diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 9 - 2010

Grande Seminario

Rideclinare la politica: quando la differenza fa relazione

E’ sempre difficile decidere da dove iniziare, ma partire da sé è un buon punto da cui prendere le mosse. Perciò partiremo da noi e dalla nostra esperienza.

Il SAP, Seminario Autogestito Permanente, che abbiamo costituito all’interno dell’Onda è stato momento di riflessione e pratica di relazione, in cui ci siamo occupati e occupate soprattutto della questione del Sapere e dell’Università come bene comune. Dovendo riflettere su quanto abbiamo fatto,  abbiamo ritenuto essenziale evidenziare subito la posizione peculiare che il SAP ha avuto rispetto ai luoghi noti del movimento. Ci siamo infatti trovati e trovate in una posizione periferica (ma non marginale) che ci ha permesso e ci permette tutt’ora di assumere un punto di vista decentrato rispetto a quello di molte altre persone coinvolte nella mobilitazione. Quel che vorremmo provare a fare qui e ora è mettere in parola il racconto di come siamo arrivate e arrivati alla nostra idea di Università, pensata come uno spazio nostro, conquistato attraverso le pratiche e i concetti che abbiamo rielaborato.

La riflessione che presentiamo si è avviata a partire da una domanda ben precisa: come mai le donne che hanno creato e partecipato attivamente al Sap non hanno mai sentito la stessa possibilità di prendere parola in altri contesti, che pure facevano parte del movimento? E di contro, in cosa si sono trovate? Il tentativo di dare risposta a questa domanda ci ha permesso di continuare questo lavoro di gruppo anche a distanza dal periodo più intenso della mobilitazione e di chiarirci le idee sulle dinamiche del movimento.

Per rispondere concretamente alla questione, infatti, abbiamo sentito il bisogno di ampliare la riflessione alla situazione del movimento nel suo insieme, dandone una nostra lettura peculiare. A nostro parere è possibile individuare almeno due livelli di aggregazione all’interno della mobilitazione, da non considerarsi come blocchi distinti ma come realtà dai confini sfumati. Il primo è quello che, pur dimostrando una certa vitalità nella proposizione di contenuti anche nuovi rispetto alle mobilitazioni precedenti, nelle forme è stato caratterizzato da un certo “tradizionalismo”, da un riproporre forme che pur mantenendo una certa forza organizzativa non presentano una rottura significativa col passato e che rispecchiano un modo storicamente maschile di fare politica. Questo livello è soprattutto quello dei momenti quantitativamente più partecipati, definibile come macroscopico.

Il secondo livello, quello che più ha coinvolto il nostro gruppo, emerge invece quando il movimento viene osservato al microscopio, nelle dinamiche e nelle forme di aggregazione e forze che hanno contribuito a costituire “dal basso” la mobilitazione. Questo è il microlivello dei gruppi di studio, dei seminari, dei workshop e di tutto quello che potremmo definire come il “lavoro di cura” del movimento:  quell’insieme di pratiche che, mettendo in circolo riflessione e relazione, ponendo in raccordo momenti aggregativi diversi, nutre il movimento pur rimanendo trasparente agli occhi del grande pubblico. Questo piano opera soprattutto per piccoli numeri. Tuttavia,  la nostra riflessione intende soffermarsi non tanto sull’aspetto meramente quantitativo della questione, quanto invece sulla distanza qualitativa tra i due piani. La differenza tra i due livelli risiede nelle modalità di rapportarsi l’un l’altra.

Continuando la nostra riflessione possiamo definire due coppie oppositive che meglio rendono l’idea di questa differenza qualitativa tra le due modalità di interazione.

Abbiamo innanzitutto notato la differenza tra un modo di fare politica che rischiava spesso di sfociare nel leaderismo e un approccio che, al contrario, è imperniato sulla costruzione e la partecipazione a relazioni interpersonali. Da una parte il ragazzo con il megafono in mano davanti all’assemblea, che diventa un semplice uditorio, e dall’altra lo scambio tra persone intorno allo stesso tavolo.

La seconda coppia oppositiva che sentiamo di evidenziare è quella di agonismo e fiducia. Spesso l’esperienza di assemblea che abbiamo vissuto ha messo in luce una certa logica agonistica che minava alla base la possibilità di relazioni produttive più eque. Sull’altro versante, nel microlivello, abbiamo invece esperito un agire fiducioso nei confronti dell’altra e dell’altro che era invece fondamento delle pratiche politiche.

