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per amore del mondo Numero 8 - 2009

Altri Mondi

Persepolis: mediazione di comunicazione politica

L’inspiegabile Iran, agli occhi di noi occidentali, che per quanto ci sforziamo rimane inesorabilmente incommensurabile, ci si svela attraverso la matita ed il coraggio di una giovane iraniana esule in Francia. Le percezione di comprensione e di universalità delle problematiche iraniane, nonostante una naturale empatia e indignazione soprattutto per il vissuto femminile, è solo apparente, essendo noi sprovvisti, e fatichiamo a rendercene conto, delle chiavi di lettura culturali e sociali per capire non solo i dilemmi umani, ma le basi sulle quali si fonda un’intera cinematografia “oltre Golfo Persico”.

 

Attraverso una mediazione culturale, che, non dobbiamo dimenticare, lei stessa ha operato su di sé, Marjane Satrapi adatta il suo sguardo e accompagna il nostro. L’esule si fa interprete per noi, ed è questa la potenza del racconto di Persepolis ed il motivo del suo successo in Europa e oltre.

 

E’ infatti proprio in Francia, da lei definita sua seconda patria, che nasce nell’autrice il bisogno di liberazione e superamento che la porta a scrivere il lungo fumetto autobiografico. Dopo scelte, guerre, ritorni e abbandoni, Marjane trova il suo punto fermo, una città ed un uomo, e decide di fare i conti con il proprio vissuto, la propria interiorità e l’immaginario della casa natale.

La sua storia, espressa attraverso le chine del fumetto, successo editoriale internazionale (qui in Italia riedito da Sperling & Kupfer), coerentemente riadattata assieme al compagno Vincent Paronnaud nel lungometraggio animato, percorre la Rivoluzione Islamica del ’79, la lunga guerra con l’Iraq, la fuga da Teheran in Austria, ed il ritorno in patria in un clima di repressione e privazioni dovuti al rigido governo teocratico. Una lunga saga familiare, ma anche romanzo di formazione e testimonianza politica, costruiti sull’intreccio del proprio presente, dell’infanzia e dei racconti dei propri cari.

 

Ben costruito, schietto, a volte crudo (ma non privo di punte d’ironia), Persepolis ha il pregio della leggerezza e dell’immediatezza nella sua semplicità. Ma soprattutto di essere un inedito e acuto sguardo interno sugli avvenimenti politici iraniani di quegli anni, nitido e solido, affascinante ed espressivo, come i tratti dei suoi personaggi, addolciti e smussati della rigidità dei disegni originali e animati abilmente in un gioco di ombre cinesi e di silhouettes. Gli scenari di Vienna, di Teheran e dei racconti di viaggio dello zio toccano a volte la poesia, recuperando immaginari ed icone della cultura mediorientale. Ma anche occidentale, come quando, nell’orrore della visione della morte, il viso d’infanzia della bimba si tramuta sfumando nella maschera dell’urlo di Munch.

L’uso del bianco e nero è magistrale e ricorda a tratti le lunghe ombre dell’espressionismo tedesco a cui lei si è esplicitamente ispirata, tanto che il chador, il velo ampio e scuro che le donne sono costrette a portare, è stato paragonato ad un vero e proprio buco nero sia visivo che concettuale.

E sempre di occidente si parla, quando la Satrapi dichiara d’essersi ispirata oltre che ai maestri tedeschi, anche al neorealismo italiano, forse proprio per lo stesso spirito e sopravvissuto post bellico che li caratterizza a li avvicina alla sua opera. L’autrice fa un passo indietro rispetto il proprio paese per poterne scrivere e farcelo comprendere, ma lo fa fare anche a noi, quando descrive quella Vienna d’Europa creduta tanto liberale ma portatrice di altrettanti fondamentalismi e limiti. Una doppia distanza che intesse un dialogo molteplice tra lei e il suo paese, lei e noi, conducendoci ad un’analisi critica dei nostri valori dominanti.

Ma a quale prezzo.

La spinta politica della Satrapi, per quanto personale e catartica nel descrivere un’epopea familiare, si intreccia inevitabilmente e volutamente con i nodi e le contraddizioni del regime iraniano, che ha fatto sapere il proprio disappunto per la presentazione del film a Cannes 2007 attraverso una lettera da parte del Ministero per la Cultura Iraniano all’ambasciata francese di Teheran, riportando che il Festival avrebbe “selezionato un film sull’Iran che presenta una visione irreale delle conseguenze della rivoluzione islamica”.

Satrapi ha quindi capito e deciso di non poter più far ritorno in patria.

Ma, per quanto insista presso i giornali di non aver affatto voluto fare un film politico e di denuncia e che si tratta pur sempre di un “film” e non della “realtà”, ha comunque con tutta evidenza aperto un dialogo con il proprio paese, e se non con l’autorità (che ne ha vietato la proiezione in Iran), con chi lo abita, dato che nonostante il divieto la pellicola è circolata via cellulare e attraverso visioni clandestine.

