diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 6 - 2007

Relazioni Pericolose

Sentirsi in pericolo nel mondo

Mi piacerebbe essere uno scrittore per raccontare come, da un po’ di tempo, sento in me qualcosa di strano. Scriverei un diario sul quale annotare giorno per giorno tutti gli avvenimenti che mi sono accaduti e che mi accadono; anche i più insignificanti. Per vederci chiaro. Così forse riuscirei a capire se sono io ad essere cambiato o se è il mondo che, ad un certo punto, ha smesso di essere quello di prima. Vorrei vederci chiaro pur sapendo che quando si vuole vedere troppo chiaro spesso sfuggono le sfumature.

 

Ci provo e mi viene in mente Deserto rosso di Michelangelo Antonioni nel quale si racconta  l’esperienza dello spaesamento di Giuliana, interpretata da Monica Vitti. Giuliana  percepisce il movimento del mondo come un pericolo, come qualcosa di invadente perché fatto di colori, suoni, forme ed oggetti che non si accontentano di essere semplici strumenti ma comunicano e partecipano alla sua vita. Per lei stare nel mondo, collocarsi, trovare un proprio spazio è difficile e per questo è angosciata. Questa immagine mi ricorda le parole che Jean-Paul Sartre fa dire ad  Antoine Roquentin, quando dice: “Or ora, entrando in camera mia, mi sono fermato di colpo sentendomi nella mano un oggetto freddo che attirava la mia attenzione con una certa personalità. Ho aperto la mano e ho guardato: tenevo semplicemente la maniglia della porta”.[1]

 

Immagino che tutto sia successo improvvisamente. Prima Giuliana pensava la propria vita come un tutto pieno, come qualcosa di regolare e smussato. Ad un certo punto però ha iniziato a sentire forte l’esigenza di aprirsi a qualcosa di nuovo, di lasciare spazio. Ma subito dopo è arrivata anche la paura insieme ad una nauseante sensazione di perdita dei riferimenti; quello che prima era normale e rassicurante ad un certo punto è diventato inquietante come il soffitto di una camera d’albergo o un bicchiere di birra sul tavolo di un bar. Di fronte allo spaesamento Giuliana pensa che siano le cose ad essere cambiate ed infatti dice che è il mondo a non essere più quello di prima. Con questa certezza si attacca all’io come se fosse qualcosa di fermo, stabile, sicuro, oltre che distinto dal mondo. Ma facendo così inizia a sentire la relazione con il mondo come un pericolo. Inizia così a tremare di fronte all’inaspettato, che smuove; e a scappare, rasentando i muri, da ciò che intesse legami, apre, libera.

 

Ci vuole tempo per capire che questa resistenza è inutile; si inizia dal percepire il mondo in modo differente. Per primo è il movimento, nascosto fino a quel momento, che inizia a farsi sentire nel corpo, il quale perde la propria staticità smettendo di essere quel solido limite, impenetrabile, tra sé e il mondo. Così si crea un legame che però mette paura perché improvviso; spaventa lasciare la regolarità del quotidiano e aprirsi all’esistenza. Infatti ci sono momenti in cui si rimpiange la rassicurante regolarità del mondo di prima, in cui non c’era nulla da temere, in cui tutte le cose accadevano al momento giusto, senza sorprese, senza imprevisti. Un mondo fatto di cose neutrali, ferme, immobili. All’inizio infatti Giuliana pensa alla propria esperienza dello spaesamento come una malattia. Spesso dice di essere malata così come Antoine parla di una malattia che si è subdolamente insinuata in lui e che gli fa dire: “gli oggetti son cose che non dovrebbero commuovere, poiché non sono vive. Ci se ne serve, li si rimette a posto, si vive in mezzo ad essi: sono utili niente più. E a me, mi commuovono, è insopportabile. Ho paura di venire in contatto con essi proprio come se fossero bestie”.[2]

