diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo edizione 18 - 2022

Grande Seminario 2021 - L'irrinunciabile

Quando il desiderio si trasforma in bisogno radicale

Quasi come un enorme “esperimento in vivo”, abbiamo vissuto una pandemia che con le sue ondate di improvvisi cambiamenti ci ha riportato alle radici della vita, lì dove i viventi, umani e non umani, fanno esperienza dell’essenziale, di bisogni vitali ineludibili.

Ci ha riportato alle radici della vita anche perché ha svelato il carattere strutturale della crisi, non solo sanitaria, ma di un intero sistema di civiltà in molte aree del nostro pianeta, compresa la nostra. Un sistema falsamente nominato come “normalità”, che bene o male ci teneva in piedi ma in realtà era, è, nemico delle ragioni della vita e di una convivenza giusta.  Ci teneva in piedi, sì, ma come la terza gamba di cui nel suo itinerario mistico si disfa la protagonista del racconto di Clarice Lispector La passione secondo G.H[1]. Se ne disfa, attraversando la sofferenza della disgregazione e con una gioia difficile, per poter arrivare a togliere quella maschera umana che la allontana dall’essere e per sollevarsi dalla fatica di reggere un mondo non reale che non sopportava più: una rinuncia che è una rivelazione. La rivelazione di aver perso ciò di cui non aveva bisogno e che anzi le impediva di camminare. Dovremmo poterlo fare anche noi di fronte alle distorsioni della realtà pre-pandemia ormai venute alla luce, e a quelle che stanno oggi ritornando sotto forma di violenza, egoismi individuali, nazionali, di gruppi. Più donne che uomini, più giovani che adulti lo stanno già facendo a partire dalla presa di coscienza e di parola su ciò che è irrinunciabile e vitale per un cambio di civiltà.

Nelle crepe prodotte dalla pandemia il Seminario di quest’anno ci invita a vedere delle aperture trasformative, e nel tempo sospeso che ci tocca vivere la possibilità di fare i conti con noi stesse/i, di reinventarci, anche scoprendo di avere bisogni inediti, singolari e collettivi. Invita perciò a scorgere nell’enormità di ciò che è capitato anche “una grande occasione”, come hanno titolato l’ultimo Quaderno di Via Dogana le amiche della Libreria delle donne di Milano[2]. Con Il seminario ci siamo date il compito e la scommessa di interrogare con verità, soggettivamente e in relazione tra noi, i bisogni essenziali, quell’irrinunciabile che ciascuna avverte e può mettere nello scambio con altre, altri, facendone leva politica di trasformazione di sé e del mondo.

Durante i confronti in Diotima, in preparazione del Seminario, molto abbiamo discusso di bisogni – autentici o meno -, di desiderio e dei loro rapporti. Per parte mia ho parlato del desiderio – tratto singolare essenziale dell’umano e per sua natura mobile e metamorfico (come ha precisato Wanda Tommasi nella sua relazione -, nel suo trasformarsi in bisogno radicale senza tuttavia sparire, al contrario, innervando il bisogno con la sua energia propulsiva; e ne ho parlato pensando a precisi passaggi della mia vita e a quanto da questa trasformazione ho tratto guadagni impensati. E’ stato un azzardo? Non lo so.

   Per cominciare faccio qualche passo indietro nel tempo, lungo il mio itinerario politico-esistenziale, per ripercorrere insieme con voi quel passaggio trasformativo dal desiderio al bisogno radicale che mi è giunto improvvisamente alla coscienza durante una delle ultime discussioni in Diotima e ho poi approfondito in vista della relazione di oggi. Ho fatto una sorta di autoanalisi, che mi ha consentito di attualizzare al presente i termini della trasformazione. Ve lo propongo perciò per il suo significato politico, non biografico.

