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Scritture

Santa Caterina Da Siena ovvero il rifiuto dello specchio opaco (Digressioni sulla letteratura)

Dunque, l’argomento.

 

All’inizio ci fu un quesito formulato per il bisogno di sapere chi fossero le “madri” della letteratura italiana, The mother(s) of us all, per citare ancora una volta l’amata Gertrude Stein.

Poi, invece, lungo la strada le cose sono cambiate e la ricerca delle mie radici di donna che scrive è rovinosamente debordata. Debordata.

Piacere, potere, realtà, linguaggio, corpo… una deflagrazione.

I miei pensieri si sono spaccati; le assi portanti del discorso hanno cominciato a traballare; le parole sono ammutolite. D’un tratto l’esercizio di soggetto e predicato mi spaventava a morte.

 

L’approccio al tema era stato canonico.

Prima di tutto la raccolta dei materiali di e su Santa Caterina – era infatti da lei che avevo deciso di cominciare la mia ricerca, la prima donna a essere espressamente nominata come scrittrice nella maggior parte delle storie della letteratura italiana.

Poi la lettura. E la cernita.

Poi ancora la lettura, le annotazioni, la scrittura, questa volta la mia.

Sul mio tavolo si accumulavano pezzi di carta scritti a mano, pagine di computer stampate e spillate, quaderni, libri.

Scrivere e riscrivere. Prendere in considerazione tutti i punti di vista.

Tornare a Santa Caterina e ascoltare solo la sua voce. Modificare incessantemente il mio punto di vista.

 

Ero presa in un vortice e non ne venivo a capo.

Avevo l’oscura intuizione di stare mettendo in piedi un edificio di cui la violenza era il principale materiale da costruzione, ma non volevo rinunciare.

Avevo scritto: “Chiedersi quale sia il posto che Caterina occupa nella storia della letteratura italiana presupporrebbe l’acquisizione di una serie di categorie di giudizio.

Queste categorie di giudizio non sono che il prodotto di un modo di interpretare la realtà.

Se poi si postula l’idea di un reale in fieri, si dovranno di conseguenza modificare quelle categorie di giudizio che ci permettono di catturarlo e di fissarlo come in un’istantanea.

E fin qui il discorso sembra poter avere una sua logica.

Però.

Catturare e fissare. Ho usato questi due verbi con naturalezza, senza pensarci.

Sono tuttavia le azioni denotate dai loro contrari, cioè liberare e spostare, quelle verso le quali sono ora scientemente tesa.

Catturare e fissare, infatti,designano immediatamente un’azione coercitiva. Ciò che io detesto.”

E avevo continuato: “Catturare il reale; fissarlo come in un’istantanea. Elaborare un Sistema; estrapolarne delle categorie di giudizio. Applicare queste categorie di giudizio allo stesso reale di partenza.

Con molte falle e riaggiustamenti, incidenti e disquisizioni, questo è stato uno degli schemi principali della conoscenza umana. Cioè della conoscenza maschile. Ma basta solo introdurre il concetto di corpo, inteso proprio nella sua fisicità, per farlo saltare questo schema, e riportare il pensiero all’equilibrio della relatività.

Liberare il pensiero nella sua relatività di giudizio, quindi anche nella sua “differenza”; metterlo in circolazione; spostarsi e rimettersi in gioco: è questo, a mio avviso, l’unico modo di procedere. Anche in letteratura.”

Questo il nodo gordiano che mi stava soffocando: da un lato l’esercizio del potere da parte della critica, dall’altro una sorta di nichilismo. Tout court.

Poteva esserci una via d’uscita? Forse sì.

La via d’uscita mi veniva paradossalmente indicata da un aggettivo, triviale, che Roland Barthes escogitò a proposito della positura dello scrittore.

“… trivialis è l’attributo etimologico della prostituta che aspetta nel punto in cui si incrociano tre vie…”, scriveva il semiologo francese.

“Uno scrittore (…) deve avere l’ostinatezza della sentinella che se ne sta al crocevia di tutti gli altri discorsi, in posizione triviale rispetto alla purezza delle dottrine.”

Ecco, prendevo a prestito le parole di Barthes ed evocavo per me un’immagine appunto paradossale: quella della prostituta all’incrocio delle tre vie.

Un’immagine maschile sulla quale mi ero interrogata a lungo.

Ma volevo uscire dagli schemi consueti e mettermi in gioco.

Sì, preferivo di gran lunga quest’immagine così lontana da me per indicare la posizione che intendevo assumere di fronte “alla purezza delle dottrine”, ovvero in questo caso di fronte alla critica, che riprodurre il paradigma del potere, quell’assiomatico esercizio di soggetto e predicato cui non sapevo rassegnarmi anche in virtù del mio essere donna.

Non potevo dire di essermi salvata. Non ancora. Ma avevo afferrato saldamente il capo del laccio che mi stringeva e ora avevo chiaro almeno ciò che non volevo fare.

Come a scuola, tornavo a domandarmi: che cos’è la letteratura?

