diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 5 - 2006

Atti mancati

Ragazze del vecchio e del nuovo secolo

L’associazione «Generi e Generazioni» ha invitato Rossana Rossanda alla Casa Internazionale delle Donne di Roma per discutere il suo libro La ragazza del secolo scorso con Bianca Pomeranzi, Maria Luisa Boccia e Manuela Fraire. Pensando al rapporto  conflittuale tra Rossanda e le femministe mi pare una occasione insolita, avvincente.  Dopo un anno in cui l’autrice ha girato l’Italia e lei e il suo libro sono stati festeggiati ovunque, mi sarei  aspettata una serata che andasse oltre i panegirici, in cui ci fosse una vera discussione e il  riconoscimento all’autrice potesse esprimersi in una lettura riflettuta.

La sala è gremita. Non ci sono solo le femministe di casa, Rossanda ha attirato un pubblico più vasto e soprattutto molto giovane. Bianca Pomeranzi apre la serata  augurandosi un incontro rilassato e meno aspro rispetto ad altri incontri degli anni passati. Tanto più che il femminismo da cui origina la Casa delle Donne è nato solo in quegli anni settanta che alla fine del libro di Rossanda vengono annunciati come “un’altra storia” rispetto a quella raccontata.  Pomeranzi si abbandona a una lettura “piacevole”, osservando talvolta con stupore alcune somiglianze fra le esperienze raccontate dall’autrice e le proprie esperienze vissute più tardi con il femminismo.

Maria Luisa Boccia annuncia una lettura del libro condizionata da una situazione “intensamente relazionale”. Per lei le relazioni personali, affettive, politiche con le relatrici sul podio e con l’autrice stessa contano. La ragazza del secolo scorso non può essere considerato  solo un racconto di vita, un’autobiografia in cui un io parla del proprio vissuto; è un libro di cui si conoscono già la storia e l’autrice, che è stata ed è tutt’ora una persona pubblica. Con la sua memoria Rossanda vuole fare storia, raccontare un punto di vista sul secolo vissuto in prima persona. La decisione di affidarsi al ricordo, di non ricorrere ai documenti è una scelta tutt’altro che comoda, ritiene la Boccia: Rossanda si espone e nello stesso tempo chiama anche le sue lettrici e i suoi lettori a fare i conti con la verità di questa storia, la storia che lei ha vissuto e lei  racconta. Con una formula “ermeneutica”, Boccia definisce questo intreccio tra il vissuto e l’accaduto “il soggettivo dell’oggettività”. Nel libro c’è il tempo e c’è la storia, ma raccontati da Rossanda. Questo intreccio fra storia e soggettività ricorre in tutto il libro:  nella decisione dell’autrice di entrare nella Resistenza e ogni volta di nuovo nella scelta di fare politica, di non tollerare che la storia le passi sopra la testa.

Fare politica per Rossanda ha significato avere a che fare con “l’umana realtà” con la mediazione del partito e assegnando a quest’ultimo “una marcia in più”. Passa da qui l’intreccio fra costruzione politica e libertà singolare. Per Rossanda questa mediazione  salta, con la radiazione dal Pci, nel momento in cui per la generazione successiva di militanti comuniste, come testimonia Boccia stessa, comincia e prosegue poi ancora per tanti anni, quando le cose si complicano però per loro con il femminismo.

Il libro di Rossanda, sostiene Boccia, è segnato più di quanto non dichiari da un’esperienza sessuata. Rossanda restituisce un filo della genealogia femminile, racconta come si formava la coscienza femminile nel primo Novecento. L’essere ragazza nel secolo scorso era segnata dalla scissione tra  personale e politico. Non a caso, spiega Boccia, si avverte nel libro una frattura fra la prima e la seconda parte: nella prima c’è l’infanzia, la famiglia, il corpo; nella seconda c’è la politica, il partito, non c’è più il corpo. “Eravamo emancipate – scrive Rossanda – ma non andava tutto da sé.” Nonostante abbia avvertito che “ci vuole una vita per capire che significa essere donna” l’autrice si è solo “affacciata” sul femminismo che sul rapporto fra personale e politico, conclude Boccia, è nato e  continua a lavorare.

