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per amore del mondo Numero 4 - 2005

Tre ghinee di eredità

Sei penny di libertà. Donne e liberazione del lavoro

Nel 1938 Virginia Woolf, ne Le tre ghinee, un testo fondamentale per la presa di coscienza femminista del nostro secolo, fa i conti con il patriarcato, e li fa anche, benché certo non solo, in termini economici, contando in moneta spicciola: tre ghinee, sei penny. Le tre ghinee sono destinate a prevenire la guerra, a promuovere l’istruzione femminile e a dare assistenza alle “figlie degli uomini colti” che vogliono esercitare una professione; i sei penny rappresentano il denaro che le donne hanno potuto cominciare a guadagnare in proprio, senza doverne rendere conto a nessuno, da quando, in Gran Bretagna nel 1919, una legge ha consentito loro l’accesso alle libere professioni.

Vale la pena di ricordare l’intensità con cui Virginia Woolf scommette sulla libertà femminile nel lavoro, perché, nelle sue parole, troviamo tutti gli elementi essenziali che, di questa stessa scommessa, sono in gioco anche oggi. Troviamo in primo luogo un apprezzamento misurato dei diritti politici, i quali sono sì importanti (il diritto di voto alle donne è considerato “una conquista nient’affatto trascurabile”), ma in fondo sono poca cosa se paragonati al diritto di guadagnarsi da vivere, un “diritto di così enorme valore per le figlie degli uomini colti da modificare il senso stesso di quasi tutte le parole del vocabolario”. [V. Woolf, 1938, p. 36] Vi troviamo inoltre l’idea che l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro porta con sé una prospettiva rivoluzionaria, che può essere valida per tutti, donne e uomini, in quanto vincola le donne, nelle cui menti è ancora viva la memoria della passata e recente oppressione, a non consegnarsi tutte alla misura dei soldi né del potere. [Sottosopra, 1996, p. 6] Per Virginia Woolf, la moneta da sei penny, simbolo del denaro guadagnato in proprio, è, per una donna, “una moneta casta, un altare sul quale giurare solennemente di mai unirsi ai servili, a chi si vende al potere”. [V. Woolf, 1938, p. 37]

 

La libertà femminile

 

E’ in questi termini che va rilanciata, oggi, la scommessa di libertà femminile nel mondo del lavoro. Le donne sono entrate massicciamente nel mercato del lavoro, a partire dagli anni sessanta, portando con sé, oltre alla ricerca dell’indipendenza economica, il desiderio di realizzazione personale, la ricerca di senso e l’intento di coltivare relazioni al di fuori delle pareti domestiche: proprio per questi ultimi motivi, tutti convergenti nella direzione della qualità del lavoro e del suo senso, sono soprattutto le donne a poter rilanciare, oggi, la prospettiva della liberazione del lavoro, prospettiva che però è valida per tutti, donne e uomini.

Per poter parlare di libertà nel lavoro, occorre prima sgombrare il campo da alcuni luoghi comuni. Per ciò che riguarda il rapporto fra donne e lavoro, occorre innanzitutto scartare l’idea secondo cui la libertà femminile sarebbe stata prodotta dal progresso economico, dall’industrializzazione o dal capitalismo. E’ chiaro che non è così, perché la libertà – e quella femminile non fa eccezione – è una conquista che nessun processo, né economico né di altra natura, può “produrre”: [L. Muraro, 1995, p. 120] la libertà non è dell’ordine delle cose che si possono produrre grazie a degli automatismi. Quindi, il rapporto fra libertà femminile e progresso economico va capovolto rispetto al luogo comune prevalente: è la libertà femminile ad aver colto l’occasione offertale dal mercato, non è quest’ultimo ad aver “prodotto” la prima.

In secondo luogo, va sottolineato che, grazie alla scommessa di libertà che l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro porta con sé, è venuto allo scoperto il “presupposto segreto” delle società moderne, cioè il lavoro invisibile e gratuito delle donne, su cui si fondava, ma occultandolo, il ciclo di produzione e consumo di merci. [R. Kurz, 1994, p. 108, Sottosopra, 1996, p. 8] Oggi questo presupposto non è più segreto, questo lavoro non è più invisibile: la libertà femminile ha messo fine al silenzioso sfruttamento del lavoro delle donne.