Mi riferisco ad anni lontani, quando ero all’inizio del mio lavoro all’università e ancora non esisteva Diotima. Ricordo la mia insoddisfazione di allora nonostante i risultati nello studio e nel lavoro, e ora posso riconoscere che quella sofferenza proveniva dalla violenza simbolica fallica e patriarcale di cui nulla a quel tempo conoscevo, non avendo ancora un nome per me, anche se ne intuivo la presenza. Ricordo l’inquietudine che mi accompagnava, come fossi alla ricerca di qualcosa che non sapevo ma che desideravo, e che andava ben all’aldilà di quella quota di emancipazione che ero riuscita faticosamente a conquistarmi. Che cosa cercavo? La libertà e il “piacere di essere donna”, per dirlo con le parole di Milagros Rivera, insieme a una politica che non prescindesse dalla mia soggettività, dal mio sesso, dalle mie simili, dal mio amore del mondo. L’incontro quasi casuale con Luisa Muraro e Chiara Zamboni all’inizio degli anni ‘80 è stato determinante per risvegliare il mio desiderio e ha aperto la strada di una scoperta, poi proseguita e sempre più affinata in Diotima, verso quello che per me è divenuto l’irrinunciabile, cogente come lo è un bisogno radicale. Un bisogno radicale che non ho perso di vista, e, seguendo e ascoltando il quale, il cammino politico della differenza intrapreso con altre, grazie a continui rilanci e scambi generativi, ha cambiato profondamente il paesaggio e il senso della mia vita.

Parlo ora di un’esperienza particolare, concreta e circoscritta, da cui ho ricavato la misura della dinamica e dei frutti imprevisti che può dare la trasformazione del desiderio in bisogno irrinunciabile e da lì in capacità di azione politica. L’esperienza è stata quella di accompagnare una persona a me molto vicina nel suo lungo e difficile percorso di malattia e di guarigione in anni ormai lontani e in luogo lontano da casa. Quando tutto sembrava perduto, a seguito di una prognosi infausta e definitiva del medico curante, ho trovato la forza di rivolgermi a un altro medico di cui sentivo di potermi fidare, il consulto con il quale avevo ripetutamente chiesto pur essendomi stato negato fin dall’inizio. Grazie al sostegno autorizzante, pur a distanza, di amiche di cui mi fidavo, mi sono autorizzata a compiere questo passo che poi si è rivelato decisivo per la guarigione. Che cosa mi ha dato la forza e la lucidità di decidere da sola nel giro di qualche ora, superando un’impasse che rischiava di paralizzare per sempre, letteralmente e simbolicamente? E la forza e la lucidità di trasgredire regole e protocolli della struttura ospedaliera ospitante, correndo il rischio dell’ignoto?

Mi spingeva la consapevolezza che potevo essere solo io a correre questo rischio e assumere l’iniziativa, a «dire ciò che si deve dire e fare ciò che va fatto», riprendendo le parole di Stefania Tarantino a commento del pensiero di Françoise Duroux nel libro Il paradigma perturbante della differenza sessuale curato da lei e da Chiara Zamboni [3]. Ci sono circostanze nella vita in cui non si può delegare ad altri, ma va fatto in prima persona ciò che deve essere fatto, detto ciò che deve essere detto, anche confliggendo, per modificare situazioni non accettabili. E questo ha un valore politico, in particolare se, come in questo caso, modifica le relazioni che abbiamo con il mondo ed entra nello scambio simbolico aprendo prospettive di cambiamento anche per altri. Abbiamo esempi contemporanei in questo senso, alcuni già ricordati: da Mimmo Lucano a Carola Rackete alla giovane anestesista che a Codogno per prima ha diagnosticato il virus seguendo la sua intuizione e forzando le regole mediche; in un’intervista lei ha poi commentato: «L’obbedienza alle regole mediche è tra le cause che ha permesso a questo virus di girare indisturbato per settimane».

 Ritorno al mio racconto: a deviare dalle strade previste e consentite per cercare direzioni più vitali non mi hanno spinto la presunzione di padronanza e di controllo, la buona volontà, il dover essere o la fantasia di onnipotenza, ma un bisogno profondo e meno definibile, eppure irrinunciabile, di felicità e di senso, orientato da un sentimento di philia e di giustezza [4]. Un bisogno sbilanciante che mi ha spinto fuori dal mio ego ferito e in cerca di risarcimento, e fuori dal già previsto delle convenzioni sociali. Un’esposizione rischiosa ma sostenuta dal mio essere presente e ricettiva nella situazione, con tutti i sensi aperti, corpo, anima e pensiero, e radicata nella necessità contestuale e nelle sue contraddizioni, per favorire il riaprirsi del reale e l’accadere di altro. Mi sono trovata in una sorta di dimensione impersonale più grande di me, non controllabile razionalmente, a cui mi sono affidata nella resa totale e nel silenzio interiore, perché lì sentivo essere in gioco il senso della vita e la vita stessa, a cui forse potevo offrire una mediazione efficace. E se lo slancio desiderante l’ha dato l’angoscia[5], la mia verità soggettiva ha trasformato in bisogno radicale questo slancio, e da qui, senza poterla prevedere o pianificare, in azione appropriata.

