diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 6 - 2007

Relazioni Pericolose

Pericolo di riproduzione. Ring: il cerchio che non si chiude

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Esse ritornano da lontano: da sempre; dal ‘di fuori’, dalle lande dove le streghe si mantengono in vita; dal di sotto, dal di qua della ‘cultura’; dalla loro infanzia, che quelli fanno loro dimenticare con grande fatica, che condannano all’eterno riposo. Sono, murate, le bambine dal corpo ‘mal educato’; conservate, intatte da loro stesse, nel ghiaccio; rese frigide. Ma che cosa ribolle là sotto! E che sforzi devono fare i piedipiatti del sesso, sempre da capo, per ostacolare il loro ritorno minaccioso.Eccole che ritornano coloro che tornano da sempre: perché l’inconscio è inespugnabile (..)

Ci hanno irrigidito fra due miti terrificanti, fra la Medusa e l’abisso. Ci sarebbe di che far scoppiare dalle risa la metà del mondo, se non fosse che ciò sta continuando. Perché la pattuglia del cambio fallogocentrica è qui ed è militante, riproduttrice dei vecchi schemi, ancorata nel dogma della castrazione. Non hanno cambiato nulla: hanno teorizzato il loro desiderio come una realtà! (..) Peggio per loro se sprofondano nello scoprire che le donne non sono uomini, o che la madre non ce l’ha. Ma questa paura non fa loro comodo? Il peggio non sarebbe, non è, in verità, che la donna non è castrata, che le basta non ascoltare le sirene (poiché erano degli uomini, le sirene) perché la storia cambi senso? Basta guardare in faccia la medusa per vederla: e non dà la morte. E’ bella e ride. Gli uomini dicono che due cose non si possono rappresentare: la morte e il sesso femminile. Infatti hanno bisogno che la femminilità sia associata alla morte; si eccitano dalla fifa! Per loro stessi! Hanno bisogno di aver paura di noi.

 

Hélène Cixous, Il riso della Medusa

 

 

Mamma, che paura!

 

C’è un modo sicuro per sapere quali spettri si aggirino di questi tempi, quale il senso di pericolo che è in circolo: basta entrare nel buio di una sala dove proiettano un film horror, meglio se ci informiamo su quello più di successo nel mondo della paura, di cassetta. Meglio ancora se si prende una cassetta e la si porta a casa per vedersela sul proprio televisore. Non un dvd, proprio una cassetta, e non un nuovo televisore a schermo piatto, mi raccomando, ma un bel vecchio apparecchio panciuto a tubo catodico. A questo punto presumibilmente avremo infilato nel nostro videoriproduttore il virus fatale e saremo entrati nel cerchio di Ring.

Si tratterà probabilmente di Ring 1 o di Ring 2, i remake americani, o forse saremo incappati addirittura nell’originale giapponese Ringu, oppure in Ringu 2 o la nostra mente ordinata ci avrà fatto scegliere Ringu 0.  Come che sia sarà fatta e ci si parerà di fronte una delle più terrificanti incarnazioni femminili dell’orrore: Sadako/Samara.

Impossibile togliercela dalla mente: lei ritorna, “lei non dorme mai”. La bimba di bianco vestita, il volto completamente velato dai lunghi scomposti capelli neri, sale su dal pozzo, avanza col suo passo distorto, esce dal televisore, ci impietrisce di paura con lo sguardo fatale del suo unico occhio tondo, agghiacciante, fatale, mortifero.

Sadako/Samara è entrata prepotentemente nell’immaginario orrorifico generando un vero e proprio culto, lei e la sua storia si sono diffuse come un contagio, per contatto metonimico, come quello del virus che si riproduce, prolifera, muta in varianti sempre più letali. La potenza dell’immagine e la natura della sua storia la avvicinano a un mito moderno, anzi post-moderno come è stato definito, che però emerge da una profondità arcaica, intima e insondabile.

Il racconto da cui nasce, quello di Koji Suzuki[1], non è la sua prima origine che invece si perde irrintracciabile in una leggenda metropolitana passata di bocca in bocca[2], su cui si innesta una narrazione che a sua volta attinge alla tradizione giapponese dei racconti di fantasmi, raccoglie spunti da fatti di cronaca, per poi articolarsi in successive varianti attraverso libri, manga, serie televisive, una serie di film in Giappone, riprese coreane, remake americani, e ancora dilagare nella rete in un’esplosione di siti che riprendono e discutono appassionatamente i vari aspetti della vicenda, per non parlare della produzione critica che si è accanita a fornire le più varie letture del fenomeno[3].