Non con questo che l’indipendenza economica e il lavoro che, in genere, la garantisce, siano indispensabili, ad una donna, per essere libera, come sottolineava, negli anni settanta, Carla Lonzi [1978; M. L. Boccia, 1990]: autonomia economica e indipendenza simbolica non sono la stessa cosa e, da quando quest’ultima è stata messa al riparo grazie alle relazioni fra donne, non importa in quale ambito si scelga di investire il senso di sé e il proprio desiderio di libertà. Questa precisazione è necessaria, perché il fatto di lavorare, di per sé, non è né buono né cattivo, ma, ciononostante, spesso è accaduto che le figlie che avevano scelto di lavorare avessero contribuito a svalorizzare l’opera delle loro madri, che in realtà, spesso, non avevano nemmeno avuto la possibilità di fare questa scelta. [E. Sullerot, 1977, p. 20] L’origine di questi conflitti fra madri e figlie, che per molte sono stati dolorosi e laceranti, non è di ordine economico, ma simbolico: ha a che fare con la difficoltà di iscrizione simbolica della relazione femminile con la madre. Se questa iscrizione ha trovato un posto nelle nostre menti e nei nostri cuori, il fatto che una donna investa nel lavoro il senso di sé non potrà più metterla contro un’altra che ha fatto una scelta diversa.

Per molte donne, comunque, l’ingresso nel mercato del lavoro ha rappresentato un’occasione di libertà: per il fatto stesso che si gioca all’insegna della libertà, questo ingresso porta dunque con sé la scommessa di una liberazione non dal lavoro, ma nel lavoro [L. Cigarini, M. Marangelli, 1998]. Si tratta di due prospettive ben diverse, che dischiudono politiche differenti, la prima legata soprattutto a rivendicazioni salariali e alla battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro, la seconda fondata invece sulla fiducia nella possibilità di cambiare il modo di lavorare.

Questa diversità, che delinea due politiche del lavoro divergenti, può essere colta, alla sua radice, in termini filosofici, come contrapposizione fra la concezione signorile della libertà, intesa come liberazione dalla necessità, e quindi dal lavoro e dalle dimensioni “animali” della vita, da un lato, e, da un altro lato, la concezione di una libertà entro la necessità, secondo la quale sono possibili invece una trascendimento positivo e una significazione simbolica della sfera della necessità, e anche del lavoro, del corpo e dei bisogni che, in tale sfera, insistono. [F. Rodano, 1968-1969]

Se è vero che l’ingresso di molte donne nel mercato del lavoro ha portato con sé la ricerca di una realizzazione personale, il tentativo di dare senso a ciò che quotidianamente si fa, la non facile composizione di lavoro e vita in un’unica trama che possa restituire senso e agio, allora è decisamente in quest’ultima direzione che occorre scommettere.

 

L’ideale signorile

 

L’ideale signorile, legato all’idea della libertà dal lavoro, non apre infatti in alcun modo un orizzonte di questo tipo: non è azzardato definirlo un ideale maschile, anche se occorre precisare che la libertà che esso disegna è stata storicamente, a lungo, solo di alcuni pochi, anche fra gli esseri umani di sesso maschile. Così era, con evidenza, per i Greci, in particolare per Aristotele, agli occhi del quale il lavoro era compito servile, fatica dell’animal laborans, la quale non era minimamente riscattata dal fatto di servire all’uomo, perché serviva anzi a quella che, nell’essere umano, era considerata semplice animalità, cioè a soddisfare bisogni essi stessi concepiti come animali. [F. Rodano, 1968-1969, p. 40]

