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Taglio del presente

Quale desiderio

 Sbalordita dalle immagini trasmesse dal carcere di Abu Ghraib inizialmente non ho potuto fare altro che leggere più articoli e commenti possibili, coprire la mia perplessità con le interpretazioni altrui. Nello stesso tempo sentivo il bisogno di ritornare alle immagini e alle prime sensazioni con cui le ho recepite.  Colgo quindi l’invito di Ida a indugiare sulla foto che mostra la soldatessa americana con il prigioniero iracheno al guinzaglio. Perché se – come scrive Ida – quella foto chiama in causa le femministe del secondo Novecento, essa sollecita la riflessione anche nelle donne che – come me – stanno imparando da queste femministe che cosa vuol dire stare al presente e significare la differenza.

Provo a riflettere su quella terribile immagine che per giorni appare ovunque: lo sguardo imbarazzato non riesce a fermarsi sul prigioniero nudo, rannicchiato a terra, tenuto come un cane al guinzaglio; esso fissa piuttosto la giovane donna, Lynndie England. Lei sta in mezzo ad altri soldati maschi sul corridoio del carcere, indossa pantaloni militari e una camicia semplice, di fronte al obiettivo della macchina fotografica posa con un sorriso sguaiato, un ghigno insopportabilmente allegro, una smorfia sovraeccitata.

Guardando questa donna mi tornano in mente le ragazze viste a Berlino in occasione del Primo Maggio, cioè solo pochi giorni prima che l’immagine da Abu Ghraib sia stata resa pubblica. Come ogni anno la capitale tedesca era assediata da migliaia di agenti delle forze dell’ordine. Il parco in cui si celebrava la notte del Primo Maggio con un concerto punk è stato circondato da poliziotti e chiunque voleva passare ha dovuto farsi perquisire. Osservando la scena da vicino ho notato con spavento la complicità tra le forze dell’ordine in tenuta da combattimento e tante giovane spettatrici vestite di moda complementare: pantaloni militari e camicie di color oliva. Le due parti si sono sorrisi, hanno scherzato, sembrava che trovino piacere nel toccare e farsi toccare. Attrezzati con i manganelli e le manette gli uni, disarmati gli altri, tuttavia,  non è stato difficile prevedere che al calare delle tenebre questo gioco sado-masochista diventasse serio.

Lo scontro tra la polizia e i manifestanti contrassegna il Primo Maggio berlinese da tanti anni, è un rituale, una battaglia istituzionalizzata tra avversari simmetrici: da un lato gli uomini del potere statale, dall’altro i ragazzi del contropotere. Questa virilizzazione della piazza politica mi ha sempre reso difficile posizionarmi nella protesta. Il soggetto che si butta coraggiosamente nel getto d’acqua dell’idrante, sfidando eroicamente l’apparato sempre più militarizzato delle forze dell’ordine, è il soggetto maschile con cui condivido la voglia di manifestare il dissenso, il desiderio di portare in strada il bisogno di libertà; ma con i cui modi di esprimersi non riesco a identificarmi.

Vedere le ragazze indossare i colori militari e vederle disposte a mettersi in gioco secondo le regole vigenti di un ordine del tutto maschile, mi ha reso triste e perplessa: la mancanza di un passaggio che consentirebbe alle donne cresciute nel segno della libertà femminile di manifestare la voglia di esserci nel segno della differenza sessuale è stata troppo evidente. Ed è stata altrettanto evidente che le giovani donne non si lasciano bloccare da un sentimento di estraneità, che non prendono in considerazione un abbandono della piazza, che non contemplano il vantaggio dell’assenza.

Confrontata con le immagini da Abu Ghraib ciò che nell’immediato mi ha spaventato di più era l’assomiglianza tra la giovane soldatessa e le ragazze incontrate a Berlino. Sono i danni collaterali dell’uguaglianza, ipotizza Ida, gli effetti dell’emancipazione femminile declinata secondo la grammatica dei diritti, delle pari opportunità. Nel processo di omologazione le donne perdono il gusto e la capacità di significare la differenza sessuale, accettano infine la sfida fallica: torturano come e peggio del maschio.

Come la scena osservata a Berlino così anche l’immagine fotografata a Abu Ghraib mi parla della sessualità, della sessuazione e delle relazioni tra i sessi nel presente occidentale.

Sul corridoio del carcere iracheno vediamo Lynndie England, l’unica donna tra altri soldati maschi, ma ancorché lei è la donna focalizzata la messa in scena parla anche dei suoi commilitoni. La foto dimostra non soltanto l’incubo del patriarcato islamico bensì anche l’incubo della virilità occidentale. Le fantasie sessuali che i prigionieri iracheni vengono costretti a presentare sono quelli che la disciplina militare cerca di negare o di reprimere. Le umiliazioni che devono subire gli uomini nemici sono quelli che gli uomini intorno a Lynndie England temono di più: l’esibizione del corpo non allenato, sportivo, muscoloso, ma semplicemente nudo; l’omosessualità latente non più nascosta o ben codificata, ma svelata; e infine la presenza della donna forte, libera di manifestare il proprio desiderio, non più disposta a sottomettersi. C’è da temere che queste foto non turbano l’immaginario maschilista occidentale più di tanto e che, al contrario, lo rafforzano pure: rappresentatosi la forza diabolica della donna e i lati oscuri e rimossi della propria sessualità il maschio occidentale s’assicura del suo potere non solo sul nemico e sulla donna ma anche sulla propria paura.

Ma che ne è della donna? Già a Berlino mi sono chiesta qual è il desiderio e qual è il piacere che spinge le ragazze a indossare i colori militari e a entrare in un gioco perverso di seduzione del proprio antagonista. Ora, di fronte alle immagini di Abu Ghraib la domanda si pone con più insistenza. Qual è il desiderio e qual è il piacere che spinge Lynndie England ad adattarsi al sistema più maschilista e a seguire la sua logica della sopraffazione e della umiliazione sadica?

Questa immagine parla dei dispositivi in cui la società occidentale organizza la sessualità. Da un lato ci sono i discorsi moralistici e sessofobici che nella versione neo-conservatrice predicano il modello della famiglia tradizionale, inchiodando la donna un’altra volta al ruolo della madre e che nella versione liberale non hanno altro da proporre che un po’ di tolleranza affinché il desiderio deviante si lascia ridurre e integrare nel modello vigente. Dall’altro ci sono i discorsi esibizionistici o nella versione violenta della pornografia e del cinema splatter o nella versione estetizzante della pubblicità e dello spettacolo. Stretto tra questi due dispositivi complementari il desiderio che eccede si scatena in un’aggressività distruttiva oppure la trasgressione si riduce a una moda, si limita a un divertimento per sabato sera, dove il desiderio più spesso rimane camuffato, il piacere irrealizzato.

Autocriticamente Ida ammette che il discorso femminista italiano degli ultimi anni sia sorvolato sulla sessualità. Oltreoceano il discorso femminista sulla sessualità sembra, invece, essersi ritirato nell’accademia, facendo della voglia di un piacere che circola una pratica discorsiva anziché corporea. Ma la felicità e il godimento non si esauriscono in un atto linguistico, una mascherata intelligibile, chiedono piuttosto pratiche di relazione e di incontro, il coraggio di rischiare un contatto reale.