diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 9 - 2010

Grande Seminario

Sapienza quotidiana e contraddizioni del presente

  1. Sapienza quotidiana

 

Vorrei iniziare la mia relazione con un paio di citazioni tratte dal Diario di Carla Lonzi. Mi sembra un buon inizio, sia perché mi permette di riallacciarmi alle origini del femminismo, sia perché la Lonzi mette opportunamente l’accento sulla centralità delle donne nel quotidiano e sul significato simbolico che le loro pratiche più comuni portano con sé. Scrive Carla Lonzi: “Di nuovo mi è venuta voglia di fare dei filmini sui gesti delle donne che provvedono al sostentamento dell’umanità: rigovernare, accudire i bambini, i malati ecc. Il titolo: ‘Cultura femminile di sostentamento dell’umanità’. Prendere coscienza del suo valore non solo pratico, ma culturale può essere un modo di capire chi siamo e da dove veniamo. Vorrei filmare solo i gesti per mettere in evidenza la perizia e il tramando di esperienza che richiedono”.[1] E qualche pagina più avanti la Lonzi aggiunge, ritornando sullo stesso tema: “Riguardo al mio progetto di filmare i gesti delle donne, vorrei filmare quelli che non diventano un prodotto, ma solo un accudire. Gesti nell’aria come quelli degli equilibristi, gesti fatti d’aria. Su questi gesti senza seguito è costruita la nostra vita”.[2] Con queste annotazioni, Carla Lonzi ci consegna un’immagine molto suggestiva dei gesti quotidiani delle donne: sono gesti compiuti ogni giorno, ripetitivi, che non lasciano quasi traccia di sé, ma che al tempo stesso hanno qualcosa di artistico, alludono a un’arte fatta d’aria, come quella degli acrobati; infatti, l’autrice vorrebbe filmarli, farne un’opera d’arte.

Nel modo in cui Carla Lonzi parla dei gesti quotidiani delle donne, risaltano due elementi: in primo luogo, la consapevolezza del valore simbolico di questi gesti, l’importanza cioè del fatto di mettere in parole le pratiche quotidiane delle donne; la Lonzi parla infatti del valore non solo pratico, ma culturale di questi gesti, e definisce questo ambito come “cultura femminile di sostentamento dell’umanità”. Questi gesti è necessario metterli in parole per sottrarli all’insignificanza e all’invisibilità a cui altrimenti sarebbero destinati. E’ necessario far risaltare il loro valore simbolico. In secondo luogo, la Lonzi mette questi gesti sia all’insegna della routine sia dell’arte, sia della ripetizione sia della dimensione estetica. Infatti, questi gesti lei vorrebbe filmarli, farne un’opera d’arte. Alla fine, lei non ha fatto il film che avrebbe voluto sui gesti quotidiani delle donne, ma ci ha lasciato molto su cui riflettere. Ci ha lasciato un buon punto di partenza, sottolineando che c’è una sapienza quotidiana, che è patrimonio soprattutto di donne.

Questa sapienza è frutto di un sapere di esperienza tramandato di generazione in generazione, che viene dalle nostre madri, ma in cui noi stesse, come vedremo meglio più avanti, possiamo inserire qualcosa di nuovo. Su questo sapere femminile, Diotima ha già lavorato in un libro di alcuni anni fa, Il profumo della maestra,[3] e su questo tema c’è anche un testo più recente, Il pensiero dell’esperienza, a cura di Annarosa Buttarelli e Federica Giardini.[4]

Un tratto caratteristico del sapere femminile di esperienza è il non fare separazioni, dicotomie, contrapposizioni, ma il tenere fluidi i confini fra un ambito e un altro: infatti, caratteristica del sapere che noi usiamo quotidianamente è il suo essere multidisciplinare, all’incrocio di diversi saperi, o, ancora meglio, il suo situarsi prima di qualsiasi sapere formalizzato e disciplinare. Fluidità di confini, mancanza di separazioni e di dicotomie: questa caratteristiche emergevano implicitamente già nell’immagine di Carla Lonzi da cui sono partita, un’immagine che tiene insieme ripetizione e dimensione estetica, che non le separa né le ordina gerarchicamente.

Come ha sottolineato Ina Pretorius, nella concezione patriarcale c’era una contrapposizione fra alto e basso, spirito e corpo, e la donna era sempre posta dalla parte di ciò che è basso e che riguarda il corpo: secondo questa concezione, chi si occupava delle faccende quotidiane era ritenuto meno che umano (erano le donne e gli schiavi), mentre solo coloro che si occupavano delle questioni più alte, di arte, filosofia, politica, cioè, nel mondo antico, solo gli uomini liberi erano ritenuti pienamente umani.[5]

Al contrario, nella sapienza quotidiana, soprattutto in quella femminile, non vi sono separazioni né dicotomie: si può cucinare una minestra e intanto far lavorare la mente. Anzi, credo che il fatto di doverci occupare quotidianamente almeno di noi stesse (se non di mariti, figli o anziani genitori: e da qualcuna di queste incombenze proprio tutte ci siamo passate) dia al nostro pensiero una concretezza e un radicamento di cui molti pensatori, per quanto affascinanti nella purezza della loro astrazione, non sono capaci.