Il ciclo di Ring, la storia di Sadako/Samara, richiama per struttura quella dei miti, dove varie, incerte e persino contrastanti sono le versioni dei caratteri, delle origini e delle vicende degli dei e degli eroi, e per quanto sia possibile riconoscere il nucleo simbolico portante o alcuni elementi costanti, non è agevole fornirne una narrazione univoca. Mi limito a ricordare la trama e i nuclei fondamentali della storia, prendendo come base la versione del remake The Ring diretto da Gore Verbinski.

 

La storia – Tutto parte da una leggenda urbana che parla di una cassetta con un filmato, dopo averla vista suona il telefono (Ring) e una voce dice “Sette giorni”, passati i quali si muore. Due ragazze parlano e una dice di aver visto il film, di avere avuto la telefonata, dopo di che muore, il volto sfigurato dalla paura. La zia, una giornalista madre single di un bambino, inizia a indagare e guarda la cassetta: il filmato mostra immagini enigmatiche, acqua, una scala, una donna allo specchio si pettina, si intravede una bimba dai lunghi capelli neri che la guarda riflessa, poi particolari di paesaggi, insetti, cavalli annegati, una donna che si getta nel mare, un cerchio di luce su fondo nero… Reiko/Rachel, aiutata da un ex compagno tecnico televisivo, si impegna per decifrare il filmato, sempre più consapevole del suo letale potere e spinta dall’aver anche suo figlio Aidan visto la cassetta.  L’analisi del fuori campo le rivela la presenza di un faro che la mette sulle tracce della donna allo specchio della quale riesce a ricostruire identità e storia. E’ Anna Morgan che, desiderando “più di ogni altra cosa” un figlio, adotta una bimba dalle oscure origini dotata di strani poteri che producono maligni effetti. Ciò porta la madre alla pazzia e al suicidio. Nel corso della sua ricostruzione Rachel scopre che i poteri paranormali di Samara, quelli che la rendono “cattiva”, prima di tutto quello di saper impressionare psichicamente delle immagini fotografiche, sono stati studiati e controllati da psichiatri e dal padre che la ha rinchiusa in un solaio, isolata  con solo un televisore davanti. Il padre si suicida e Rachel sempre più convinta che Samara “vuole solo essere ascoltata” ha la rivelazione del significato del resto del filmato: un pozzo,  e la madre di Samara che la precipita nel pozzo richiudendolo su di lei, il cerchio di luce che si chiude è l’ultima cosa che la bimba vede, sopravvivendo sette giorni nel fondo. Decisa a porre termine al ritorno di Samara tornando da lei e riconoscendone la storia e la sofferenza Rachel scende nel pozzo, trova il corpo intatto di Samara e lo prende tra le braccia, e in questo abbraccio il corpo si dissolve. La tensione è sciolta, torna a casa a ritrovare il figlio che pensa ormai salvo, ma questo la rimprovera di aver aiutato la bimba, perché lei “non dorme mai”. Non è finita, infatti, la storia non è chiusa: è il settimo giorno per l’ex compagno di Rachel anche lui tornato a casa tranquillizzato. Ma il suo televisore si accende, appare il pozzo e da lì esce Samara che si fa avanti, fuoriesce dallo schermo, rivolge su di lui lo sguardo del suo occhio fatale dietro la coltre nera dei capelli, riducendolo ad una inerte sconvolta maschera di orrore.  Rachel comprende che la discesa nel pozzo, il riconoscimento, l‘abbraccio non sono ciò che la ha salvata dall’appuntamento del settimo giorno: quel che ha fatto la differenza per lei è stato l’aver mostrato il filmato ad un’altra persona, l’aver passato ad altri il contatto fatale, l’aver riprodotto il contagio. Consapevole di come abbia così trasmesso al figlio il testimone del male decide di fargli riprodurre la cassetta..

Chiede Aidan: “e le altre persone che vedranno la cassetta, a loro cosa succederà?” Rachel, silenziosa, guarda sullo schermo l’immagine del pozzo.