 

M’interrogavo non già sul significato letterale di questa parola di derivazione latina che vuol dire “alfabeto” o “grammatica”, quanto sul senso che comunemente si dà a questo termine, ossia buoni libri da leggere, qualche volta testi illuminanti che hanno la forza di far saltare i nostri relè mentali.

M’interrogavo sul concetto di arte.

 

Strano! Dovunque andassi a frugare, prima o poi mi capitava di incocciare nella parola piacere e in quella, spesse volte più suggerita che detta esplicitamente, di repulsione.

 

“Come possiamo mettere ordine in questo enorme caos e riuscire a trarre da ciò che leggiamo il piacere più intenso e profondo”, si chiedeva Virginia Woolf in Come si legge un libro?

E da Il piacere del testo di Roland Barthes: “Piacere del testo (…). Il piacere del testo si può definire con una pratica (senza alcun rischio di repressione): luogo e tempo di lettura: casa, provincia, pasto vicino, lampada, la famiglia dove dev’essere, cioè lontana e non lontana (Proust nel gabinetto dagli odori d’iris), ecc. Straordinario rafforzamento dell’io (tramite il fantasma); inconscio ovattato. Questo piacere può essere detto: donde la critica.”

 

Piacere. E poi repulsione.

 

“Picasso una volta disse che chi crea una cosa è costretto a farla brutta. Dallo sforzo per generare intensità, dalla lotta per generare questa intensità, deriva sempre una certa bruttezza: chi viene dopo può fare, di questa cosa, una cosa bellissima, perché, visto che è già stata inventata, sa quello che fa; è inevitabile invece che l’inventore, il quale non sa quel che inventa, faccia una cosa che ha la sua bruttezza”. (Picasso, Gertrude Stein)

 

Piacere e poi repulsione.

Corpo, dunque.

 

“Come donna io mi auguro che non riconoscano la mano di una donna, e intendo anche nei miei libri… io non voglio essere giudicata come donna ma come scrittrice”, ha dichiarato in una recente intervista pubblicata sulla rivista “Pulp” Laura Grimaldi.

“E ha ragione da vendere ‘la signora del noir’”, avevo annotato su un pezzo di carta.

“Quando uno scrittore è entrato in simbiosi con i suoi personaggi ed essi hanno ormai preso vita al punto da agire in proprio, che gli importa di essere uomo o donna? In questa specie di trance dove è precipitato egli sta vivendo la vita delle sue creature, uomini e donne, completamente. E viceversa, però”.

Ed era questo piccolo avverbio a fare la differenza.

 

I personaggi si nutrono, famelici, dello scrittore che li ha creati. Delle sue idee. Del suo corpo.

“Perciò io non credo al mito dell’arte androgina”, avevo scritto ancora.

“La scrittura è, a mio avviso, sessuata in una incommensurabile varietà di rifrazioni, tante almeno quanti sono gli scrittori. Che uno scrittore non accetti di mettere in campo la sua differenza biologica, o la differenza che ha scelto per sé, ma voglia senz’altro essere giudicato per quanto ha scritto è, vivaddio, sacrosanto. Ma “il lettore comune” e il critico non possono prescinderne. Pur senza farsene un feticcio.”

 

A proposito di Santa Caterina da Siena, il campano Francesco Flora si espresse in questi termini:

“… i sentimenti e le opere di Caterina recano l’impronta del genio. La sua statura morale le consente di frequentare uomini senza temere che la fragilità femminile sia in gioco. Viril donna, era tuttavia infantilmente femminile…”

Quanti e quali sono i livelli di lettura cui dà accesso questo stralcio di commento critico?

Ammetto che di primo acchito lo avevo rigettato; credevo di ravvisare nel Flora una componente fortemente misogina; mi sembrava che la Santa fosse presentata come un Giano bifronte: da una parte le qualità morali, che vengono solitamente recepite come maschili e nelle quali il critico si rispecchiava con compiacimento, dall’altra l’infantilismo, prerogativa invece tutta femminile.

Che dire poi di quella parola, “genio”, spesa a un tratto per la Mistica toscana e successivamente, di fatto, ritrattata?

Mentre continuavo a sfogliare l’opera di Francesco Flora, pensai che la riflessione che mi aveva indispettita era un esempio, solo un esempio, di come il corpo dello scrittore si fosse insinuato nelle dinamiche dell’esercizio critico dando la stura, in questo caso, a un guazzabuglio confuso di pregiudizi.

Ma seguitavo a interrogarmi. Cercavo risposte.

 

“E’ sufficiente ricostruire il contesto storico, politico e culturale entro il quale si forma e opera un critico per scagionarlo dal suo chiamarsi fuori in merito alle questioni del corpo?”

Era questo uno dei quesiti sui quali tornavo spesso.

E per corpo intendevo quella materialità dell’esistenza che la filosofia greca aveva espunto come gynè, termine greco che significa donna.

Espunto.

 

“Il pensiero occidentale si regge su una tragica mutilazione. In fondo, si regge su una escissione. Sull’asportazione del nostro piacere di donne a narrare e a narrarci”, mi dicevo.