Ne deriva che l’arte della compartimentazione, e di ragionare per contrapposizioni e dicotomie, è soprattutto maschile: la contrapposizione fra alto e basso a cui accennavo prima si vede bene anche nella storia della filosofia, dove molti filosofi, fino all’età moderna e contemporanea, attribuiscono all’uomo le prerogative più alte, mentre schiacciano la donna sul versante della corporeità e dell’animalità, esprimendo una misoginia più o meno esplicita.[6]

In epoca contemporanea, il disprezzo per la vita quotidiana – che era particolarmente evidente in Aristotele e un po’ in tutto il mondo antico – risuona ancora in Heidegger: questo autore pone il quotidiano all’insegna dell’inautentico, dell’anonimo; è la sfera del Man, del “si” impersonale.[7] Benché Heidegger avverta che la connotazione di inautenticità non implica un giudizio di valore negativo, perché la quotidianità è la condizione in cui tutti ci troviamo innanzitutto e per lo più, tuttavia è evidente che considerare il quotidiano come inautentico significa svalutarlo rispetto alla dimensione autentica, che si apre per Heidegger con l’essere per la morte.

Senza addentrarmi nel discorso heideggeriano, che è molto complesso, mi limito a segnalare che questa critica a Heidegger è stata avanzata da un pensatore che si è molto occupato del quotidiano, Henri Lefebvre, autore della Critica della vita quotidiana.[8] Ora, è interessante il fatto che Lefebvre, pur volendo sottrarsi al regime dicotomico di Heidegger – autentico/inautentico -, che egli esplicitamente critica, tuttavia involontariamente vi ricada, usando delle dicotomie per connotare positivamente o negativamente il quotidiano: fra queste, vi sono alienazione/disalienazione, quotidianità/festa, ripetitivo/inventivo. Tuttavia, Lefebvre comprende che è proprio il regime dicotomico quello che va combattuto: infatti, egli pone il quotidiano sotto il segno dell’ambiguità, cioè lo vede come un ambito in cui l’alienazione convive con la possibilità della disalienalienazione, in cui il ripetitivo può aprirsi all’inventivo, ecc.

Quello che Lefebvre non è riuscito a realizzare completamente, cioè uscire dalle dicotomie e dal regime alto/basso, positivo/negativo, che è sempre gerarchizzante, sono riuscite a farlo alcune donne, alcune autrici, in cui chiaramente non c’è contrapposizione fra quotidianità e senso, ma in cui si passa senza soluzione di continuità da un particolare quotidiano apparentemente insignificante al senso di una vita e di un’intera epoca storica. Ho in mente come esempi alcuni romanzi di Virginia Woolf (La signora Dalloway e Al faro),[9] in cui al centro c’è la sapienza femminile del quotidiano, e in cui si passa senza soluzione di continuità dall’arte femminile delle relazioni fino agli echi della guerra e della violenza di un’intera epoca. Oppure si può pensare alla Vita materiale di Marguerite Duras,[10] un’opera in cui non ci sono dicotomie né scale di valore gerarchiche: nel dettaglio più banale può rivelarsi un’apertura al sacro, perché, se un sacro c’è in una scrittrice laica come la Duras, esso è proprio nei gesti quotidiani di cura della casa e di coloro che la abitano. Non c’è soluzione di continuità fra il registro materiale e quello spirituale, così come non c’è soluzione di continuità fra il quotidiano dei singoli e il loro tempo storico.

 

  1. Mettere al centro la vita

Per un cambiamento simbolico che, a differenza della concezione patriarcale, non faccia dicotomie fra alto e basso, spirito e materia, anima e corpo, occorre mettere al centro la vita, nella sua materialità e spiritualità insieme.  Occorre mettere al centro i bisogni – di cibo, di aria, di amore -, bisogni che tutti abbiamo. Niente può avere senso – né arte, né filosofia, né politica – se il semplice fatto di essere vivi non ne ha. Bisogna affermare che curare i vecchi, accudire i bambini, occuparsi dei bisogni del corpo ha senso, che è anzi la base della civiltà, la cultura di sostentamento dell’umanità, come dice la Lonzi.

Ina Pretorius ha sottolineato che una posizione di questo tipo, che riconosce un posto fondamentale al fatto di essere vivi e di prendersi cura della vita, se è assunta in tutta la sua radicalità, porta a considerare diversamente anche l’economia: l’economia non sarebbe più il luogo in cui si mettono al centro il mercato, il profitto e il denaro, ma ritornerebbe a essere economia nel suo significato etimologico originario, cioè come cura della casa, dell’ambiente domestico e dei bisogni primari delle persone (dal greco oikos, che significa casa). E’ la cura delle persone e dei loro bisogni ciò che va messo al centro: il resto (denaro, mercato, ecc.) va messo sullo sfondo rispetto a questa dimensione primaria.[11]

Si realizzerebbe così un capovolgimento simbolico, grazie al quale i lavori che si occupano della vita materiale (la fatica quotidiana delle donne e quella dei lavoratori manuali) dovrebbero occupare il posto simbolicamente più alto nella nostra civiltà. Il resto, le attività considerate le più alte nella cultura patriarcale (filosofia, arte, scienza), pur conservando la loro importanza, perché abbiamo bisogno non solo di cibo ma anche di nutrimento spirituale, verrebbero dopo questo strato primario. O meglio, i due livelli andrebbero tenuti insieme, senza riproporre quella gerarchia che, nel patriarcato, aveva sistematicamente svalutato il lavoro di cura del corpo e della vita.

Personalmente, devo dire che il concreto radicamento femminile nelle pratiche quotidiane mi aiuta a dare al mio pensiero una certa concretezza, quella che molti intellettuali maschi spesso dimenticano. Questi ultimi hanno scelto la strada dell’astrazione e della specializzazione, in cui riescono molto bene e grazie a cui hanno prodotto delle cose eccellenti, di indubbio fascino, ma spesso dimenticano il corpo, la vita, la concretezza dell’esistenza.

