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per amore del mondo Numero 15 - 2017/2018

La rivolta linguistica (Grande Seminario 2017)

Ripensare il materialismo. Per un linguaggio che rimanda ad altro da sé

Può il linguaggio – anche quello che parliamo ogni giorno – essere il terreno, l’ambiente, l’atmosfera per una rivolta?

Porre questa domanda a Diotima, al Grande seminario, ma anche nello spazio di pensiero che si è aperto decenni fa, ci mette su uno scivolo che porta velocemente a rispondere di sì. Perché il linguaggio partecipa di un ordine simbolico, quello che ci fa apparire, scomparire, vivere male o con agio. Perché il linguaggio è all’opera nella relazione prima, quella con la madre/con la lingua materna, ed è la sede per rendere grazie e giustizia all’umanità femminile che siamo. Perché di linguaggio siamo fatte e fatti ed è solo con questa stoffa che possiamo tessere un altro ordito di relazioni. Se le appassionate a un’idea performativa del linguaggio sottolineano come ogni dire collettivo è un fare che ha effetti sulla mente e i comportamenti di ciascuno, altre ricorderanno che invece se ne può fare un uso che mostra le cose per quel che sono – “il re è nudo!”.

 

Il presente

 

Ognuna di queste piste ci porta a dare risposte sensate sul mondo e i tempi in cui viviamo. Risposte molto diverse. Negli incontri preparatori al Grande seminario, è emerso in particolare come una critica del presente ha di mira l’ingiustizia che si esercita su corpo e mente attraverso l’imposizione di un lessico obbligato. Un lessico che ha la pretesa di “ottimizzare”, di rendere più efficace, trasparente, fluido, lo spazio delle attività, che svolgiamo o in cui siamo implicate, come lavoratrici, come utenti, come cittadine, quando non come consumatrici. Eppure la sensazione diffusa, in risposta a questa forte volontà di organizzare al meglio le relazioni, è di disagio. In effetti, il discorso dominante – cioè il discorso che sembra, non tanto il più convincente, ma il più facile da ripetere – dà un’importanza primaria all’organizzazione, al management; e gli algoritmi appaiono lo strumento per raggiungere il paradiso della gestione, nientemeno che in automatico! Al contempo, il presente ci fa respirare un’aria tragica, fatta di morti, guerre, violenze, sofferenze, depressioni, rabbie senza speranza. Un sogno di perfezione che galleggia su un mare di dolore.

 

In accordo con il sì al linguaggio come spazio della rivolta, a questo stato di cose si potrà guardare in modi diversi.

Si può decidere di lavorare sul simbolico, per portare alla luce ciò che viene cancellato, nascosto o malamente significato: chi rischia la vita in viaggio per provare a iniziarne una nuova, anziché i “flussi migratori” o “i problemi di ordine pubblico e decoro”. Oppure restituire umanità alle parole che diciamo, strappandole alla loro pretesa di valere per tutti, per tutte, in un senso e uno soltanto: scrivo, studio, desidero imparare, sono curiosa, ho bisogno di parlare con altre, anziché “prodotti”, “Terza missione”, outcomes, briefing e debriefing. O ancora, posso mostrare come le parole possano letteralmente creare una malattia: come i bambini “iperattivi” o il recente “disturbo oppositivo con provocazione” (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 2017, V), dove si tratterebbe invece di tornare a giocare e scatenarsi in cortile oppure di sapere che le persone discutono e litigano e che va bene così, di più, è necessario. O infine, posso innescare quel senso di gratitudine condivisa, di sollievo, quando trovo parole che, anziché ripetere e conformarsi al già detto, riescono a dire quel che sta succedendo.

In tutte queste diverse risposte, il linguaggio è convocato in modo più efficace rispetto a un’altra risposta, che pure inizialmente aveva attirato la mia attenzione: vivremmo cioè in un tempo di “manomissione delle parole”. Le parole vengono dette, ma possono significare una cosa e il suo contrario, non ci si può più contare per intendersi: dici “libertà”, io capisco vivere pienamente, senza mortificazioni, tu intendi fare i tuoi interessi senza “lacci e lacciuoli”. Ora, sappiamo che le parole non sono oggetti che vanno restituiti a loro stessi, sono parte integrante della vita che siamo e dunque sono in movimento, come bene mostrano i tanti esempi riportati nelle righe poco sopra. Piuttosto, questa idea che le parole possano essere manomesse e che il disagio derivi da questa possibilità, è un’idea malinconica. Assume che esiste un significato reale, vero, che è andato perduto e a cui, eventualmente, sarebbe bene tornare.