Manuela Fraire radicalizza il discorso di Boccia, esplicitando che senza il femminismo Rossanda non avrebbe potuto scrivere quel libro. Perché è stato proprio il femminismo ad aprire un orizzonte simbolico al cui interno Rossanda ha potuto ripensare e scrivere la propria esperienza. Anzi, qualche “passaggio in ombra”, qualche rapidità nell’andamento del racconto, Fraire se li spiega con una reticenza dell’autrice, una paura della parola troppo esplicita che le femministe della pratica dell’autocoscienza non avrebbero. Lo stare tra donne Rossanda non l’ha conosciuto, nel libro scrive: “ognuna inciampa per conto suo”. Fare la sua strada senza l’ascolto dell’altra donna, nota Fraire, le ha dato forza. Ma  questa forza, generata in solitudine, le femministe, che questa solitudine non la patiscono più, forse non la invidiano. Dopo anni di pensiero e di pratica femminista la relazione fra donne è cambiata. E il rapporto con Rossanda, sottolinea la Fraire, è “passionale ma non di sudditanza”.

Come è stata accolta dall’autrice questa lettura critico-affettuosa, questo invito a confrontarsi con biografie politiche femminili diverse dalla sua? Seppur riconoscendo di sfuggita che il femminismo le ha cambiato “la visione del mondo”, Rossanda ha sentito il bisogno di ribadire di essere “una emancipata fatta e finita”. Fin dal primo impatto negli anni settanta, quando ha vissuto il separatismo delle donne nella redazione de “il manifesto” – non insieme a “loro” bensì con i maschi abbandonati – Rossanda ricorda di essere stata in polemica con la politica della differenza. E oggi conferma questa sua diffidenza nel nome della tradizione illuminista. Ritiene che il femminismo sia fermo, che ha sì sconvolto l’identità maschile e complicato i rapporti fra i sessi, ma al di là di questa destabilizzazione Rossanda non ritiene che abbia creato un “di più”. “Vorrei vedere”, aggiunge in modo provocatorio, “un femminismo che costruisce un altro mondo.”

Con questo appello combattivo la serata si chiude. Scatta un lungo applauso.

 

Questo applauso mi irrita. Forse perché alla Casa delle Donne non è usuale. Qualcosa mi imbarazza. Ho subito la sensazione che sia stata persa un’occasione. Ma che cosa mi aspettavo da quest’incontro? Senz’altro mi incuriosiva la costellazione delle interlocutrici. Una situazione “intensamente relazionale”, come diceva Boccia, ma non solo per le donne sul podio. Ho iniziato a leggere Rossana Rossanda in traduzione tedesca e  a seguire i suoi articoli sul “manifesto” solo quando lei aveva già lasciato la redazione. Nei suoi libri – non soltanto  questo ultimo: la lunga intervista a Mario Moretti sulle Brigate rosse scritta con Carla Mosca, Appuntamenti di fine secolo scritto con Pietro Ingrao – , ha raccontato la storia della sinistra italiana a quelle nate più tardi e magari cresciute altrove. Maria Luisa Boccia, invece, l’ho conosciuta solo in Italia, prima attraverso i suoi libri sul femminismo – L’io in rivolta su Carla Lonzi, La differenza politica – più tardi negli incontri della politica delle donne. Per me sono due voci autorevoli, importanti e non necessariamente in conflitto tra di loro. D’altro canto,  conosco le scintille polemiche di Rossanda contro il femminismo, ricordo qualche replica pungente sul giornale, anche nel libro non mancano le frecciate contro i “saperi detti femminili”. Tuttavia, negli archivi non si trovano soltanto gli scritti aspri e polemici, ci sono anche tracce di un dialogo, qualche intervista più recente, che testimoniano di un’attenzione e un interesse al di là della polemica. Perciò non mi aspettavo che Rossanda si fissasse sull’esperienza del separatismo, né che continuasse a rimproverare alle femministe una “predilezione per l’orizzonte privato” e una “scarsa attrazione per i sogni della ragione”. Sono caratteristiche che vengono attribuite ingiustamente al femminismo della differenza, accuse  così semplificate che non colgono più il pensiero e la pratica delle femministe sedute accanto a lei. Perché questa ricezione storta? Solo un fraintendimento?