  1. La casa e il corpo della madre

Il rapporto di una donna con la casa e, più in generale, con la vita quotidiana rimanda, consciamente e inconsciamente, al rapporto con la propria madre. Questo è evidente per ciò che riguarda il lato conscio, se si pensa che il sapere quotidiano – come gestire la casa, come fare da mangiare, ecc. – ci è stato trasmesso da nostra madre. Ma c’è anche un lato inconscio, non meno importante: il modo in cui affrontiamo l’impresa della gestione della casa rimanda anch’esso alla relazione con la propria madre: qui sono coinvolti molti livelli inconsci, implicati negli affetti, nei sentimenti, negli atteggiamenti che abbiamo rispetto alle persone che abbiamo intorno, e anche nel modo di prenderci cura della casa, nel quotidiano. Ad esempio, possiamo lasciarci sopraffare dalle riparazioni non fatte, dalle piccole cose da mettere a posto, cose che rimandiamo a più tardi: questo rivela una tendenza alla depressione, un lasciarsi sopraffare, un non sentirsi all’altezza delle piccole incombenze quotidiane. Oppure in casa tendiamo a tenere tutto, anche le bollette vecchie, scadute, a non buttare via niente: come sottolinea la Duras, molte donne soffrono di non saper buttare via niente; è come un tentativo di archiviare i propri meriti, il proprio vissuto, di non accettarne l’evanescenza. Stare al livello della vita materiale significa infatti anche accettarne la caducità, l’evanescenza, e questo non è facile perché si tratta di accettare che prima o poi anche noi dovremo sparire.

Un’autrice che ha splendidamente illustrato la relazione affettiva e inconscia della donna con la casa è stata Marguerite Duras in La vita materiale. In un capitolo centrale di questo libro, l’autrice pone la casa al centro della vita quotidiana, e pone la madre nel centro fisico e simbolico della casa.[12] Per una donna, il rapporto col quotidiano rimanda inconsciamente al rapporto con la propria madre: la casa è per una donna come il corpo della madre. Ma, nella casa, c’è anche un corpo a corpo con la madre, un conflitto più o meno esplicito, che chiama di nuovo in causa livelli sia consci sia inconsci. Possiamo fare molte trasgressioni rispetto a quello che la madre ci ha insegnato, ribellarci a quello che era il suo modo di gestire le cose, ma sempre in qualche modo una contrattazione, un confronto polemico rimane, e può continuare per tutta la vita.[13] Faccio solo un piccolo esempio che mi riguarda: mia madre amava molto l’edera e ne aveva piantato tantissima, lungo tutta la recinzione della casa; ogni anno io ingaggio una lotta furibonda contro quest’edera, la taglio cortissima, perché l’edera va tenuta sotto controllo, è una pianta infestante – “dove m’attacco, muoio” – e sento che, in questa lotta contro l’edera, continuo il corpo a corpo con mia madre.

Ho parlato della centralità della madre, per una donna, nella vita quotidiana anche nel mio contributo al volume Il pensiero dell’esperienza:[14] devo però in parte rettificare questa centralità della madre sulla base di alcune considerazioni che riguardano il nostro presente. Oggi, rispetto allo scenario che si trovava intorno mia madre, molte cose sono profondamente cambiate. Mentre mia madre si muoveva ancora in un orizzonte patriarcale, noi ci troviamo oggi in un contesto post-patriarcale. Fra le varie cose che sono cambiate, una delle più significative riguardo alla vita quotidiana è il fatto che molte politiche e molta legislazione insistono proprio sulla vita quotidiana: dalle regole per la raccolta differenziata dei rifiuti alle norme di sicurezza per gli impianti elettrici, a gas, ecc., fino alle leggi sulla procreazione assistita e a quelle sull’inizio e la fine della vita. La cosiddetta biopolitica tratta il corpo sociale come un vero e proprio corpo biologico e, in nome della salute, ci invita ad esempio a non fumare, ad avere uno stile di vita sano, per non gravare troppo sulla sanità pubblica. Molte politiche attuali insistono proprio sulla vita quotidiana e quest’ultima è diventata un terreno di scontro:[15] al centro di questo conflitto vi sono proprio le donne, da sempre le protagoniste indiscusse del quotidiano.

 

  1. Alcuni conflitti del presente

Molte norme insistono oggi sui comportamenti quotidiani: come smistare le immondizie, come fare la spesa (se acquistare prodotti vicini o che vengono da lontano, se comperare prodotti biologici o andare a fare la spesa nel supermercato più vicino), se usare l’auto o la bicicletta per spostarsi in città, ecc. Determinate scelte, apparentemente del tutto individuali, sono in realtà inscritte in comportamenti sociali più ampi e, se considerate collettivamente, possono prendere un significato politico.

Di questa irruzione della politica nel quotidiano fa parte integrante la biopolitica. Il biopotere normativo detta norme che vengono interiorizzate: sono soprattutto norme relative alla salute e all’inizio e alla fine della vita. Quelle relative alla salute dicono ad esempio ai fumatori quale uso debbano fare dei propri polmoni, e invitano tutti a mangiare determinati cibi piuttosto che altri e a condurre uno stile di vita sano. Così, queste norme interiorizzate entrano nella vita quotidiana delle persone, e ci entrano pesantemente, perché sembra proprio che non ci si possa ribellare a delle norme che mirano a farci stare meglio, più in salute. E’ la salute dell’intero corpo sociale infatti il vero oggetto della biopolitica.

Nel nostro contesto post-patriarcale si apre così uno scenario di conflitti nella vita quotidiana, che sono anche conflitti fra donne e uomini. Non penso tanto ai conflitti, che pure possono esserci e che spesso ci sono, in un matrimonio o in una convivenza, per la gestione della casa e per la spartizione dei compiti domestici: infatti, questi conflitti rimangono spesso sotterranei o vengono sordamente tacitati, un po’ perché agli uomini fa comodo non occuparsi delle faccende domestiche, un po’ perché le donne non vogliono perdere il potere che deriva dal fatto di prendersi cura degli altri; c’è infatti un potere che deriva dalla funzione di cura, ed è un potere associato alla figura materna accudente.