 

 

Qualcosa è andato perduto, certo, ma non si tratta di procedere a un recupero.

 

Il senso, la giustizia

 

Simone de Beauvoir racconta di un suo incontro con Simone Weil, all’epoca entrambe studentesse alla Sorbona:

 

[Weil] dichiarò in tono deciso che la sola cosa importante, oggi, sulla terra, era la Rivoluzione, che avrebbe dato da mangiare a tutti quanti. Io di rimando, e in tono non meno perentorio, risposi che il problema non era di far la felicità degli uomini, ma di trovare un senso alla loro esistenza. Lei mi squadrò. – Si vede che non avete mai avuto fame, – replicò. I nostri rapporti si fermarono qui. Compresi ch’ella mi aveva catalogata “una piccola borghese spiritualista”[1].

 

Si fronteggiano, perentorie, per meglio allontanarsi l’una dall’altra, tagliando con l’accetta il proprio pensiero. La materialità dell’oppressione e dell’emancipazione dai bisogni, da una parte e dall’altra, l’esistenza alienata o dotata di senso. Il racconto appare come una semplificazione, nulla più che un aneddoto, anche tenendo conto delle vicende della ricezione delle due autrici, che negli ultimi decenni sono state ascritte a campi invertiti, Beauvoir nel campo del pensiero femminista materialista[2] e Weil nel campo della potenza simbolica di un pensiero mistico[3]. Tuttavia questo scontro torna ad avere un significato preciso quando da oltreoceano ci arrivano gli echi di uno scontro tra un femminismo “culturalista”, che mira al riconoscimento di soggetti non previsti dall’ordine vigente, e un femminismo che si rivendica di una nuova sensibilità per la giustizia sociale[4].

Sono molto avvertita della necessità della traduzione, una postura e una pratica che ha il primo semplice effetto di non offrirsi alla colonizzazione culturale: culturalismo e giustizia sociale sono parole che, in un contesto come quello statunitense cui appartengono le due autrici, non hanno lo stesso significato che possono assumere in un contesto come quello, se non europeo, italiano. Per quanto mi sia capitato, all’epoca dei miei primi incontri con il pensiero della differenza, di leggere, nelle polemiche che lo hanno accompagnato, la distinzione tra un femminismo del simbolico e uno materiale, le tante donne che vi hanno fatto riferimento avevano ben chiaro che in gioco era il proprio desiderio di trasformazione della realtà. E così è stato; a distanza di anni, considero che è accaduta con piena efficacia una “politica del desiderio” – una politica che si dipanava attraverso le relazioni, le intuizioni e capacità di ciascuna, i luoghi in cui si trovava a vivere. Le parole condivise del pensiero della differenza erano al contempo tessuto connettore tra le tante, orientamento per aprire ulteriori prospettive e appoggi per guadagnare nuovi spazi di esperienza.

 

E nondimeno qualcosa è andato perduto.

 

Non necessariamente la perdita va associata alla malinconia, come sopra, oppure al risentimento o all’ostinazione. Le parole perdono di efficacia semplicemente perché, parte della vita di ciascuna, sono vive. E come tutto ciò che è vivo, crescono, si sviluppano se alimentate oppure deperiscono, si trasformano fino a diventare qualcosa che non è più riconoscibile. Io, come credo molte altre, ho trovato dimora nel femminismo della differenza – e non in tanti altri ordini del discorso – proprio perché ha dato la massima importanza a una trasformazione che era insieme del mondo e di sé; detto in altri termini, ha la pretesa di rendere viventi e significative per ciascuna le parole dette ed ascoltate. Ora, questa attrattiva – questo tratto che distingue il femminismo dai discorsi sulle donne, dalle sistemazioni teoriche dell’accademia, dai pareri degli esperti, dalle retoriche istituzionali, dalle statistiche, dalle chiacchiere – è proprio ciò che ne determina anche la deperibilità. Se Rivolta femminile assume la nuova idea di un tempo della storia che contempla il tempo della vita – “consideriamo incompleta una storia che si è costituita sulle tracce non deperibili”[5] –, che cosa accade quando questa ingiunzione si applica al divenire del desiderio che si è espresso nel femminismo?