L’idea di fiducia si è rivelata centrale nella nostra esperienza e merita perciò un discorso più ampio. Riteniamo infatti che si possa rintracciare nella mancanza di fiducia una delle cause della nascita dell’Onda. Si potrebbe infatti azzardare l’idea che il grido “non ci rappresenta nessuno” oltre ad essere una evidente dichiarazione di intenti e ad esprimere un rifiuto radicale della delega e della deresponsabilizzazione nello spazio pubblico, prenda le mosse da una diffusa, e tutto sommato giustificata, sfiducia nella politica istituzionale che negli ultimi anni si è dimostrata incapace di costruire uno spazio condiviso di cittadinanza e di farsi carico dell’importante ruolo che nominalmente le è assegnato. Questa sfiducia generalizzata, sebbene possa risolversi in una semplice disillusione e in un allontanamento dal discorso politico tout-court a vantaggio di chi nella politica istituzionale si preoccupa solo del proprio interesse privato, nella mobilitazione ha fatto la differenza volgendosi in positivo. Essa è servita da slancio per il coinvolgimento di chi tendenzialmente si estranea dalla politica attiva ed ha incentivato una forma di autolegittimazione alla partecipazione pubblica. Rompendo l’identificazione stretta tra politica istituzionale e Politica con la maiuscola, essa ha aperto uno spazio comune di azione politica. Il movimento è stato essenzialmente questo: la possibilità di prendere parola e quindi di fare politica al di fuori delle istituzioni. In questo modo i nostri spazi, l’università in particolare, sono diventati luoghi della società.

All’interno del movimento è riemersa così la fiducia perduta, come forza costitutiva. In particolare, questo è stato evidente nel microlivello, in quelle attività che hanno visto anche il contributo del SAP. E’ stata la produzione di relazioni di fiducia ad essere uno degli elementi costitutivi del movimento. Il meccanismo che si è innescato è quello della responsabilità politica per un progetto comune, o anche semplicemente per ciò che di sé si è messo in comune.

A partire da queste considerazioni generali, siamo riuscite e riusciti, a rispondere alla nostra domanda iniziale. In effetti, se leaderismo, insufficienza della relazione e agonismo definiscono almeno in parte quello che abbiamo chiamato macrolivello, non è possibile non leggere come diretto allontanamento da tale dimensione il fatto che le donne del nostro gruppo avessero scelto di esercitare il loro protagonismo soprattutto nei momenti “micro”, che avessero scelto cioè di essere altrove. Perché gerarchia, impersonalità e lotta per il potere sono caratteristiche del modo tradizionalmente maschile di fare politica, in cui nessuna di loro si è mai riconosciuta. All’appello di questa politica, le donne preferiscono spesso non rispondere.

E gli uomini? Che ne è degli uomini? Ci siamo accorte e accorti che anche molti maschi del SAP (non tutti, e non del tutto) spesso si sono trovati a disagio nelle situazioni numericamente più “importanti”, mentre non hanno mai faticato a prendere parte, mostrando un forte desiderio, a quel lavoro di cura del movimento di cui abbiamo parlato. Una modalità relazionale del fare politica avvertita come dimensione quasi familiare, non confliggente con le nostre identità storiche da un lato, simboliche dall’altro. Cosa può dirci tutto ciò sulla differenza maschile? La nostra idea è che, soprattutto in epoca di crisi dell’ordine simbolico patriarcale, un ordine che non fa più ordine, l’identità maschile ha la possibilità di decostruirsi, di aprirsi a genealogie e tradizioni diverse da quelle dominanti nella maschilità fin qui simbolicamente e storicamente definita. Il maschile è un campo di forze complesso, la cui risultante non riesce a dar conto di tutti i vettori che la compongono. Relazione, ascolto e incontro con l’altra e l’altro, desiderio, cura: aspetti che non sono del tutto assenti nella maschilità (il che ci permette di evitare di scadere in un dualismo essenzialista uomo-donna), ma che sono stati schiacciati e relegati in secondo piano da una Legge del Padre che obbligava al raziocinio, all’agonismo, al distacco. Il che però non gli ha impedito di sopravvivere, magari solo come traccia. Ora però che quella Legge non fa più giurisprudenza, si schiude un campo di possibilità che va dal rischio di un narcisismo esasperato e psicotico (che già traspare in alcuni casi sintomatici della politica maschile istituzionale) ad una potenziale ridefinizione del maschile in senso relazionale, desiderante, aperto. Riscoprire genealogie e linee di forza rimosse può allora far pendere a nostro favore l’ago della bilancia, e preparare lo spazio per nuove alleanze.