Quando parlo di conflitti fra donne e uomini nel quotidiano, non penso tanto a questo, quanto piuttosto allo scontro fra la sapienza quotidiana di origine femminile, da un lato, e l’invasività degli specialismi, la professionalizzazione della vita quotidiana di marca maschile, da un altro lato. E’ chiaro che in questo conflitto non è che donne e uomini siano come due schieramenti nettamente delineati: si può dire che più donne che uomini si regolano secondo una sapienza quotidiana, mentre più uomini che donne tendono a fare ricorso agli specialismi.

La costruzione di specialismi da parte di uomini è un fenomeno di lunga data, che riguarda almeno l’intera modernità, ma che assume oggi un sapore post-patriarcale. Penso soprattutto alla tendenza maschile a spaccare il capello in quattro, a frammentare la vita quotidiana in innumerevoli specialismi, che espropriano le persone di quello che sanno e sanno fare, più o meno bene, pressappoco, ma con un sapere guadagnato sul campo dell’esperienza, della vita, nelle relazioni con gli altri, tendendo a sostituire al sapere comune delle persone la figura dell’esperto. Sembra che i genitori non siano più capaci di fare i genitori, ma che, al primo disagio, ci voglia l’intervento dello psicologo; a scuola, c’è uno sportello per i disagi psicologici…

Per dare un’idea dell’invasività degli specialismi, che tendono a espropriare le persone della loro sapienza quotidiana, posso portare l’esempio di uno psicoterapeuta, Daniel Stern, che spacca in quattro il momento-ora, il momento dell’incontro faccia a faccia fra due persone, importante in psicoterapia come nella vita quotidiana: il momento presente Stern lo osserva al microscopio, rendendo esplicito molto sapere che per lo più va da sé e che proprio da questo suo carattere implicito trae la sua efficacia.[16]  Oppure posso portare l’esempio di uno psicologo, che della vita quotidiana pretende addirittura di fare una “scienza”, da studiare secondo i parametri della psicologia.[17]  Farò adesso riferimento a due esempi, a mio avviso abbastanza importanti, di invasività degli specialismi e di conflitti che si aprono in tal modo nella vita quotidiana.

 

  1. La cultura terapeutica

Il primo esempio di conflitto fra la sapienza quotidiana delle persone, soprattutto donne, e gli specialismi di marca maschile è quello offerto dalla “cultura terapeutica”: non intendo qui criticare né la psicoanalisi né la psicoterapia, che sono cose serie e di cui sono la prima a sostenere l’utilità e l’efficacia, ma la cultura terapeutica, che va intesa come una mentalità diffusa, come un modo di pensare, come la tendenza a medicalizzare ogni normale disagio esistenziale, anche minimo. La cultura terapeutica, secondo l’analisi di Frank Furedi,[18] rappresenta il soggetto come un soggetto debole, emotivo, incapace di autocontrollo, vulnerabile, perennemente bisognoso di cure.

Questo tipo di cultura dà molto spazio alle emozioni, le mette al centro della nuova soggettività, ma in realtà non è affatto neutrale nell’accoglierle, perché tende a una gestione delle emozioni, incentivando quelle positive, in particolare l’autostima, e scoraggiando quelle negative, come odio, rabbia e aggressività. Al centro c’è dunque un soggetto emotivo, che è subentrato a quello razionale della tradizione moderna, in senso lato cartesiana. E’ un soggetto emotivo ed è un soggetto isolato: non solo lo è in effetti già di suo, per motivi storico-sociali, perché si sono sfilacciati e dissolti i legami comunitari tradizionali, ma lo diventa sempre di più perché la cultura terapeutica attacca duramente le relazioni informali, vedendovi la fonte di una pericolosa dipendenza dalle persone a cui questo soggetto è legato affettivamente e scorgendovi l’origine di ogni sorta di disagi psicologici. L’invito contenuto nella cultura terapeutica è quello di sostituire alla dipendenza dalle persone a cui siamo legati – parenti e amici – la dipendenza da un esperto, un professionista, in genere uno psicologo o uno psicoterapeuta. Nella cultura terapeutica, c’è un forte attacco alle relazioni informali, su cui viene fatto cadere il sospetto, in nome delle relazioni professionali.

Noi di Diotima siamo andate nella direzione opposta, in particolare nel libro Immaginazione e politica, in cui si suggerisce che anche gli sconfinamenti nella follia – quel poco o tanto di follia che un po’ tutti ospitiamo – possano essere espressi e contenuti nelle relazioni di amicizia, non svalutando ma integrando nel quotidiano l’eventuale ricorso a una psicoterapia. E facendo dello scambio fra noi, nella pratica delle relazioni, un fatto politico.[19]

Per certi aspetti, la cultura terapeutica sembra andare nella stessa direzione del femminismo e del sapere femminile guadagnato fin qui, a partire dagli anni settanta, per altri aspetti è in rotta di collisione con le pratiche femminili. Cerco di spiegarmi meglio, perché questo punto è delicato e importante. Per un verso, al centro della cultura terapeutica c’è un soggetto che sembra decisamente un soggetto femminile: un soggetto emotivo, fragile, vulnerabile, non modellato secondo gli ideali maschili dell’autocontrollo e della razionalità. Infatti, la cultura terapeutica colloca in una sorta di gerarchia in primo luogo la donna femminile, poi l’uomo che ospita in sé delle parti femminili, poi la donna mascolina e infine l’uomo mascolino, che il tipo di soggetto più duramente criticato. Inoltre, questa cultura si appoggia in larga misura alla rottura della separazione fra pubblico e privato, a cui ha contribuito in modo determinante proprio il femminismo.