 

Ho preferito la versione del remake perché questa variante a mio parere rafforza il nucleo portante e perturbante del ciclo di Ring rispetto a quello dell’originale giapponese (che peraltro aveva fatto lo stesso rispetto al romanzo[4]), non solo in forza del carattere di ripetizione che presenta[5] e che raddoppia il tema della riproduzione al cuore della storia, ma anche perché mette al centro dell’infanticidio non più la figura del padre ma quella, cruciale, della madre. Non è un cambiamento di poco conto, esso sposta e precisa l’asse della narrazione su una differente direttrice “mitica”, quella della genealogia femminile e del materno. Anche il ciclo giapponese e il romanzo ruotavano attorno al nodo della relazione riproduttrice, elemento di costanza nelle varie mutazioni, ma questo veniva giocato in una sorta di contrapposizione sessuale, con il padre nel ruolo del depositario del sapere scientifico, del controllo, e di un’attitudine possessiva e aggressiva che si manifestava nei vari casi nel tentato stupro della figlia, della quale scopriva la mostruosità dell’essere ermafrodita, della reclusione e manipolazione e poi nell’omicidio. Anche Sadako cambia per quanto riguarda il sesso, diventando chiaramente femmina. Entrambe queste trasformazioni sono significative nel costituirsi per ripetizioni e mutazioni del moderno ciclo mitico di Ring e della sua capacità di presa sull’immaginario. Quella che resta piuttosto costante nelle varie versioni, proprio come un’origine replicantesi come tale, è la figura della Madre, per quanto essa si manifesti già presa nella catena di un gioco di specchi, doppi e di sostitute. E’ attorno a questo centro di gravità che si forma, come il vortice di una spirale, il ciclo del cerchio. Il cerchio del pozzo che chiudendosi disegna il ciclo lunare, dall’apertura di un cerchio bianco, ad una falce che si restringe sempre più fino al cerchio nero della luna nuova.

La Madre originale/originaria (Shizuko e Anna) ha sempre un particolare potere, è lei che detiene il primo dono psichico straordinario, quello oracolare, è il potere dello sguardo, la facoltà di vedere il futuro o meglio di prevedere il pericolo. E’ una specie di prima madre Gaia, si direbbe, cui il dio solare Apollo non è ancora riuscito a sottrarre il potere divinatorio[6], ma la sua sorte non si discosta granché da quella delle sue sorelle della tradizione greca dal momento che come Cassandra la madre di Sadako non viene creduta quando avverte della prossima eruzione del vulcano. Anzi finisce per essere esposta in una sorta di esibizione scientifica dal marito, novello Charchot, che ottiene solo il risultato di scatenare verso il pubblico che la ridicolizza l’ira vendicatrice della piccola figlia, ancor più dotata del potere di uno sguardo di Medusa che sa anche uccidere. Il dono di questo potere e lo stesso potere eccessivo e malefico della figlia porteranno la madre all’infanticidio e al suicidio, gettandosi nel vulcano/mare. Ma né la sua morte né la morte inflitta alla figlia gettata viva nel pozzo (entrambe secondo i canoni dell’uccisione femminile[7]: precipitata nel vuoto, nell’acqua, agli inferi, e seppellita viva, rimandate alle dimensioni femminili acquatiche e ctonie) valgono a interrompere il continuum del potere materno. Trasmesso di corpo in corpo ora si trasmetterà con il solo potere della mente. Sadako/Samara può ritornare perché il suo spirito può impressionare la pellicola e i supporti magnetici con le proprie immagini: quello che ha visto e sofferto può farlo vedere e soffrire. Può duplicarsi, riprodursi come immagine attraverso il nuovo grembo tecnico della cassetta, la scatola nera che la rigenera, la rimette al mondo facendola tornare dal pozzo, uscire dal nuovo utero del tubo catodico della panciuta televisione, odierna porta dell’altro mondo.

Non c’è modo di sfuggire a questo male, al rimosso che ritorna dal pozzo, allo sguardo che viene a riguardarci dall’immaginario. Non c’è riconoscimento del trauma, non c’è ridiscesa nel pozzo, non c’è ascolto riparatorio, non c’è pietà o amore che riconcilino: il male non si elimina, come la morte si può solo spostare, si può solo passare il contagio ad altri, allontanandolo da sé ma al prezzo di riprodurlo, di essere noi stessi untori, veicoli del male.

Quindi tutto continua e ritorna: il cerchio non si chiude per quanto si avvolga su se stesso a spirale. Anche il ciclo di Ring continua con un ritorno su di sé attraverso le sue riproduzioni, così Hideo Nakata regista del giapponese Ringu, ma non dei seguenti, gira il seguito del remake americano Ring 2.