 

In effetti il centro politico di Persepolis non risiede esclusivamente nella contestazione del regime: peso parimenti importante è il suo fare politica nelle dinamiche di scambio e di relazione, e i fulcri a partire dai quali si costruisce questo lavoro di relazione sono rappresentati dalle figure delle madri, la madre e la nonna, e solo in parte dalle figure paterne, il padre e lo zio che rappresenta l’esempio di militanza politica.

La seconda stesura del racconto autobiografico dovuta al passaggio dal libro a fumetti al film, ha comportato, oltre a migliorie sul piano stilistico, dei tagli significativi.

La figura della nonna, madre della madre (quindi anch’essa portatrice e erede degli stessi valori) ,acquista così una posizione centrale: è il punto di riferimento principale etico e politico di Marjane dall’infanzia all’età adulta. Paradossalmente, nonostante le distanze generazionali, è la figura più illuminata, liberale, di larghe vedute del racconto; esempio di coerenza e di anticonformismo, sarà guida per la protagonista in diversi passaggi cruciali del suo percorso di crescita. Divorziata in tempi in cui nessuno osava farlo in Iran, detrattrice del velo e delle imposizioni di regime, schietta e diretta nell’evidenziare sempre la verità dei fatti, è la figura più moderna e al tempo stesso nesso con la ricchezza della memoria.

La madre, che esercita l’autorità nell’educazione di Marjane, per come è descritta dall’autrice, sembra assumere spesso ruoli e caratteristiche propri della figura paterna, mentre il padre si scopre più di una volta sopraffatto dalla commozione e dalla dignità del sentimento. Indubbiamente, e non è taciuto, i genitori dell’autrice sono un esempio inusuale per la società iraniana: benestanti e liberali forniscono a Satrapi uno sguardo e un punto di partenza privilegiato per la presa di coscienza del suo ruolo femminile nella società iraniana e non a caso sono loro che insistono a più riprese perché la figlia parta e possa, all’estero, acquisire quell’emancipazione che in patria le è negata.

 

Interessante spunto di riflessione è osservare quanto Satrapi sappia comunicare con il mondo femminile “attraverso” la sua opera, ben più di quanto non comunichi con essoall’interno” del suo racconto autobiografico.

Ad esclusione della madre e della nonna, infatti,  l’autrice non si sofferma mai sulla descrizione delle proprie amicizie femminili se non per sottolinearne aspetti negativi o incomunicabilità.

Gli esempi sono molteplici nel fumetto ma ben presenti anche nel film.

Indubbiamente l’abbandono della patria in età scolare crea in lei una frattura incolmabile e una distanza culturale con le sue coetanee europee (che vede irrispettose e frivole) e sociale con le sue coetanee iraniane al suo ritorno in patria (ostentanti spinte occidentali ma permeate in realtà da moralismo religioso), frattura che la porta ad una maggiore attenzione per i legami con le figure maschili; sarà anche questa scissione interna, il sentirsi un’occidentale in Iran e un’iraniana in occidente con il conseguente sfilacciamento della propria identità a calarla nella depressione e portarla al tentativo di suicidio (in parte taciuto e non esplicitato nell’opera filmica). Ne uscirà attraverso il “fare” e l’“agire”  forse l’unico mezzo di riconoscimento da parte del mondo femminile ( a differenza di quello maschile, dal quale siamo riconosciute già semplicemente nella nostra diversità).

Più volte nelle relazioni femminili, ad esclusione dei ruoli di figlia o allieva (che possiedono un“incolmabile” intrinseco e accettato), mi sono trovata a riflettere sulla distanza che intercorre tra il riconoscimento fondato sulla stessa appartenenza di sesso, che dovrebbe coimplicare una naturale empatia fondata sulla somiglianza (di pensiero, problematiche, sensibilità) e il riconoscimento invece fondato sulla concretezza dell’agire, degli oggetti prodotti e delle imprese, attraverso i quali abbiamo una visibilità reciproca. L’empatia dell’appartenenza, anche se superficialmente forte e sentita con chi ci è affine, si rivela spesso illusoria o insufficiente: sommessamente prevale il più delle volte la timorosa difesa della propria dignità (a volte ma non necessariamente mossa da competizione) rispetto al rischio dello scoprirsi e dell’esporsi; ciò si evince frequentemente, ad esempio, nella difficoltà della comunicazione del dolore, che ha sempre bisogno di un tramite, di un mezzo che crei la distanza sufficiente per essere compreso o per darci la sensazione di poter essere compreso; la stessa autrice ha avuto infatti bisogno dell’opera per esprimere e confessare la propria discesa di disperazione.

 

Nell’opera di Satrapi colgo questo divario e questa contraddizione esistenziale: l’incomunicabilità con le coetanee porta l’autrice a descrivere e confrontarsi più spontaneamente con gli uomini all’interno del percorso autobiografico (e forse non è un caso che sempre maschile, nelle sue figure chiave, sarà il team con il quale porterà a termine la trasposizione cinematografica), mentre la potenza politica dell’opera, nella sua concretezza, crea un ponte diretto con il femminile, gli parla, comunica finalmente. L’oggetto-opera permette il riconoscimento e il legame di valore con il mondo femminile e diventa volano della forza del messaggio politico.