Non si tratta tanto di prendersela, oggi, con  questo disprezzo aristotelico verso il lavoro servile, cosa che pure, con l’intransigenza che le deriva anche dalla giovinezza, ci invita a fare Simone Weil, [1943, pp. 209-210] quanto piuttosto di comprendere che, se si sta alla definizione dell’animal laborans, si finisce col ricacciare nell’animalità, cioè al di fuori della sfera dell’umano, ciò che invece appartiene pienamente all’uomo e alla donna, vale a dire il lavoro, il corpo, i bisogni, la differenza sessuale: dimensioni la cui piena umanità e la cui capacità di produrre ordine simbolico è invece ampiamente attestata dalla cultura popolare, ed è oggi riconosciuta, anche in sede filosofica, dal pensiero della differenza sessuale. Non importa insomma che oggi, diversamente che al tempo dei Greci, siamo un po’ tutti sia signori sia servi, nell’arco delle nostre giornate e delle nostre vite: rimane il fatto, evidente in quello che è insieme il vertice della concezione signorile e l’inizio della sua dissoluzione, cioè nella filosofia di Hegel, che in tal modo non potremo mai oltrepassare l’orizzonte signorile, lo schema servo-padrone, e quindi resteremo inevitabilmente fissati al trascendimento puramente negativo, per esclusione dalla sfera dell’umano, del corpo, dei bisogni, della differenza sessuale.

Chi ha un po’ di confidenza il pensiero della differenza sessuale, sa che uno dei modi per rendere insignificante la differenza di essere/donna uomo rispetto al sapere è stato storicamente quello di ricacciarla nell’animalità, e può riconoscere nella connotazione animale del lavoro la medesima mossa strategica, volta a riconoscere piena dignità umana solo alle funzioni più alte e nobili dell’uomo (e quasi mai della donna). Secondo l’ideale signorile, infatti, saremmo pienamente umani solo nel tempo reso libero dal lavoro e meno che umani (“animali”) nel quotidiano contatto con la necessità che il lavoro, ma non solo esso, implica.

 

Libertà nel lavoro

 

Certo, quello della libertà nel lavoro è anch’esso un ideale, e sicuramente di non facile realizzazione, anche a causa delle numerose costrizioni a cui il lavoro, in quanto contatto con la necessità, è comunque sottoposto; ma tale ideale può servire come orientamento per battaglie che non siano solo di tipo distributivo, ma che mirino a ridurne l’alienazione.

Mentre, nell’epoca del fordismo, da parte della sinistra – sia nei partiti sia nei sindacati – è prevalsa generalmente l’accettazione acritica delle ideologie della razionalizzazione del lavoro, in particolare del taylorismo, vale la pena oggi, in tempi di crisi del fordismo e delle grandi fabbriche, riprendere le critiche che a tale politica vennero rivolte, in nome della libertà nel lavoro, da singoli studiosi e da correnti culturali minoritarie, che si espressero ai margini del mondo operaio organizzato, ma anche del mondo cattolico. [B. Trentin, 1998, p. 214] In movimenti politici minoritari, come il sindacalismo rivoluzionario in Francia negli anni venti, e in alcuni autori, come Simone Weil e Georges Friedmann, vennero posti al centro il tema della liberazione del lavoro, la questione dell’oppressione in fabbrica, distinta dallo sfruttamento economico, l’analisi disincantata dei miti del progresso industriale e della “religione della scienza”, la critica della burocrazia, sia della tecnocrazia di fabbrica sia degli apparati dello stato. [B. Trentin, 1998, p. 218]

In particolare Simone Weil, nella sua critica alla scienza e al mito del progresso, combatteva la specializzazione, che ci mutila tutti, dal lavoratore manuale, privato dell’intelligenza della tecnica che pure egli impiega nell’esercizio stesso del suo lavoro, allo scienziato che, “chiuso nei limiti di una competenza ristretta”, si riduce ad essere un semplice “manovratore del lavoro scientifico”. [S. Weil, 1933, p. 190]. E denunciava la mercificazione di tutti i rapporti umani all’interno del capitalismo, auspicando il ristabilimento del giusto rapporto fra mezzi e fini, perché una delle radici dei mali presenti è che le cose dominano e gli uomini le servono. [S. Weil, 1934, p. 54]

E’ questo un orientamento che ci può guidare anche oggi, quando è cresciuta ancora enormemente la cultura delle cose, delle quali siamo al servizio, ed è diminuita contemporaneamente la cultura delle persone, sia nel senso che il sapere di tutti è diventato frammentario e occasionale, sia nel senso che raramente ci è presente, nel lavoro, che ciò che facciamo è destinato ad altri esseri umani.