 

E’ il mondo a muovere Antoine, così come muove Giuliana. Lui lo capisce guardando la radice di un albero, nel momento in cui inizia a sentire “quella massa nera e nodosa, del tutto bruta, che mi faceva paura”. [3] E’ lì che esce il mondo, nel momento in cui riesce a percepire l’esistenza come un noi, smettendo di sentirsi separato e in pericolo. Il mondo gli si apre quando si riconosce con quella radice, “impastata nell’esistenza”. Solo così riesce a vedere la “spaventosa e oscena nudità” dell’esistenza che è “cedimento”, un lasciar andare, un accettare la realtà nella sua mancanza, che è insieme lucentezza e opacità. Giuliana invece racconta questa esperienza pensando ad una favola in cui una bambina viveva in un’isola. La piccola aveva paura dei grandi e così stava sempre da sola insieme ai cormorani, ai gabbiani e ai conigli selvatici. Un giorno, camminando in giro per l’isola, aveva scoperto una piccola spiaggia dove il mare era limpido e la sabbia era rosa. La bambina si innamorò di quel posto passando lì tutta l’estate. La natura aveva colori bellissimi e lei stava bene in quel silenzio. Una mattina però accadde qualcosa di nuovo: al largo spuntò un veliero, del tutto nuovo, del tutto inaspettato perché le barche che di solito passavano di lì erano diverse.  Questo veliero era misterioso: visto da lontano era bellissimo ma da vicino spaventava un po’ perché a bordo non si vedeva nessuno. Si fermò pochi minuti, poi cominciò a virare e si allontanò, silenziosamente come era venuto. Una volta scomparso all’orizzonte  la bambina tornò a riva ed ecco che una voce femminile incominciò a cantare una musica molto dolce. La bambina pensò: va bene un mistero ma due sono troppi.

“Chi cantava? La spiaggia era deserta come sempre, eppure la voce era lì, ora vicina ora lontana. A un certo momento le parve che venisse proprio dal mare… …una caletta fra le rocce… tante rocce che … non se n’era mai accorta…erano come di carne…e la voce in quel punto era molto dolce…” [4]

Chi cantava? Tutto “canta”, tutto si mostra se si fa esperienza del mondo. Sentire la voce delle cose, toccare la carne del mondo significa sentire il legame senza cadere nel pericolo; significa accettare il movimento del mondo nella sua oscena e mancante nudità.

 

Significa anche rinascere, cioè “darsi una seconda nascita all’interno e al riparo di un apparato simbolico”. [5] Forse Antoine  sta facendo proprio questo; sta cercando la sua “seconda nascita simbolica” riconoscendo la mancanza, la cedevolezza fino a sentire l’oscenità della carne di un mondo che ci eccede e che non è possibile dominare. Antoine per rinascere deve prima morire, cioè non essere più “intrappolato nella paura e nella rabbia” e bloccato nella logica del dominio.

Anche per Giuliana rinascere significa cedere, lasciare essere l’altro. Ma per lei, che è madre, questo significa prima di tutto fare un passo indietro nei confronti del figlio cioè difenderlo dalla propria enormità materna. Giuliana sta cercando “uno spazio femminile in cui significarsi liberamente” [6] allo scopo di permettere al figlio di pensarsi nella sua differenza. E’ proprio questo, forse, che permetterà  al figlio di stare anche lui nel mondo accettando l’altro, in modo significativo e libero, senza cadere nella logica della pericolosità del mondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1]              Jean-Paul Sartre, La nausea, trad. it. di Bruno Fonzi, Einaudi, Torino 1990, p. 14.

[2]          Ivi, p. 22

[3]              Ivi, p. 171

[4]              cfr la sceneggiatura presente in Michelangelo Antonioni, Sei film, Einaudi, Torino 1964

[5]              Marina Terragni in “Via Dogana” n. 81, p. 4

[6]              Ibidem