Vuol dire allora che noi donne abbiamo vinto, visto che il modello privilegiato di soggettività, nella cultura terapeutica, è quello femminile? Era questo che volevamo? Io credo di poter rispondere negativamente a entrambe le domande, anche se siamo su un crinale di grande vicinanza con quello per cui noi stesse ci siamo battute. Alla prima domanda risponderei che il modello oggi vincente di soggettività non è in realtà quello femminile, anche se gli assomiglia, ma è piuttosto una sua caricatura, di sapore anche piuttosto patriarcale. Non è forse vero infatti che era stato il patriarcato ad accusare le donne di essere fragili, emotive, vulnerabili, incapaci di controllo di sé, capaci solo di ragionare con l’utero? Oggi questo modello di soggettività, sempre un po’ malata, fragile e bisognosa di aiuto, viene proposta a tutti, uomini e donne.  Alla seconda domanda risponderei che non era questo che volevamo: infatti, ho già detto che la cultura terapeutica e il suo determinismo emotivo contengono in realtà un pesante attacco alle relazioni informali, ai normali legami di dipendenza che noi abbiamo dalle persone a cui siamo affettivamente legati.

La soggettività femminile invece è venuta alla luce, nel femminismo dell’autocoscienza degli anni settanta, dando sì voce alle singole donne, con i loro vissuti e anche con i loro contenuti emotivi, ma in un contesto relazionale: ci si è basate sulla relazione con altre donne, nei piccoli gruppi, per dare voce alla soggettività femminile, prima tacitata oppure omologata a modelli patriarcali. La cultura che è nata dal femminismo dà tuttora valore primario alle relazioni, quelle relazioni informali che la cultura terapeutica invece attacca frontalmente, volendo sostituire ad esse l’intervento di un esperto. Come Diotima stessa ha sottolineato in varie occasioni, libertà e dipendenza (dalle relazioni informali, quelle che abbiamo comunemente) possono benissimo andare insieme, non sono in contraddizione fra loro.[20] La cultura terapeutica è estremamente individualista, mentre noi pratichiamo e sottolineiamo sempre il primato delle relazioni.

Inoltre, come osserva giustamente Wendy Brown, la cultura terapeutica, che negli USA è sicuramente più diffusa che da noi, rientra in una politica dell’identità, un’identità richiesta come gruppo, e chiede il riconoscimento del proprio deficit, col risultato di eternizzare la propria sofferenza anziché agire politicamente per cambiare le cose e anziché immaginare un futuro in cui si possa essere artefici del proprio destino.[21] Faccio qualche esempio: alcuni gruppi, negli USA, hanno chiesto il riconoscimento dei danni emotivi subiti, per esempio i soldati statunitensi che avevano partecipato a questo conflitto hanno chiesto il riconoscimento della sindrome da guerra del Golfo. Inoltre, sempre negli USA, si è pensato a misure terapeutiche di sostegno psicologico per i disoccupati, anziché impegnarsi politicamente per diminuire la disoccupazione, con la conseguenza paradossale che le politiche terapeutiche dovrebbero riparare i danni prodotti da una cattiva politica e da una cattiva gestione economica.

Spero che sia chiaro quello che voglio dire, perché questo punto è importante e delicato: da un lato, il soggetto emotivo e la rottura della separazione fra pubblico e privato, che sono al centro della cultura terapeutica, sono anche frutto della vittoria delle donne e del femminismo, da un altro lato questa stessa cultura terapeutica attacca duramente le relazioni, che sono ciò su cui il femminismo ha fatto leva per dare voce al soggetto femminile e che sono al centro delle pratiche femministe attuali. Per opporsi all’invasività della cultura terapeutica nella vita quotidiana, non resta che riaffermare di nuovo e con forza il valore delle relazioni.

 

  1. Tecnologie di controllo della vita quotidiana

 

Un altro aspetto dell’invasione del quotidiano è il controllo sempre crescente che si esercita sulla vita delle persone. Basti pensare alle telecamere poste fuori dalle banche e in molti punti delle nostre città. La cosa viene in parte ben vista dalla gente, perché lo scopo sarebbe quello di garantire la nostra sicurezza, ma d’altro canto non c’è dubbio che ci sia un’invasione della nostra sfera privata: l’impressione di essere sempre sorvegliati, tipica dei paranoici, ha in questo senso una sua precisa ragion d’essere.

Questo controllo telematico generalizzato non è esercitato solo in prima persona dallo stato e dalle istituzioni pubbliche, ma anche da istituzioni private: ad esempio, gli acquisti al supermercato o tramite internet vengono costantemente monitorati, per vedere quali sono le inclinazioni dei consumatori. Il cellulare e l’uso del computer, come sappiamo dai casi di cronaca nera, permettono di ricostruire i nostri spostamenti.

In questo controllo telematico diffuso, si scavalcano totalmente le relazioni faccia a faccia, e si impone un controllo che mette fra parentesi i corpi, per realizzarsi solo attraverso strumenti tecnologici e informatici. Si tratta si procedure decorporeizzate. Il corpo letteralmente scompare. E così pure la presenza dei corpi gli uni agli altri, primo modo elementare con cui possiamo decidere, a colpo d’occhio, se quella persona che si avvicina è benevola oppure pericolosa per noi.[22]

Contro questa sorveglianza generalizzata, vale poco il principio di tutela della privacy, che pure esiste e di cui si fa un gran parlare, perché esso in fondo usa lo stesso linguaggio e si muove sullo stesso piano di ciò che vuole combattere.