La mia verità soggettiva era ben distante dalle evidenze scientifiche su cui il primo curante aveva basato la sua prognosi, presumendo di poter ignorare i segnali della sofferenza dell’anima del suo assistito e fermarsi a quelli del corpo. Abbarbicato a un dualismo nefasto, che sappiamo essere di matrice maschile-patriarcale, e bloccato nella capacità di sentire e di vedere in profondità, di esporsi al rischio del dubbio lasciando che altro potesse avvenire, incapace di pensare con l’altro, non su o al posto dell’altro, quel medico aveva rifiutato di interrogare il non ancora decifrabile, forse perché eccedente i paradigmi nosologici consueti, e si era irrigidito difensivamente nella sua posizione di onnipotenza davanti alla visione differente che gli proponevo insieme alle mie richieste di consulto.  La presunzione di possedere i segreti tecno-medici, la pulsione al prestigio erano andate di pari passo con il controllo volontaristico sul corpo e la mente del malato, mettendone fuori campo la verità umana, soggettiva.  Un gioco di potere in cui tutti avremmo perso.

Al contrario, il secondo curante, quello che mi ero presa la libertà di consultare sulla spinta dell’irrinunciabile, non era incalzato dalla fretta ospedaliera, dall’imperativo dell’efficienza, dalla gerarchia, e non aveva bisogno di difendere un prestigio professionale. Poteva, come suggerisce Simone Weil[6] a proposito dell’attenzione vuota(vuota dai moventi dell’io), lasciare la mente e l’anima non invase dai saperi acquisiti, lasciarle sensibili e permeabili alle intuizioni che io gli proponevo e di cui avevo fiducia per averle maturate nell’esperienza trasformativa di una vicinanza di sentire al malato e per essere stata alla necessità di quel presente che sembrava eterno e alle sue contraddizioni. E soprattutto quel medico poteva lasciare mente e anima permeabili a quanto la storia del paziente e la relazione con lui qui e ora gli andavano suggerendo, e forse curiose di un sapere nuovo che da quella relazione unica e singolare sarebbe scaturito. Poteva sentire e vedere, con benevolenza. E infine esporsi al rischio e alla responsabilità di formulare un giudizio, di dare una misura, di liberare dai dubbi, senza presumere di prevedere tutto.

Non mi ci è voluto molto tempo per accorgermi di che cosa significa l’esercizio del potere e, al contrario, la pratica dell’autorità in campo medico (e non solo). Restare in una passività vigile e attenta, in attesa di uno scarto, di un varco, che il nostro stesso bisogno di eccedere l’ordine dato può aprire, offre una condizione d’essere capace di ospitare l’imprevisto e un nuovo inizio. Quando l’esperienza vivente viene lasciata essere con intensità fino a toccare la fragilità e i limiti del corpo che la incarna, fino a sentire il corpo sofferente come un’alterità che va compresa e accettata, allora può avvenire quella trasmutazione di sé che consente di sapere tutto quello che c’è da sapere, e di fare tutto quello che c’è da fare in una data circostanza, di trovare il gesto e la parola appropriati al momento giusto, andando oltre le verità scientifiche esperte e le misure socialmente disponibili. E’ un prendere misura a partire dalla relazione viva, intelligente e amorosa con altre, altri e con la realtà, una misura che riporta in capo a sé le condizioni e la responsabilità di agire liberamente, di dare inizio ad altro, ma senza pretese di autosufficienza.

