diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 4 - 2005

Note a margine

Scritti dal deserto

Esiste una relazione fra la malinconia e la creatività femminile? L’ultimo testo di Wanda Tommasi La scrittura del deserto[1] tenta delle possibili risposte a questo interrogativo, invitandoci ad intraprendere un viaggio nel deserto dell’anima prodotto dalla malinconia. Le tappe che ci vengono proposte in questo cammino non seguono un ordine particolare, se non quello di osservare da differenti punti di vista il medesimo paesaggio e di vedere se nell’andare e tornare presso gli stessi luoghi, si aprono degli spiragli, delle vie di salvezza.

Considerato che il male depressivo affligge, statisticamente, più donne che uomini, vengono analizzati frammenti di esperienze esistenziali e letterarie di autrici contemporanee, che ci accompagnano lungo il nostro percorso: Sylvia Plath, Marguerite Duras, Marina Cvetaeva e María Zambrano.

Nella prima tappa non penetriamo ancora nel deserto, esso viene tenuto nascosto. Per corrispondere agli ideali materni di successo, sia nelle vita pubblica sia in quella privata, la Plath si affida a dei “falsi sé” che però divengono pura imitazione della vita vera. Essi non rispondono alle necessità della figlia, non sono radicati nella sua identità, ma nei desideri di un’altra donna, la madre[2]. La facciata di efficienza e controllo che viene messa in scena dalla Plath e che si ritrova in alcune protagoniste dei suoi romanzi, viene tenuta in piedi al prezzo del costante annullamento del “vero sé”.

Dove, invece, si permetta al negativo di compiere il suo lavoro di disfacimento, che porta al crollo del “falso sé”, è consentito l’ingresso al deserto, vuoto che incute timore. La malinconia nella scrittrice francese Marguerite Duras lascia il posto al dolore, che le donne tendono maggiormente ad interiorizzare rispetto agli uomini. Nel romanzo Il viceconsole, le figure di Anne-Marie Stretter e della mendicante incarnano la polarità della malinconia: la tristezza mortifera e la “gaia disperazione” salvifica. La prima imprigiona nel suo intimo, diplomaticamente, il male che lentamente la domina. La mendicante, già in scena dall’inizio, imbocca la via del “bisogna perdersi … Vorrei che mi indicassero come perdermi”. Carica su di sé tutti i segni del suo dolore: calva, affamata, cacciata di casa perché rimasta incinta, non riesce nemmeno a salvare la propria bambina. Tocca il fondo della disperazione; sopravvive. Vive. Non più preoccupata di ciò che l’aspetta. Il carico delle proprie sofferenze e della propria abiezione la porta a riscoprire l’elementarità dei valori della vita: la fame, la sete e il sonno che aprono ad una nuova prospettiva.

Un’ulteriore suggestione viene associando alla follia, alla pazzia la mistica. Come i monaci si rifugiavano nel deserto per trovarvi la verità, così la donna folle, il demente, il bambino incretinito possono aprirvi il loro scrigno di verità.

Lo stare in prossimità con il dolore, l’accoglierlo dentro di sé, può diventare fonte d’ispirazione da cui si origina un tipo di scrittura “altra”. Parole incisive, perturbanti, verbi dettati dal deserto. Scrittura che può diventare essa stessa via di salvezza: come fonte di una nuova e differente creatività che rielabora questa tristezza, di cui non si riesce a parlare.

La malinconia vissuta da Marina Cvetaeva la porta ad odiare tutto ciò che fa parte di una normale esistenza, i gesti quotidiani, per esempio, e tutto ciò che è di questo mondo, quindi finito. La poetessa rivela la sua insofferenza per la vita come tale, che per lei acquista un significato solo nella trasfigurazione, nell’arte, nelle parole poetiche. La sua preferenza è affidata a ciò che è ultraterreno, al sogno, e la relazione che ella preferisce è quella della corrispondenza. Non avendo un contatto diretto con le persone che ama, può preservare queste relazioni dalla corruzione degli affetti terreni, salvando, nell’assenza fisica, un riflesso dell’infinito lontano e inattingibile. Prefigurando come non sia possibile l’amore quaggiù, ma solo in quello che lei nomina come il paese dell’anima, che non può essere violato da nulla di reale.

La creatività poetica diventa quindi lo spazio in cui celebrare l’assoluto immortalandolo con la bellezza dei versi.

La malattia e l’esilio sono esperienze del deserto di María Zambrano, che vengono profondamente rielaborate nella sua filosofia. La malattia la costringe all’immobilità e ad una quasi totale solitudine, per un lungo periodo. Questa situazione le fa provare, in vita, una sorta di anteprima della morte, dove il negativo potrebbe compiere, pervicacemente, il suo lavoro distruttivo. Nella rielaborazione filosofica Zambrano lascia che esso compia la sua azione di disfare l’identità precedente liberando uno spazio, dove si apre la possibilità di una nuova nascita. In questa operazione di disfacimento dell’identità precedente appare più chiaro ciò che è necessario salvare. La distruzione non sarà completa se si riuscirà a coltivarlo e farlo crescere al di là del momento di crisi.

L’esperienza dell’esilio amplifica quella della malattia. Si ha a che fare con l’abbandono: il sentirsi abbandonati che allontana i confini del deserto. Nel momento di crisi il lavoro del negativo fa piazza pulita di tutte le credenze a cui precedentemente ci si aggrappava, portando alla luce ciò che è effettivamente irrinunciabile ed essenziale e che va preservato e protetto.

Esiste una via d’uscita dalla crisi, che però non deve essere trovata nel tentare di volgere ciò che è negativo in positivo, ma facendo leva sugli elementi positivi di fiducia e di speranza da opporre alla sua portata distruttiva.

Sono tutte esperienze di deserto, ma anche esperienze di scrittura. Ed è scrittura essenziale che scava e lascia l’impronta. Proprio nello scritto salvata dal vento del deserto.

 

[1]              W. Tommasi, La scrittura del deserto. Malinconia e creatività femminile, Liguori, Napoli 2004.

[2]              La complessità del rapporto fra madre e figlia è stato il tema principe del grande seminario di Diotima di quest’anno: l’ombra della madre.