 

Negli ultimi anni tante parole-bussola del pensiero della differenza sono andate incontro a una speciale entropia. Speciale perché, come ho notato in altre occasioni, la perdita di efficacia, della capacità di aprire nuove prospettive, da parte delle parole della differenza sembrava derivare non da una sconfitta ma da una piena affermazione. Nel discorso pubblico, le donne venivano infine nominate, addirittura invitate a partecipare, e non per via di una loro finalmente riconosciuta capacità di agire secondo modelli maschili, ma proprio perché portatrici di una differenza[6]. Così è sembrato che, più che trasformare la realtà, fosse giunto il momento di elaborarne il senso, a partire da condizioni finalmente in linea con le trasformazioni innescate dal femminismo. Per meglio dire, l’impresa si è spostata sull’idea di sviluppare le potenzialità dell’esistente, anziché mirare a una sua trasformazione radicale.

Ora, innescare delle trasformazioni non è affatto equivalente ad ottenere le trasformazioni desiderate. In un primo senso, cioè che non siamo padrone dell’opera che mettiamo al mondo, e in un senso ulteriore, cioè che nessuna trasformazione si dispiega in modo lineare a accumulativo. E così, oggi nessuna ha la sensazione di vivere nel mondo che auspicava. Per giunta, la stessa accoglienza della differenza si sta rivelando una traccia deperibile, quando questo tenore del discorso pubblico si accompagna alla recrudescenza della violenza nelle relazioni.

 

Parole e campo di forze

 

E’ in questo giro di pensieri, di intuizioni nate dall’osservazione di quel che accadeva a me, di quel che rigenerava o bloccava relazioni e iniziative tra donne, che ho imboccato insieme ad altre la strada di un nuovo materialismo femminista. Sul piano del pensiero, cioè della ricerca di nuovi strumenti per cogliere le trasformazioni in corso, questo passaggio ha lasciato tracce scritte, non da ultimo la rielaborazione, a partire dal presente, dei bivi che si erano aperti nel femminismo italiano degli anni Settanta-Ottanta, in particolare tra quello della differenza e quello di ispirazione marxista[7]. Ma, nel quadro della questione affrontata qui, la rivolta linguistica, voglio concentrarmi sul rapporto tra parole e trasformazione, un rapporto che non si fa né inquadrare né esaurire dalla distinzione tra ricerca di senso e realizzazione della giustizia.

 

E’ possibile un uso delle parole, che affida loro il compito di dare senso a quel che viviamo. E’ un uso pieno di umanità, quella che esprime il nostro bisogno di sentirci a casa, di saperci orientare, di ridurre il senso di confusione e di un disordine che ci sfugge e ci mette in balia degli eventi. Ecco l’immagine che faccio corrispondere a questo uso-bisogno delle parole:

 

 

Abbiamo e siamo parti di quotidiano, di vita che, se lasciate a se stesse, partirebbero in tutte le direzioni. Le parole sono allora utilizzate con l’auspicio, dichiarato o meno che sia, di ottenere un effetto di contenimento, di messa in ordine, di arresto della dispersione. E però, questo uso, pur motivato da un bisogno, ferma il movimento, e soprattutto produce un ordine che non è l’unico a governare la situazione, ma che piuttosto raddoppia il campo di forze; per quanto si faccia dimenticare, pure c’è e agisce, la forza di gravità.

E’ possibile un altro uso delle parole, che implica al contempo un gesto creativo e mostra il campo di forze all’opera. E’ un’artista – Claire Fontaine – che ha saputo mostrarlo in tutta semplicità ed efficacia:

 

Il gesto di capovolgere il contenitore restituisce la composizione non statica ma dinamica della situazione. Diventano percepibili le tensioni che corrono tra tutti gli elementi: le biglie tra loro, le biglie e la parete e, ancora, le biglie e lo spazio che c’è oltre quel vetro. La forza di gravità – ora visibile – si compone di molte e diverse tensioni che, anziché chiudere, riaprono i confini stessi dello spazio assegnato.

 

Mentre le biglie dentro al barattolo evocano il gesto che le ha così riunite, per guardarle nei loro colori e bellezza, nel bicchiere capovolto le biglie appaiono dotate di una forza, premono per andare altrove…

Ecco allora che, tornando a noi esseri parlanti e amanti della differenza si pone il problema di tornare a usare le parole in un modo che sia vivo, che restituisca cioè le tensioni che ci attraversano, ci collocano, ci spingono verso spazi ulteriori. Così intendo l’esigenza di ripensare il linguaggio in una prospettiva materialista, un uso delle parole che renda conto dei rapporti di forza, o meglio, tra forze. Non tanto ridonare senso a ciò che viviamo, ma accettare che le situazioni in cui viviamo non sono dicibili con le parole già a disposizione, e che questo non sia motivo di confusione ma anzi occasione per compiere un gesto, l’apertura di una nuova prospettiva.