Ne ho ricavato un sapere politico che ha rilanciato quella ricchezza di pensiero e di pratiche che già avevo maturato nel femminismo della differenza e che mi aveva sostenuto nel mio azzardo: in primo luogo la pratica del fidarsi dell’esperienza e del proprio sentire per non perdere la connessione con la vita e poterla anche modificare a nostra misura, e poi l’agire con il massimo dell’autorità e il minimo di potere, per riprendere una felice espressione di Vita Cosentino.

Un sapere che oggi ci può orientare in quel ripensamento del rapporto con la malattia, con la medicina e con i sistemi sanitari, per non parlare del resto, a cui ci ha costretto la pandemia, un ripensamento che porti a una nuova nascita, non alla ripetizione.

 In questo ci tornano utili le elaborazioni di comunità di scienziate come Ipazia, già presente nel lontano 1992 con il libro collettaneo Autorità scientifica, autorità femminile[7] e poi con un’altra pubblicazione, Due per sapere, due per guarire[8], orientata a modificare il modo di pensare la medicina e a renderla più rigorosa perché più attenta alla singolarità dei soggetti, ai contesti, e alle relazioni tra soggetti che incarnano i percorsi terapeutici. O la comunità di mediche, operatrici della cura, pazienti, Metis, impegnata a ripensare in un’ottica relazionale e narrativa la ricerca, la clinica e la terapia, non limitandosi a spostarne il centro dal medico al paziente (patient centered care), come oggi si dice (anche se spesso non si fa),  ma ponendo invece al centro la relazione e ripensando alla radice i protocolli, come propone l’ultimo libro Corpi sensibili nelle relazioni di cura[9] del 2019.  Studiose e operatrici che hanno fatto leva sul partire da sé e sul primato delle relazioni, per un di più di scienza e di efficacia terapeutica. Una scienza sensibile all’umano, relativa e relazionale, che prende le distanze dal pensare e parlare in nome dell’oggettività da una sorta di luogo neutro, ed è consapevole della sua non assolutezza. Del resto, le esperienze migliori della lotta alla pandemia, spesso incarnate da donne, questo ci hanno insegnato, e non vogliamo ritornare a prima. Per esempio Ilaria Capua e Antonella Viola, scienziate di cui mi fido, sono molto attente a non cadere in verità assolute, e riconoscono spesso di non sapere, pur continuando a ricercare e a dare messaggi di fiducia. Prendono le distanze dai recinti iperspecialistici, per previlegiare invece l’idea di One Health, una sola salute, vedendo nella pandemia una complessità affrontabile solo con approcci complessi e interepistemici e la salute umana strettamente connessa a quella degli altri esseri viventi e dell’ambiente. E con autorità denunciano le distorsioni comunicative-mediatiche, vengano esse dall’alto o dal basso, come amplificatrici della paura e in grado di influenzare con messaggi ambigui l’evoluzione della pandemia. E una medica e scienziata, Sandra Morano, ha curato quest’anno un libro di cui è coautrice con altre, La sanità che vogliamo. Le cure orientate dalle donne,[10]  in cui, oltre a mostrare preoccupazione per le ambivalenze della politica istituzionale e la scarsa adeguatezza della catena decisionale del SSN in occasione della pandemia, da quest’ultima, la pandemia, ha tratto lo slancio per proporre un necessario cambio di rotta, a misura dei bisogni di salute e di benessere di tutte e tutti. Registrando la centralità delle donne sull’intero pianeta nel rispondere all’emergenza, e assumendo consapevolmente la differenza femminile come perno irrinunciabile di una diversa visione delle cose, con altre ha il coraggio e la lungimiranza di pensare a un governo femminile della Sanità. Una Sanità da decenni mortificata dall’arrogante modello maschile aziendalistico e neoliberista di governance, che pretende di governare con logiche di potere, con la formalizzazione dei comportamenti e delle scelte in regole e protocolli, con l’ iperspecializzazione e la parcellizzazione delle attività, e che pretende di misurare con astratti parametri finanziari un lavoro che è per sua natura inestimabile, perdendo in tal modo «il senso dell’umanità comune» e «ignorando lo slancio intrinseco della vita»[11]. Secondo Morano, e io sono d’accordo con lei, se ci poniamo in una prospettiva politica di  governo femminile della Sanità non c’è niente da rivendicare, ma molto invece da riconoscere, rilanciare e far valere: ossia da un lato prendere atto della superiorità numerica delle donne che curano, e del loro movente che è per lo più l’amore del mondo e l’importanza delle relazioni, dall’altro rilanciare e far valere la ricchezza e l’originalità della loro sapienza ed esperienza, quel saper esserci anche quando il gioco si fa difficile o i conti non tornano che è segno del desiderio e dell’autorità femminili. Anche da qui inizia una nuova civiltà.