In quest’ottica, nel gruppo che abbiamo costituito, queste alleanze sono state delle affinità trovate all’interno delle nostre relazioni, dei reciproci scambi di esperienze, desideri, disagi. Queste sovrapposizioni sono state possibili a partire da una modalità che escludesse a priori qualsiasi tipo di progettualità consapevole, nella logica della quale attuare dei prestiti e delle contrattazioni tra pratiche prestabilite. Al contrario, come uomini e donne che condividono l’orizzonte dell’ordine patriarcale in crisi, abbiamo osservato l’affiorare di una modalità politica alternativa, imperniata sull’ascolto e sulla fiducia, come un dato naturalmente trovato e condiviso, intrinseco al modello microstrutturale al quale abbiamo partecipato. Questo senso di inadeguatezza ai modi classicamente maschili del fare politica, trasversale ai generi, si è riprodotto in positivo in una nuova accezione della maschilità, che ha visibilmente contestato l’astrattezza concettuale delle formule presenti all’interno delle strutture quantitativamente più visibili e rilevanti del movimento, contrapponendo a queste un nuovo tipo di spazio politico, fondato sullo scambio orizzontale tra soggetti incarnati. Più in particolare, gli uomini, in questa riflessione, non hanno avvertito come estranee alla loro specificità di genere le dinamiche di relazione messe in pratica nel nostro gruppo. A nostro avviso, questo sta ad indicare come, nella proliferazione di disordine che caratterizza l’attuale crisi del patriarcato, le differenze si problematizzano, si risignificano, vengono percorse da interferenze e connessioni inaspettate, da comuni aspettative e speranze, come da analoghe renitenze e resistenze a un ordine presunto neutro, in realtà ideologicamente connotato, storicamente situato. Per questi motivi pensiamo che una logica di genere che preveda due blocchi distinti e separati, e non comunicanti, sia inadeguata in quanto modello insufficiente a dar conto della rimodulazione di una maschilità e di una femminilità nuove, capaci di narrarsi e strutturarsi di fronte alla realtà con maggiore ricchezza, mobilità e aderenza al sé.

Questi nuovi spazi di alleanza e le pratiche politiche che hanno generato, hanno avuto come frutto immediato un’esperienza diversa dell’università, totalmente altra rispetto alle nostre abitudini consolidate. La nostra facoltà è stata occupata nello spazio e nel tempo in modi alternativi che solo a una successiva riflessione ci sono apparsi come veri e propri tentativi di colmare dei vuoti, di fare esperimenti e fare esperienza di aule pareti e corridoi spesso sinonimo di routine e anonimato, ma che in quel momento erano mossi dalla sola necessità di fare. Tutte le nostre attività sono state, sia nel tempo che nello spazio, all’insegna di un’eccedenza che ha fatto sì che stare all’università fosse sempre più slegato dalle semplici attività accademiche, e che noi concepissimo un luogo che potesse essere personalizzato dalla nostra presenza, che potesse essere modellato e rideclinato a seconda dei nostri desideri.

Quel luogo che comunemente è percepito come troppo grigio e austero, in una parola neutro, senza un’impronta, in pochi giorni ha preso vita grazie alla nostra presenza finalmente energica e attiva, una presenza che colorava il panorama di gesti inconsueti.

Ma non solo l’Università si è personalizzata, ha preso vita grazie a noi, ma noi stessi, sia ragazze che ragazzi, ci siamo potuti comprendere in modo diverso in questa convivenza: per le donne, abitare l’università è stato vivere, ancor prima che capire, la consapevolezza che esiste una nuova dimensione del femminile, che esula dalla condizione privata; ora sappiamo che esiste un essere donna anche nella sfera pubblica. Per tutte e tutti è netta la sensazione di aver trovato insieme una dimensione vitale e vissuta dell’essere studenti e studentesse fatta di volti finalmente con una personalità, un carattere e un vissuto da conoscere e ricordare, di piccole invenzioni che prima di dare contenuto alle nostre riflessioni danno forma all’università come la pensiamo e la vogliamo.