Di nuovo, anche in questo caso, l’unico modo di difendersi da questa sorveglianza telematica generalizzata è quello di puntare sulle relazioni dirette, faccia a faccia, che è il primo modo in cui spontaneamente ci rapportiamo agli altri. Si tratta di far prevalere la cultura della fiducia su quella del sospetto, di rilanciare l’attenzione all’altro, e, in definitiva, di ribadire di nuovo l’importanza delle relazioni con coloro con cui entriamo in contatto.

 

  1. La vita quotidiana fra routine e invenzione

Nell’immagine della Lonzi da cui sono partita, i gesti quotidiani delle donne sono posti sotto il segno dell’ambivalenza, fra ripetizione e dimensione estetica, fra routine e creatività. Come sottolinea quasi tutta la letteratura critica sull’argomento, la vita quotidiana si muove fra due polarità opposte, entrambe compresenti, quella della ripetizione e quella dell’invenzione.

Abitudine e routine assumono per lo più, nel modo in cui comunemente ne parliamo, una connotazione negativa: ma esse hanno anche un significato positivo, perché garantiscono stabilità e sicurezza, le quali sono particolarmente importanti oggi, di fronte al sentimento di fragilità e  di vulnerabilità, che, oltre a essere connaturato alla condizione umana come tale, è particolarmente forte in una società in rapida evoluzione come la nostra, più esposta di altre società del passato al senso di vulnerabilità e di minaccia.[23]

Mentre, fino a cinquanta o sessanta anni fa, era necessario elogiare la ricerca di esplorazione e di innovazione, anche nel quotidiano, perché gli stili di vita erano imbalsamati, oggi invece possiamo  apprezzare maggiormente il senso di sicurezza che deriva dalla routine. Entrambi gli aspetti, stabilità e cambiamento, sono necessari. Come intuisce Simone Weil, quando, all’inizio de La prima radice, pone fra i bisogni dell’anima sia la sicurezza sia il rischio, noi abbiamo bisogno sia di un’uniformità rassicurante sia dell’esposizione all’imprevisto.[24] Entrambi gli aspetti fanno parte della dinamica che ci lega alla realtà sociale: abbiamo bisogno di un equilibrio fra queste due polarità contrapposte. La ripetizione e l’abitudine possono diventare ossessive, ma servono anche come salvaguardia per la sicurezza dell’individuo: danno il senso della continuità, a cui è particolarmente importante aggrapparsi in ogni situazione che si presenti come straordinaria. La ripetizione del quotidiano serve per la sopravvivenza, per il controllo e per la regolazione degli affetti: possiamo coglierne l’importanza ogni volta che ci imbattiamo in un dolore profondo e destabilizzante.[25] 

Entro questa prima polarità del quotidiano, fra ripetizione e creazione, se ne colloca anche un’altra, quella fra senso comune ed esperienza: mentre il senso comune è quello che sospende il dubbio, facendoci andare in automatico secondo una procedura socialmente condivisa, per cui non ci interroghiamo più su tante cose, ma le diamo per scontate, invece l’esperienza – il fare esperienza – implica la soggettività e, in nome di quest’ultima, la messa in questione delle strutture di precomprensione socialmente date. Fra senso comune ed esperienza c’è una tensione dialettica: il senso comune è sociale, condiviso, mentre l’esperienza è mia, passa attraverso la mia irripetibile soggettività. L’esperienza appartiene al soggetto e lo caratterizza nella sua singolarità; i dubbi, tacitati dal senso comune, qui tornano alla ribalta. C’è una dialettica fra senso comune ed esperienza che si realizza nella vita quotidiana: oscillando dentro e fuori dal senso comune, ci appropriamo della nostra esperienza singolare e, grazie a quello che abbiamo imparato, possiamo orientare diversamente la nostra vita quotidiana, darle nuovi significati.[26]

C’è appropriazione dell’esperienza ad esempio quando io mi interrogo sul senso della mia vita. E’ degno di nota il fatto che sia stato proprio il femminismo degli anni settanta, con la pratica dell’autocoscienza, dando voce all’esperienza soggettiva di donne, a mettere in discussione e a contrapporsi al senso comune patriarcale, contribuendo al suo tramonto. Oltretutto, questa presa di coscienza è avvenuta in una forma relazionale, condivisa: essa ha sì chiamato in causa la singolarità, la soggettività delle singole donne coinvolte, ma all’interno di una rete di relazioni. Da ciò è derivata una grande forza politica di cambiamento, che ha avuto un notevole impatto allora, ma che non cessa di produrre i suoi effetti neppure oggi.

Vorrei sottolineare a questo proposito come tutte le pratiche creative che possiamo inventare nel quotidiano, anche se fatte in solitudine, rimandino comunque a un sapere relazionale, condiviso: esse infatti mettono insieme, compongono creativamente qualcosa che abbiamo visto fare da altri, da altre.

Da un lato, abbiamo le abitudini, la routine, e anche le norme interiorizzate del biopotere normativo di cui ho parlato precedentemente. Da un altro lato, c’è spazio per l’invenzione, per la creatività, anche nel quotidiano: ci possono essere margini di invenzione persino nel consumo, che sembra – e non è – la più passiva delle attività quotidiane. Lo sottolinea con forza Michel De Certeau in un bel libro, L’invenzione del quotidiano,[27]  a cui devo molte delle intuizioni di cui mi avvarrò d’ora in poi.