Quanto ai bisogni, in questi giorni ho ripreso in mano alcuni scritti di Ivan Illich, conosciuto per il suo pensiero tranchant, quasi eretico, ma ricco di spunti fecondi, e per la sua visione di un passaggio, necessario per un nuovo ordine socio-simbolico, dalla produttività alla convivialità. Nel suo scritto Per una storia dei bisogni [12] Illich critica il mito dello sviluppo sociale e della crescita economica ad alta intensità di mercato, esploso nella seconda metà del secolo scorso. Uno sviluppo che si pretende imperniato sulla imprescindibilità degli esperti, dei professionisti, per la definizione più completa e oggettiva dei bisogni della gente e per la loro soddisfazione. Una imprenscindibilità che mortifica la fiducia delle persone nelle proprie capacità autonome e nell’aiuto del prossimo: risorse, queste, impreviste e sempre sorprendenti. Nel frattempo, e non a caso, il vicino soccorrevole è diventato una specie in via di estinzione: è una specie che abbiamo visto rivivere durante il lockdown, e ora?

In questa che lui chiama “l’era delle professioni menomanti” Illich mette in guardia dal rischio che i bisogni radicali, che richiedono anche il coraggio fiducioso di lottare insieme ad altri, vengano surrogati dai bisogni indotti, i quali, oltre a rendere effimero il piacere, enfatizzano l’individuo nella veste di consumatore di beni e di prestazioni, mortificando le relazioni, insieme al gusto delle capacità creative personali e comunitarie di agire e di vivere. E porta come esempio di perversione del binomio merce-soddisfazione il racconto di una partoriente al suo terzo figlio. Scrive: «Istruita dall’esperienza dei primi due parti, affrontava il terzo con tutta serenità: sapeva “cosa succede” e conosceva le proprie reazioni. Entrata in ospedale, sentendo arrivare il bambino chiamò l’infermiera. Ma questa, anziché aiutarla, afferrò un panno sterilizzato e si mise a premere la testa del bambino cercando di farlo ‘rientrare’, e intanto ordinava alla madre di smetterla di spingere perché “il dottor Levy non è ancora arrivato”»[13]. Sappiamo che oggi esistono tecniche più sofisticate, ma non meno disabilitanti, per modulare il parto sui tempi dei professionisti e della struttura ospedaliera, e intanto non siamo più così sicuri che una partoriente sappia cosa succede. Perché anche le nostre capacità di sentire e di fare dell’esperienza fonte di pensiero e di conoscenza sono in declino e rischiano di perdere il contatto con il corpo (per non parlare dell’inconscio) e con la realtà. Ce lo ricorda Barbara Duden, di cui Illich è stato compagno, quando, nel bel contributo L’epoca delle schizo-percezione ripercorre la storia dei sensi e del corpo vissuto, e ricorda come le donne, nei diari dei medici di inizio Settecento, raccontano con precisione e in modo concreto i disturbi, il dolore, con una percezione di sé pre-cartesiana, fluida e umorale, a partire da sensazioni tattili, olfattive ecc. Oggi, come segnala Duden, la razionalità calcolante sta riducendo gli esseri umani a personificazione dei modelli di pensiero e di comportamento della scienza amministrativa, del management, del calcolo delle probabilità: personificazione di categorie astratte che pretendono di interpretare e di sostituire l’esperienza personale fin dentro il corpo, la carne, le pieghe più nascoste delle emozioni e perfino della percezione sensoriale: «Depersonificazione senza precedenti»[14]. E la riduzione della singolarità soggettiva e relazionale ad algoritmi replicabili e insensibili al contesto, alla storia degli individui, ai loro tratti peculiari, va di pari passo con l’obbligo del management del sé e passa attraverso l’acquisizione e l'”autogestione” di sempre nuove conoscenzee abilità proposte dall’esterno, che estromettono il sapere derivante dall’esperienza soggettiva e incrementano la “fatica di essere se stessi”[15]. Per questo è tanto importante reimparare a sentire, fare del sentire la via d’accesso all’esperienza e all’orientamento simbolico in quella implicazione materiale e inconscia che abbiamo con il mondo, come propone Chiara Zamboni nel suo libro Sentire e scrivere la natura.[16]

