ancora della cultura»: la raccapricciante bestiola evoca quella primitività potentissima, secondo una straordinaria definizione dell’autrice, che è l’anteriorità nel tempo verso un principio, il punto di partenza di un legame, una sorta di cominciamento di una linea di discendenza che da quel principio sarà interamente attraversata.

Metamorfico centro di indicibile attrazione, la verdastra rudimentale creatura allude in fin dei conti al concetto di origine. Spaventosa come un antenato mastodontico e singolare come un fantastico protagonista delle favole, rettile orripilante o intrigante fanciulletta, troppo ambigua per non suscitare un miscuglio di attrazione e orrore. Proprio come il corpo della madre, attraente e repulsivo, sacro e putrido, luogo della nascita e quindi anche dell’iscrizione nella mortalità, vita e morte indissolubilmente congiunte.

L’Infanta sepolta (1950) e L’Iguana (1965) si collocano storicamente poco prima della seconda ondata del femminismo. Non è un caso che insinuino suggestioni sulla sessualità, sull’esperienza della maternità e sulle possibili concettualizzazioni di un femminile esterno al sistema normativo fallologocentrico, che sfugga alle rappresentazioni stereotipiche del corpo docile, riproduttivo, eterosessuale.

Anna Maria Ortese incastra qualità, significati e figure, imbarazza la ragione e soprattutto disordina le definizioni consuete. Giocando con la sequenza degenerativa stabilita dalla filosofia antica, per cui il maschio prototipo è condannato a scadere nelle nature inferiori femminea o, solo un gradino più giù, ferina, l’autrice si posiziona strategicamente tra essere umano e bestia. In un’intervista Anna Maria Ortese si dichiara «uno scrittore donna, una bestia che parla».

L’arguzia è nella modalità espressiva: l’immagine fiabesca, paurosa e comica allo stesso tempo, della belva o dell’animaluncolo selvatico che ringhiando, gracchiando o trillando articola sillabe e parole e persino intere frasi. Niente a che vedere con la logica disciplinata e la riflessione scrupolosa del virile campione di animalità domestica: la lingua del paradosso non fissa, non aggiusta, non regola, non illumina, non esaurisce. Ostinatamente a ridosso di quel buco, dice qualcosa dell’incongruenza senza scioglierla, alludendovi soltanto.

Espressione imprevista dello splendore originario di ciascuna unicità, il linguaggio sublime del paradosso preserva sempre una sorta di conoscenza implicita. Ancora di più, forse: un dispositivo segreto, il nervo sacro.