I fraintendimenti, diceva un mio maestro di filosofia, che forse non ha mai suscitato tanto entusiasmo né in Rossanda né nelle femministe, sono il mezzo di comunicazione del non-comunicativo. I fraintendimenti parlano per sé, si deve saperli leggere, ci si deve far interrogare da loro. Il fraintendimento, ammesso e non concesso che di questo si tratti tra Rossanda e le sue amiche femministe, chiama in causa il mio rapporto con tutte e due le parti.

Rossanda ammette che ciò che la obbliga alla memoria è una storia finita malamente: la vicenda del comunismo e dei comunisti del Novecento. Ma è la stessa vicenda che perturba anche il suo pubblico, tanto più forse quello più giovane: noi che non abbiamo vissuto la Resistenza e gli anni dell’utopia, noi che abbiamo vissuto il crollo e gli anni del revisionismo. Rossanda ci mette in guardia: non vuole essere un mito, “una proiezioni altrui”. Ma allora perché si limita a  rivendicare e rievocare la scelta comunista, per di più contro quella femminista? Perché tiene un discorso, quasi un comizio, che riscalda facilmente il pubblico (più giovane) ma con il quale s’inchioda – lei stessa e suo malgrado – onorevolmente al passato? La memoria della tradizione comunista rimane viva e tocca il presente soltanto nel rimando alle possibilità non realizzatesi, alle promesse non ancora mantenute.

D’altra parte, il femminismo nasce nella crisi della politica tradizionale e non si ferma alle rivendicazioni emancipative, tanto meno si fissa sul paradigma della mancanza e del lamento. Al contrario, punta sul desiderio, sul non ancora. Con il pensiero della differenza si apre quell’orizzonte simbolico di cui ha parlato Fraire, in cui si muove Rossanda, in cui ci muoviamo noi, le generazioni più giovani: un orizzonte che ci permette di relazionarci differentemente tra di noi, con gli uomini, con la politica, con il mondo

Rossanda lo riconosce quando dichiara  – in un incontro precedente con Lea Melandri a Milano – che senza il femminismo il suo libro l’avrebbe scritto in un modo diverso o forse non l’avrebbe scritto affatto. Ma è un riconoscimento nascosto nella struttura del libro, nella sua scrittura. Invece penso che andrebbe reso esplicito nell’ incontro con il pubblico, soprattutto con quello più giovane. Perché quell’orizzonte si apre non soltanto nel pensare differentemente, ma piuttosto nell’agire differentemente, nel porsi differentemente nelle relazioni. Il che vale non solo per lei ma anche per il suo pubblico. È facile vincere la malinconia per una vicenda andata male con l’ammirazione per Rossanda, compiacersi per la bellezza del suo libro, farne appunto un mito. È difficile, invece, confrontarsi con la tradizione comunista, con la storia che ci racconta Rossanda, all’altezza del presente. Com’è difficile altresì confrontarsi all’altezza del presente con la tradizione femminista. La mitizzazione è sempre in agguato.

La delusione per la serata romana non si lascia quindi scaricare né su Rossanda, né sulle “femministe storiche” che la interrogavano. Tocca piuttosto a noi, le donne più giovani, venute dopo, di impedire alle nostre coetanee e non solo di fare della ragazza del secolo scorso un mito. Tocca anche a noi e non solo alle femministe degli anni settanta chiamare Rossanda a riflettere su ciò che è andato in frantumi, ciò che va condannato e ciò che si salva. Non c’è tradizione comunista senza “l’altra storia” su cui il libro di Rossanda si arresta.