Sulla cura delle persone, in particolare, le donne hanno un sapere antico, che può aiutarci a tenere presente, anche nei lavori più specialistici e quasi smaterializzati del nostro tempo, come quelli del settore informatico, che la loro destinazione è ad altri esseri umani. [W. Tommasi, 1997, p. 129, P. Moretti, 1998, p. 38]

E’ intorno a queste prospettive e a queste tematiche che ruota l’ideale della libertà nel lavoro: esso implica, sul piano filosofico, l’affermazione della piena umanità della vita immediata e del lavoro manuale, di cura e di riproduzione che sorreggono la vita stessa, e, sul piano politico, l’esigenza di porre un limite all’alienazione del lavoro piuttosto che quella di battersi solo per un maggiore salario o per la riduzione di orario di un lavoro destinato a rimanere, comunque, alienato.

 

Mettere al centro la vita immediata

 

Mettere al centro della nostra civiltà la vita immediata e il lavoro che di essa si occupa significa anche riparare uno squilibrio simbolico grave, quello per cui quasi sempre i lavori manuali e di cura sono stati i più svalorizzati, per la fatica e la ripetitività che essi comportano. L’orrore per la futilità e per l’infinita ripetizione del “lavoro del corpo” risuona, per esempio, anche nelle pagine di Hannah Arendt dedicate al lavoro, nelle quali l’autrice mostra di condividere sostanzialmente con i filosofi antichi la concezione signorile della libertà come tempo liberato dal lavoro e dalla cura della necessità. [H. Arendt, 1958, G. Neri, 1997, p. 31]

Hannah Arendt sottolinea però anche come – ed è questa un’indicazione preziosa -, nelle filosofie contemporanee che hanno riconosciuto la centralità del tema della vita, vi sia stato l’oblio della tematica del lavoro: le filosofie della vita di Nietzsche e di Bergson, infatti, pongono sì al centro la vita immediata, ma non il lavoro che la sostiene. Questo oblio, o addirittura l’esplicito disprezzo di Nietzsche per il lavoro e per la morale degli “schiavi”, sono sintomatici, secondo la Arendt, di una società sempre più votata al consumo e sempre più dimentica dell’altro lato necessario del processo vitale, cioè del lavoro. [H. Arendt, 1958, p. 83]

Ma se, in una filosofia della vita viene posta al centro la vita immediata, dovrebbero avere la medesima centralità anche l’opera di civiltà che cura la vita e il lavoro manuale che le è prossimo. Se la facilità del consumo oggi, nei paesi industrializzati, ci porta a dimenticare queste dimensioni, per ricordarle può essere sufficiente ripensare al lavoro di cura della vita svolto, da sempre, dalle donne. Le donne sono meglio collocate simbolicamente per tenere a mente tutto questo: non a caso, infatti, uno dei pochi filosofi del Novecento che ce lo ricorda con forza è in realtà una filosofa, Simone Weil, la quale propone, proprio per contrastare la svalutazione simbolica di queste attività, di mettere al centro della nostra civiltà la dignità del lavoro manuale. [S. Weil, 1943, p. 253]

Mettere simbolicamente al centro il lavoro manuale e, se si ha presente il senso della differenza sessuale, anche l’opera femminile di civiltà, significa, come fa in effetti Simone Weil, portarsi nel luogo dove appaiono la nudità dei corpi, i bisogni elementari del vivente, i processi di crescita e di deperimento, e quindi, oltre che la nascita e lo sviluppo, anche l’invecchiamento e la malattia. Questi ultimi sono processi che ci fanno, comprensibilmente, orrore: è necessario un grande coraggio per stare presso chi li patisce. Ma, poiché soprattutto le donne hanno sempre avuto confidenza con queste dimensioni, forse la nostra civiltà tutta intera, uomini e donne, può imparare qualcosa proprio dal coraggio anonimo e quotidiano di tante donne, e arrivare a riconoscere, sul piano simbolico, il valore e la dignità dei lavori di cura del vivente.