Rispetto a Foucault, che, in particolare in Sorvegliare e punire, mostrando i dispositivi di potere che insistono sulla vita quotidiana delle persone,[28] rischia talvolta di farci vedere solo obbedienza e uniformità, De Certeau sottolinea le libertà interstiziali delle pratiche quotidiane. Gli utenti, i consumatori, che si presumono per lo più votati solo all’uniformità e alla disciplina, in realtà spesso usano a modo loro, in maniera creativa, quello che viene loro offerto dal mercato e dalla cultura dominante. Hanno spesso delle pratiche di appropriazione in cui si possono rintracciare degli indicatori di creatività.

Ad esempio la lettura di un testo presenta tutti i caratteri di una produzione silenziosa, insinua le astuzie del piacere e della riappropriazione del testo da parte del lettore, della lettrice, che può evocare gli spazi della propria infanzia accanto a quelli letti: così un testo, ad esempio un romanzo, può diventare abitabile come un appartamento preso in affitto e adattato secondo i propri gusti e le proprie esigenze. Un altro esempio usato da De Certeau e che a me piace molto è quello del “lavoro di straforo”: gli operai sottraggono dei pezzi e del tempo alla fabbrica, in vista di un lavoro libero, creativo e senza profitto, inventando prodotti gratuiti che rispondono a solidarietà di classe e familiari. Così giocano dei tiri mancini all’ordine costituito, inserendo nella logica del profitto un’economia del dono e un’estetica dei trucchi. L’intera cultura popolare, secondo De Certeau, ha alla base questo tipo di atteggiamento, un uso stravolto e libero della cultura “alta”. Basta leggere qualche libro di Luigi Meneghello per rendersene conto: ci si trova di fronte a una riappropriazione popolare e dialettale della cultura alta, in lingua, di cui ci si fa beffe, in modo più o meno involontario, grazie agli stravolgimenti delle espressioni più altisonanti, che vengono spesso ridicolizzate nel loro uso a livello popolare.[29]

Come esempio di creatività nel quotidiano, un esempio che ha anche un significato di contestazione della cultura e dell’economia dominanti, vorrei portare quello dei g.a.s., i gruppi di acquisto solidale, che, mettendo insieme gli abitanti di un condominio, acquistano collettivamente i prodotti di prima necessità, come pasta, riso e verdure, privilegiando i prodotti biologici e gli acquisti fatti da produttori vicini. Assistendo alla dimostrazione di un gruppo di g.a.s., ho visto come ci si può fare i detersivi da sé: è stata un’esperienza divertente, creativa, una piccola pratica relazionale anticapitalistica.

Queste forme di invenzione nel quotidiano possono essere individuali o collettive, ma in ogni caso dobbiamo tenere presente che, anche in quelle individuali, c’è comunque un rinvio indiretto a un sapere condiviso, a una dimensione sociale e relazionale. Segnalo queste forme di creatività nella vita quotidiana perché mi sembrano strade praticabili già oggi attraverso cui i singoli e i gruppi possono sottrarsi all’eccesso di norme che insistono sulla vita quotidiana: queste ultime sono norme interiorizzate, quelle dettate dal consumo dominante. Naturalmente, nessuno ci impedisce ad esempio di fabbricarci i detersivi da soli, in casa, ma sono proprio le norme interiorizzate quelle più pervasive nell’epoca della biopolitica.

De Certeau ritiene che tutte queste modalità creative nel quotidiano siano forme di resistenza ai saperi-poteri dominanti. In realtà, non sono solo pratiche di resistenza, ma anche di creazione: sono pratiche rispondono all’Altro dominante e che si insinuano nel suo terreno, ma delineano anche, a partire dal locale, un conflitto simbolico di vasta portata. A tale proposito, De Certeau distingue fra tattiche e strategie: le tattiche si muovono sul terreno dell’Altro, in modo locale e circoscritto, sfruttando l’occasione favorevole, il kairòs, e volgendo a proprio vantaggio ciò che, al contrario, potrebbe arrecare danno;[30] le strategie invece hanno un luogo proprio, da cui sferrare attacchi contro l’ordine costituito. La cultura popolare e subalterna sarebbe fatta tutta, secondo De Certeau, di tattiche, non di strategie. E’ vero, ma, se alle tattiche, che sono sempre locali e circoscritte e che forse devono anche rimanere tali per non snaturarsi, si aggiunge un conflitto simbolico che riguarda il senso complessivo di ciò che si sta facendo, allora l’orizzonte si allarga.[31]

Le varie forme di creatività nel quotidiano di cui ho parlato finora, come ad esempio i g.a.s., oggi non sono più solo esempi isolati confinati in nicchie minoritarie, ma possono far parte di un disegno politico più ampio e così incidere efficacemente nei conflitti del presente. Queste pratiche, se inserite in un disegno politico più vasto, se collocate in un conflitto simbolico, possono anche avere un respiro molto grande. E soprattutto possono far respirare noi, divertendoci nel creare in modo intelligente.        

 

[1]             Carla Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Rivolta femminile, Milano 1978, p. 763.

[2]             Ivi, p. 767.

[3]             Cfr. Diotima, Il profumo della maestra. Nei laboratori della vita quotidiana, Liguori, Napoli 1999.

[4]             Cfr. AA. VV., Il pensiero dell’esperienza, a cura di Annarosa Buttarelli e Federica Giardini, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008.

[5]             Cfr. Ina Pretorius, Ripensare tutto dall’inizio, a cominciare dal quotidiano, in AA. VV., Il pensiero dell’esperienza, cit., pp. 72-89.

[6]             Su questo, cfr. il mio I filosofi e le donne, Tre lune, Mantova 2001.

[7]             Cfr. Martin Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano 1976, parte prima, cap. IV, § 27.