Concludo ricordando, con Illich, che le persone sono pronte a vivere come “carenza” ciò che l’esperto definisce come bisogno[17]. E ancora: la crescente parcellizzazione dei bisogni, con il corrispondente dedalo di interventi e di servizi assistenziali, non solo moltiplica le categorie dei bisognosi, ma rende sempre più difficile comporre i bisogni in un quadro significativo, entro il quale possa stagliarsi e prendere forma l’irrinunciabile. E poiché nelle nostre società a un bisogno certificato dagli esperti di turno corrisponde un diritto, pur se spesso disatteso, il primato del diritto a vedersi riconosciuto un bisogno riduce a un fragile lusso la libertà di imparare, di curarsi, di agire, di desiderare, di vivere in modo creativo confidando nelle relazioni di fiducia che ci aprono al mondo e nella possibilità di condividere con altre/i i beni da esse generati.


[1] Clarice Lispector, La passione secondo G.H., Milano, Feltrinelli 1991.

[2] Non sembra ma è una grande occasione, a cura di Vita Cosentino e Marina Santini, Libreria delle donne, Milano 2021.

[3] Françoise Duroux, Il paradigma perturbante della differenza sessuale, a cura di Stefania Tarantino e Chiara Zamboni, Mimesis, Milano-Udine 2021, p. 63.

[4] Parlo di giustezza e non di giustizia (pur senza escludere quest’ultima) nel senso dato da Chiara Zamboni all’azione perfetta nel ciclo di incontri al Centro Virginia Woolf gruppo B, dal titolo L’azione perfetta, Roma 1993.

[5] Cfr. la poesia 135 di Emily Dickinson: «L’acqua, la insegna la sete […] Lo slancio – l’angoscia.»

[6] Simone Weil, Riflessione sull’utilità degli studi scolastici al fine dell’amore di Dio, in Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1972, p. 79.

[7] Ipazia, Autorità scientifica, autorità femminile, Editori Riuniti, Roma 1992.

[8] Id., Due per sapere, due per guarire, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne, Milano 1997.

[9] Metis, Corpi sensibili nelle relazioni di cura, Quaderni di Metis 2019.

[10] Sandra Morano, La sanità che vogliamo. Le cure orientate dalle donne, Moretti & Vitali, Bergamo 2021.

[11] Pascale Molinier, Care: prendersi cura, Moretti & Vitali, Bergamo 2019, p.71.

[12] Ivan Illich, Per una storia dei bisogni,ed. it. Mondadori, Milano 1981.

[13] Ivi, p. 11.

[14] Barbara Duden, L’epoca della schizo-percezione, in A. Buttarelli, F. Giardini (a cura di), Il pensiero dell’esperienza, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, p. 127.

[15] Alain Ehrenberg, La fatica di essere se stessi, Einaudi, Torino 1999.

[16] Chiara Zamboni, Sentire e scrivere la natura, Mimesis, Milano-Udine 2020.

[17] Un esempio significativo viene dal mondo della scuola e riguarda i Bisogni Educativi Speciali, conosciuti con l’acronimo BES. In questa categoria ricadono bambini e alunni certificati da specialisti come bisognosi di attenzioni particolari (protocolli compensativi e dispensativi). Sono in aumento i casi diagnosticati con la sindrome ADHD (deficit di attenzione e iperattività) e trattati anche con farmaci. Chi un tempo veniva considerato turbolento o monello, oggi viene etichettato come iperattivo, portatore di un disturbo. Si veda Alain Goussot, I rischi della medicalizzazione nella scuola, in “Educazione Democratica”, 9, 2015.