 

“Non è comunque solo un problema di narrazione e intonazione ma anche di linguaggio. Come possono le donne creare storie di vite femminili se dispongono solo del linguaggio maschile?, saltava su Carolyn G.Heilbrun dal suo saggio Scrivere la vita di una donna.

E come nel gioco delle matrioske, ad aprire la parola linguaggio, saltavano subito fuori tante altre questioni sempre più spinose.

Una dopo l’altra mi avvicinavano al nucleo.

 

Potere era il nucleo.

 

“… Questo oggetto in cui, da che mondo è mondo, s’inscrive il potere, è: il linguaggio – ovvero, per essere più precisi, la sua espressione obbligata: la lingua.

Il linguaggio è una legislazione e la lingua ne è il codice: Noi non scorgiamo il potere che è insito nella lingua perché dimentichiamo che ogni lingua è una classificazione e che ogni classificazione è oppressiva: ordo  significa al tempo stesso ripartizione e sanzione”, aveva scritto Barthes.

E poi: “Ma, come performance di ogni linguaggio, la lingua non è né reazionaria né progressista; essa è semplicemente fascista; il fascismo, infatti, non è impedire di dire, ma obbligare a dire”.

 

Il nucleo, quindi, era il potere.

Si aprivano qui altri orizzonti di riflessione.

 

Ma intanto avevo capito una cosa, piccola certo, ma importante.

Avevo capito che l’esercizio critico, quella pratica del Comparativismo che Uta Treder, docente di Germanistica all’Università di Trieste, fondava sui tre cardini del pluralismo, dell’esplorazione e dello sconfinamento, era già stata attuata.

Pochi l’avevano esercitata. In misura proporzionale alla loro consapevolezza. In misura proporzionale al loro desiderio.

“Occorre superare le categorie etiche ed estetiche in auge, in un incessante confronto con la cultura dominante”, dichiarava la Treder l’anno scorso, al salone del Libro di Torino (“S/Oggetti immaginari. Letterature comparate al femminile.”)

 

Consapevolezza e desiderio.

Per esempio, era stato proprio leggendo il giudizio sull’opera di Caterina da Siena formulato da Niccolò Tommaseo che mi ero convinta che la riflessione sul corpo, al di là di ogni pur doverosa contestualizzazione del lavoro critico, perteneva in ultima analisi allo sguardo individuale.

Alla consapevolezza, al desiderio individuali. Appunto.

 

Circa vent’anni prima della nascita di Francesco Flora, nel 1860, Niccolò Tommaseo scriveva: “… E’ proprio della donna il dedurre dalla esperienza sua, che restringesi in meno oggetti che all’uomo, maggiore copia e varietà non solo di sentimenti e di immaginazioni, ma talvolta di giudizi retti, ne’ quali ella indovina e l’uomo e le cose: fecondità simile a quella per cui la donna trae dalle proprie viscere le vite continuatrici della creazione e il latte che nutrica esse vite, e la  parola che ne alleva il pensiero…”

 

“… e la parola che ne alleva il pensiero…”

 

Una folgorazione! Per me che avevo tra le mani il saggio della filosofa Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, l’intuizione del Tommaseo sulla funzione del linguaggio materno in relazione al pensiero, “alle capacità di tessitura simbolica che i filosofi hanno appreso nel rapporto con la madre”, come scrive la Muraro, era semplicemente folgorante.

“Si tratta di un cambiamento di epistemologia”, afferma la filosofa veneta.

“Si tratta di pensare che l’origine della vita non è separabile dall’origine del linguaggio, né il corpo dalla mente…

(…) Saper parlare vuol dire, fondamentalmente, saper mettere al mondo il mondo e questo noi possiamo farlo in relazione con la madre, non separatamente da lei.”

 

Se nel 1860 Niccolò Tommaseo poteva aver intuito questo, se altri avevano inscritto il loro lavoro critico “in un incessante confronto con la cultura dominante” – e per quanto riguardava Caterina da Siena pensavo ad esempio alla bella silloge dell’Epistolario cateriniano, palpitante, curata nel 1940 da Tommaso Gallarati Scotti – allora c’era, era sempre esistita, una possibilità di indagine consapevole e desiderante. Scientemente tesa alla liberazione e allo spostamento.

Era su quella linea che volevo pormi.

 

“Si potrebbe immaginare una storia della letteratura o, per meglio dire, una storia delle produzioni di linguaggio, che sarebbe la storia degli espedienti verbali, spesso molto dissennati, di cui gli uomini si sono serviti per vincere, domare, negare, o all’opposto per accettare ciò che è sempre un delirio, e cioè la fondamentale inadeguatezza del linguaggio e del reale” , ha scritto Roland Barthes.

 

Era da quella consapevolezza, “la fondamentale inadeguatezza del linguaggio e del reale”, che volevo partire; erano le “utopie di linguaggio” delle donne, The mother (s) of us all, che desideravo investigare.

Sceglievo per me la trivialità.

Solo la forza del paradosso, infatti, poteva intrigarmi. Anche in letteratura.