[8]             Cfr. Henri Lefebvre, Critica della vita quotidiana, vol. I e II, tr. it. di Vincenzo Bonazza, Dedalo, Bari 1977.

[9]             Cfr. Virginia Woolf, La signora Dalloway, tr. it. di Alessandra Scalero, Mondadori, Milano 1989, ed Ead., Al faro, tr. it. a cura di Nadia Fusini, Feltrinelli, Milano 2003.

[10]          Cfr. Marguerite Duras, La vita materiale, tr. it. di Laura Guarino, Feltrinelli, Milano 1989.

[11]          Cfr. Ina Pretorius, Il mondo come ambiente domestico, in AA. VV., La vita alla radice dell’economia, a cura di Vita Cosentino e Giannina Longobardi, opuscolo della Mag, Verona 2007, pp. 11-17.

[12]          Cfr. Marguerite Duras, “La casa”, in Ead., La vita materiale, cit., pp. 50-68.

[13]          Su questi temi, Diotima ha lavorato nel volume L’ombra della madre, Liguori, Napoli 2007.

[14]          Cfr. il mio articolo La vita materiale, in AA. VV., Il pensiero dell’esperienza, cit., pp. 90-100.

[15]          Cfr. Chiara Zamboni, La notte ci può aiutare, in AA. VV., Il pensiero dell’esperienza, cit., pp. 55-71, in particolare p. 59.

[16]          Cfr. Daniel N. Stern, Il momento presente nella psicoterapia e nella vita quotidana, tr. it. di Diego Saracino, Raffaello Cortina, Milano 2005.

[17]          Cfr. Guglielmo Gulotta, La scienza della vita quotidiana, Giuffré editore, Varese 1999.

[18]          Per il tema trattato in questo paragrafo, quello della cultura terapeutica, mi riferisco soprattutto a Frank Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, tr. it. di Lucia Cornalba, Feltrinelli, Milano 2005. Sulla critica alla medicalizzazione, cfr. anche Ivan Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, tr. it. di Donato Barbone, Bruno Mondadori, Milano 2004, e “aut-aut”, n. 340, 2008, La medicalizzazione della vita.

[19]          Cfr. Diotima, Immaginazione e politica. La rischiosa vicinanza fra reale e irreale, Liguori, Napoli 2009.

[20]          Cfr. in particolare Diotima, Oltre l’uguaglianza. Le radici femminili dell’autorità, Liguori, Napoli 1995.

[21]          L’analisi di Wendy Brown è sintetizzata da Frank Furedi, Il nuovo conformismo, cit.

[22]          Cfr. David Lyon, La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana, tr. it. di Adelino Zanini, prefazione di Stefano Rodotà, Feltrinelli, Milano 2002.

[23]          Sul senso di vulnerabilità e di minaccia che incombe sul nostro tempo, cfr. Judith Butler, Vite precarie, tr. it. a cura di Olivia Guaraldo, Meltemi, Roma 2004 e Miguel Benasayag, Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, tr. it. di Eleonora Missana, Feltrinelli, Milano 2005.

[24]          Cfr. Simone Weil, La prima radice, tr. it. di Franco Fortini, Edizioni di Comunità, Milano 1980, pp. 34-35.

[25]          L’importanza della ripetizione per il senso di stabilità nel quotidiano è particolarmente sottolineata da Francesca Emiliani, La realtà delle piccole cose, Il Mulino, Bologna 2008.

[26]          Ha lavorato molto sulla dialettica fra senso comune ed esperienza soggettiva Paolo Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano 1994. Cfr. anche, dello stesso autore, Un giorno dopo l’altro. La vita quotidiana fra esperienza e routine, Il Mulino, Bologna 2005. E’ degno di nota il fatto che questo autore riconosca il debito che la sua riflessione ha nei confronti del femminismo, che, con la pratica dell’autocoscienza, aveva dato voce all’esperienza soggettiva di donne, contro il senso comune patriarcale.

[27]          Cfr. Michel De Certeau, L’invenzione del quotidiano, tr. it. di Mario Baccianini, prefazione di Alberto Abruzzese, Edizioni Lavoro, Roma 2001.

[28]          Cfr. Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, tr. it. di Alcesti Tarchetti, Einaudi, Torino 1993.

[29]          Cfr. in particolare Luigi Meneghello, Libera nos a Malo, con un saggio di Cesare Segre, Rizzoli, Milano 2006. Faccio un solo esempio di stravolgimento della cultura “alta” ad opera di quella popolare, tratto da Meneghello, in cui il verso di una canzone fascista, “Vibra l’anima nel petto”, diventa “Vibralani! Mane al petto!”. Per ciò che riguarda le mani (“mane”), commenta Meneghello, “l’ordine era di portarle al petto, orizzontalmente, in una forma sconosciuta ma austera di saluto, come un segno di riconoscimento in uso tra i vibralani a cui sentivamo in qualche modo, cantando, di appartenere ad honorem anche noi”. (Ivi, pp. 6-7)

[30]          In questo senso, le tattiche sono sempre frutto della metis con la sua capacità di sfruttare l’occasione, il kairòs: sul concetto di metis nel mondo antico, cfr. Marcel Detienne, Jean-Pierre Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, tr. it. di Andrea Giardina, Laterza, Roma-Bari 1984.

[31]          Cfr. Miguel Benasayag, Angelique Del Rey, Elogio del conflitto,  tr. it. di Federico Leoni, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 199 ss: gli autori confidano nella pratica dell’azione circoscritta, che non può essere esportata su larga scala senza snaturarsi. Tuttavia, aggiungo io, se a tale azione circoscritta si accompagna un conflitto simbolico, la portata del conflitto stesso si allarga di molto.