Se il semplice fatto di essere vivi non ha senso, infatti, nient’altro può prendere senso. [L. Muraro, 1997, p. 75] Ciò significa che, anziché coltivare l’ideale, signorile e maschile, della libertà come liberazione dalla necessità, dobbiamo arrivare ad arrenderci alla necessità e alla vita, in una resa accompagnata però da un agire simbolico che attribuisca alla vita stessa, nella sua spoglia nudità, il posto centrale, e alla cura della vita, nella sua materialità, la dignità che le spetta.

Questo non significa affatto circoscrivere la presenza femminile nel lavoro solo alla sfera della cura. Le donne, oggi, largamente presenti in molte professioni, possono piuttosto spendere i loro sei penny di libertà, qualsiasi sia il lavoro che svolgono, per fare argine alle norme e alla burocratizzazione del lavoro, la cui moltiplicazione crescente toglie competenza a chi sa fare e la consegna a qualche specialista. Le donne possono addirittura fare argine alla norma capitalistica, perché, se è vero che quasi mai si consegnano tutte alla misura del denaro e della carriera, è anche vero che portano invece con sé, nel lavoro, tutto delle loro vite, e quindi mettono in gioco un’eccedenza di senso, a partire dalla quale si possono e si devono aprire dei conflitti. Altrimenti è mostruoso che, nell’epoca postfordista, in cui contano, nel lavoro, anche e soprattutto le abilità e i saperi immateriali, e in cui la “femminilizzazione” rende sempre più difficile distinguere fra lavoro e vita, tutta intera la soggettività di uomini e donne sia messa al lavoro e sfruttata. [B. Caccia, 1998, p. 9, I. Vantaggiato, 1997, p. 59] Più o meno in questo modo Virginia Woolf, come ho ricordato all’inizio, invitava a spendere i primi sei penny di libertà guadagnati in proprio dalle donne: impegnandosi a “mai unirsi ai servili, a chi si vende al potere”.

 

 

Riferimenti bibliografici

 

Arendt, Hannah (1958), Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1988.

 

Boccia, Maria Luisa (1990),L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, La Tartaruga, Milano.

 

Caccia, Beppe (1998), Quando il lavoro diventa donna, «Via Dogana», n. 37 (Libertà nel lavoro).

 

Cigarini, Lia, Marangelli, Maria (1998), Pratiche politiche per creare libertà, «Via Dogana», n. 37 (Libertà nel lavoro).

 

Kurz, Robert (1994), L’onore perduto del lavoro, Manifestolibri, Roma.

 

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Muraro, Luisa (1995), Oltre l’uguaglianza, in Diotima, Oltre l’uguaglianza. Le radici femminili dell’autorità, Liguori, Napoli.

 

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Rodano, Franco (1968-1969), Lezioni su servo e signore. Per una storia postmarxiana, Editori Riuniti, Roma, 1990.

 

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Sullerot, Evelyne (1977), La donna e il lavoro, Bompiani, Milano.

 

Tommasi, Wanda (1997), Il lavoro tra necessità e libertà, in Aa. Vv., La rivoluzione inattesa. Donne al mercato del lavoro, Pratiche, Parma.

 

Trentin, Bruno (1998), La città del lavoro. Sinistra e crisi del fordismo, Feltrinelli, Milano.

 

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Weil, Simone (1934), Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi, Milano 1983.

 

Weil, Simone (1943), La prima radice.  Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana, Comunità, Milano 1980

 

Woolf, Virginia (1938), Le tre ghinee, Feltrinelli, Milano, 1984.