 

Tra le relazioni che mi hanno offerto l’occasione di rilanciare il desiderio femminista di trasformazione, voglio nominare quello con la casa delle donne Lucha y Siesta[8]. Questo incontro ha risposto all’esigenza che maturava allora in me di alimentare nuovamente il pensiero femminista con la materialità di azioni e invenzioni. Riporto qui il testo che mostra, a partire da quell’esperienza, cosa mi andavo chiarendo sul rapporto tra l’importanza attribuita al linguaggio dal pensiero della differenza e l’esigenza di rielaborare, all’altezza dei tempi presenti, il desiderio femminista di trasformazione su grande scala – “tutto il mondo dovrà cambiare perché io possa esservi inclusa”, dice Clarice Lispector.

 

I nomi dello spazio. Lucha y Siesta e il suo canto del mondo[9]

 

Le vie dei canti sono percorsi compiuti attraverso una estensione gigantesca, a misura non umana, a volte ostile, certo non rassicurante. Diversamente dalla nostra, nella tradizione aborigena australiana, rendere questa estensione uno spazio praticabile, vivibile, non passa attraverso la costruzione, la domesticazione, l’appropriazione. Piuttosto, è con il movimento, con l’incontro e con una speciale forma di linguaggio, che questa estensione diventa uno spazio. Nel camminare si incontra una roccia, un fiume, un animale e, cantandolo, si arriva alla creazione, di sé come di quell’essere. Lo spazio non preesiste, e non viene attribuito a qualcuno ai danni di qualcun altro; è piuttosto l’effetto di una relazione fisica – l’incontro – e di una relazione linguistica non appropriativa – il canto. Così una cosmogonia, il momento originario in cui tutto ha inizio.

 

Ma viviamo qui, in un momento storico determinato, in cui molto è sedimentato: rapporti di forza, tra donne, tra donne e uomini, tra autoctoni e migranti, tra aventi e non aventi diritti.

Serve allora un primo gesto.

 

Fare spazio. E’ ricavarlo, anche con la lotta, lavorando a togliere strati e pesi che appesantiscono la testa, il corpo. Fare vuoto dei rapporti di potere, delle abitudini della città, delle sue regole scritte e non scritte, che costringono alla derelizione, solitudine, abbandono. Derelizione condivisa, anche se non ancora comune, perché in questo spazio nascente si ritrova chi reagisce al non essere più cittadina e chi respinge il proprio non essere ancora cittadina. Fare spazio è anche un lavoro sulle storie scritte nei corpi. Averle presenti e insieme liberarsene. Trasformarle da fardelli in occasioni, da patrimoni in mezzi a disposizione.

 

 

Abitare. Un’estensione diventa uno spazio quando comincia ad essere percorsa da nuovi gesti, che a mano a mano diventano nuove abitudini, quando si presenta l’occasione di muoversi e orientarsi, una certa familiarità. Sovversione tutta speciale del destino femminile.

Il domestico, punto fermo dell’erranza maschile, comincia qui come un altrove. Fin dall’inizio è da un’altra parte rispetto a quel che sarebbe spettato per ruolo, per assegnazione di compiti e posizioni. E’ luogo di arrivo, esito di un movimento, patito e fieramente assunto, di un andare. Non Penelope che veglia al ritorno altrui, ma più di una che insieme curano la materia necessaria per tornare a sognare. Non un chiuso, più povero del mondo e per questo rassicurante, ma un aperto capace di costruirsi come accogliente. Il familiare che non è nulla più che la capacità di orientarsi, di saper fare e andare, in tante ed eterogenee relazioni, nate da sorellanza guerriera. Quella intimità che nasce da chi si fiancheggia nel vivere e combattere. Speciale sovversione, abitare non è tracciare i confini di un chiuso, ma energia radiante – casa-quartiere e casa-centro. Relazioni agite, attività che costituiscono uno spazio familiare perché già aperto. Sentirsi sicure è sentirsi capaci. Non la stasi della tutela ma spazio intensivo per la rimessa al mondo della forza.