L’apertura di questi spazi di vissuto ci ha permesso di creare una realtà condivisa e politica, nel senso più vero che si possa attribuire a questa parola, che non poggia su assunti e principi comuni nati all’interno di una dimensione esclusivamente riflessiva, ma prende anzi le mosse da pratiche concrete che solo un fertile percorso di circolarità tra le nostre riflessioni più teoriche e la nostra esperienza più singolare e più vitale poteva giungere a creare. Ciò che abbiamo prodotto, con i nostri pensieri, con la nostra passione, con i nostri desideri, è stata un’esperienza concreta e tangibile di ciò che per noi ha assunto reale significato all’interno della realtà sociale che viviamo. Attraverso le nostre stesse pratiche di relazione, di scambio reciproco, di messa in circolo delle nostre conoscenze, si è realizzata così, sotto i nostri occhi, quell’idea di sapere come bene comune che le nostre riflessioni avevano prodotto, in una pratica concreta di partecipazione e condivisione che in realtà, silenziosamente ed in modo non cosciente, già incarnava il nostro ideale. Il sapere che i nostri scambi hanno realizzato era fatto di noi, della nostra messa in comune di pensieri e pratiche, in un’economia in cui offrire e ricambiare sono venuti a sostituirsi al produrre e al guadagnare, connotazioni ormai peculiari di una determinata gestione dell’università e del sapere in generale, da cui la nostra riflessione ha preso distanza. Grazie all’intervallo che abbiamo creato tra noi e la realtà universitaria preesistente, siamo riusciti a pensare e creare un’esperienza di sapere alternativo a logiche privatistiche, fatta di relazioni e di scambi, luogo di responsabilità politica per il nostro progetto comune.

Questo però non hai mai significato cancellare le singolarità di ognuno e ognuna di noi, ma anzi ha contribuito a metterle in circolo, valorizzarle e farne la base di una presa di posizione consapevole all’interno dell’orizzonte complessivo del movimento. Riteniamo che la nostra pratica si sia mostrata come un’alternativa al modello emergente (e largamente acclamato) del merito.

Il modello meritocratico, infatti, persiste nel sostenere un sistema in cui il Sapere, inconsciamente o premeditatamente, rimane quasi esclusivamente arroccato e a disposizione di pochi. In questo modello la produzione di sapere tende a ridursi a mero strumento individuale per uno sperato avanzamento di carriera. Un sapere slegato da qualsiasi dinamica di fiducia e di condivisione, ma ripiegato sull’individuo che ne è titolare e custode esclusivo il quale, rapportandosi ad esso in questo modo, lo spoglia della caratteristica primaria di comunanza riproducendo quel modello economico di aziendalizzazione e di enclosures tramite copyright. Un’etica della produzione e non della responsabilità e della partecipazione. Diretta conseguenza è lo svuotarsi di contenuti visibili delle parole “ricerca” e “sapere”. Il sapere diventa oscuro, perdendo nell’immaginario comune quell’accezione di fecondità che le è propria.

In questo senso, la dimensione politica della fiducia si oppone frontalmente al modello meritocratico, il quale accoglie il momento sociale solo in un carattere precipuamente privato. Il merito infatti è sempre individuale e la relazione del sapere con la dimensione del comune viene ridotta ad un rapporto personale tra individui regolato dalla logica dello scambio, riconoscibile nella coppia debito/credito.

Al contrario, la dimensione della fiducia produce responsabilità politica; innescando il circolo virtuoso che sta alla base dell’apertura di uno spazio comune produce soggetti consapevoli. Questo nuovo “io in comune” passa ora per la responsabilità di restituire ciò che riceve dal “tu in comune” in un virtuoso processo di generazione partecipata di sapere, informazione e formazione che circola attraverso un fondamento di pratica politica, per nulla corrispondente a quei processi di aziendalizzazione del sapere. Perciò, dal momento che il “lavoro di cura” presuppone questa reciprocità, bloccare o indirizzare la circolazione di qualunque informazione avrebbe voluto dire allora togliere vita alla mobilitazione, e significherebbe, ora, togliere esistenza attiva a noi stessi, donne e uomini.