 

Avventurarsi. Sentirsi sicure, proprio perché non si è più rinchiuse, perché si dispone ancora e di nuovo di spazio. Riprendersi la strada, smettere di sentirsi assediate. Come, d’altra parte, smettere di sentirsi in balia. Forza non è nel movimento o nel riposo, piuttosto è quiete e andamento che, insieme, fanno il vivere. Contro le retoriche securitarie, parola spicciola a uso dei diseredati, e contro le retoriche del nomadismo, parola-moneta a uso dei dotati – il movimento è ricchezza quando ritmo del proprio corpo, movenza comune.

Lo spazio non è senza il proprio tempo. Il tempo delle attività, il tempo del mondo, il tempo della storia e delle storie che siamo, il tempo che ci spetta e ci aspetta. Avventurarsi è anche figlia dell’ozio, del rifiuto degli atti che ci sono stati assegnati, del consumare quelli di cui abbiamo bisogno, e dell’inventare quelli che ci ripromettiamo.

Inventurarsi, allora. Farsi futuro a se stesse, avere nuovamente un tempo davanti, una strada da percorrere, da immaginare.

 

Vivere. Lo spazio non è compiacente, mette alla prova della dura materia dei bisogni e della presenza. Chiede di essere portato al mondo con iniziative, invenzioni capaci di durare, di rispondere alle aspettative, di seguire la curva disuguale delle energie, quando ci sono, quando sono meno di quanto servirebbe. Confronta con le mille e una astuzie e resistenze di cui la vita è capace. Come il vivere, lo spazio familiare proprio perché aperto, la casa che è casa perché mondo, offre una sola direzione: le generazione e rigenerazione. Di sé, delle relazioni, dell’abitato e abitabile, del presente e del futuro.

 

Generare. Il ritmo, spazio e tempo del vivere, si rivela fatto di attività e requie – lucha y siesta. Economia speciale, più grande dell’atto che solo produce beni, più pervasiva dello relazioni di scambio a mezzo denaro, più giusta di quella che ci misura su quanto siamo produttive, atte al lavoro, compatibili con il mercato. Per generare se stesse e il mondo che si incontra e con cui si è – come su una via del canto – serve molto più e molto meno di quel che ci viene dato. Meno strumenti e obiettivi già preparati da altri e più ricchezza di mezzi, materiali e immateriali. Corpi che tornano a desiderare, linguaggi che si fanno ascoltare, lingue capaci di esprimere e immaginare, denaro per tradurre bisogni, atti e contesti, tempo lungo per capire e orientarsi, tempo breve per commettere un atto di resistenza o di creazione.

 

 

 

[1]              Simone de Beauvoir, Memorie di una ragazza perbene, trad. it. Bruno Fonzi, Einaudi, Torino 1960, p. 244.

[2]              Christine Delphy, L’ennemi principal. Économie politique du patriarcat, Syllepse, Paris 1998.

[3]              Tra le altre, Angela Putino,  Simone Weil, Un’intima estraneità, Città aperta, Troina 2006; Wanda Tommasi, Esperienza religiosa, esperienza femminile, Liguori, Napoli 1997.

[4]              Nancy Fraser, Fortune del femminismo, ombre corte, Verona 2014, in particolare  il capitolo 7, Eterosessismo, mancato riconoscimento e capitalismo. Ua risposta a Judith Butler, pp. 206-218.

[5]              Rivolta femminile,  Manifesto di Rivolta Femminile, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1971, nuova edizione, Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti, et al., Milano 2010, p. 9.

[6]              Federica Giardini, Differenza, conflitto costituente, “Babelonline”, 10-11, 2011, pp. 227-236.

[7]              Federica Giardini, Dominio e sfruttamento. Un ritorno neomaterialista sull’economia, in R. Finelli, A. Bertollini (cura), Soglie del linguaggio. Corpi, mondi, società, Roma Tre University Press, Roma 2017.

[8]              La casa è nata da un’occupazione di una stazione ATAC dismessa nel 2008. Oggi le donne di Lucha y Siesta sono parte importante di Non Una di Meno, il movimento che ha mobilitato migliaia di donne, centri, gruppi, associazioni, singole, in tutta Italia, anzi, nel mondo. Considero il Piano di Non una di Meno, scritto collettivamente, un grande esempio dell’uso delle parole per aprire nuove prospettive e per mettersi all’altezza della massima contraddizione del presente.

[9]              In Lucha Y Siesta, Una mattina ci siam svegliate. Storie, pensieri e immagini da una Casa delle donne autogestita, Round Robin, Roma 2016, pp. 29-31.