 

Se Rachel all’inizio del film precedente era fortemente a rischio di essere una “cattiva madre” il fare i conti con la “madre cattiva” di Samara la ha ravveduta: convinta che quest’ultima volesse “solo essere ascoltata” è discesa nel pozzo a pagare il debito di amore materno con lei, e sebbene questo non abbia eliminato il male riconciliando la genealogia madre-figlia, questo tentativo la ha almeno riconciliata con il proprio ruolo materno, assunto pienamente con l’assunzione dell’inevitabilità di  trasmettere lei stessa il male pur di allontanarlo dal figlio. Ma ora Samara la insegue, convinta dal suo gesto che lei le “deve voler bene” vuole prendere il posto di suo figlio, cui riesce progressivamente a sostituirsi e che sta sempre più male. A questo punto Rachel corre davvero il pericolo di incarnare la cattiva madre, sospettata di violenza sul figlio dalla psicologa dell’ospedale, peraltro prontamente eliminata da Aidan/Samara che avverte il rischio di essere separata/o dalla madre. Nella convinzione che Samara “vuole solo una madre” ricominciano le ricerche e la ricostruzione della storia della figlia e della madre. Anna Morgan era una madre adottiva, Rachel rintraccia la vera madre Evelyn in manicomio, scopre che questa aveva a sua volta cercato di uccidere la figlia “cattiva” annegandola, perché, a suo dire, non era davvero sua figlia e la bambina stessa, la “vera figlia” lo aveva chiesto. In un dialogo drammatico la madre naturale di Samara mostra di sapere tutto, altre madri sono venute da lei. Madri la cui colpa è stata quella di “aver lasciato passare” con la maternità il male. Anche Rachel dovrà decidere, mandarlo indietro, ascoltando il proprio vero figlio e mandando indietro il male che ne ha preso il posto.  Rachel comprende, droga Aidan/Samara che fiduciosa mangia il cibo che lei le prepara, ormai la chiama “mamma” a differenza del figlio che la sempre chiamata “Rachel”. Porta quindi Aidan nella vasca per annegarlo, e qui avviene la trasformazione, la possessione si scioglie, Samara emerge coi suoi lunghi capelli neri dall’acqua, appare per poi scomparire e disciogliersi.

Il figlio è vivo,  ma ancora non è finita. Ancora una volta il televisore si accende sull’immagine del pozzo, Samara ne sta uscendo, ritorna e avanza. “Non puoi avere lui, quindi prendi me!” e in un nuovo abbraccio Rachel viene trascinata dentro lo schermo per ritrovarsi ancora in fondo al pozzo. Guarda verso l’alto e vede che il cerchio non è chiuso, c’è una falce di luce: il pozzo era rimasto aperto, di lì Samara esce. Ora è Rachel ad arrampicarsi verso l’uscita, inseguita da Samara che però resta indietro. Su di lei Rachel ripete il gesto che fu di sua madre, e chiude il pozzo. La ripetizione procede inesorabile e la porta sull’abisso del suicidio. Avverte la voce del figlio che la chiama “Rachel!”, allarga le braccia e si getta. Riemerge al bordo della vasca, vicino al figlio che la chiama mamma. Lo abbraccia, è finita, lei non tornerà, ma “Per favore, almeno per un po’ chiamami Rachel”. In cielo una falce di luna.

 

Non occorre avere il dono della preveggenza per prevedere il ritorno di Sadako/Samara a ricordarci il pericolo sempre incombente di un cerchio che non si chiude.

 

La matrice dell’orrore: l’orrore della matrice

 

Il genere horror è ripetitivo, d’altra parte è il senso stesso dell’orrore che pare intrinsecamente sorgere da ciò che si ripete e ritorna nella sembianza di qualcosa che, ancor più che incuterci paura, ci turba. Perturbante è infatti la più consueta traduzione di ciò che Freud chiamava Das Unheimliche[8]. Sul significato da attribuirsi a questo termine come pure alle sue possibili traduzioni sono scorsi fiumi d’inchiostro nei quali non è proprio il caso di immergersi qui[9], e la categoria di “perturbante” è stata sulla scorta dell’esempio freudiano una delle chiavi di lettura più usate per affrontare il genere dell’orrore nella letteratura e nelle arti visive come pure nel cinema. Quale parola più di unheimlich poteva attagliarsi agli ingredienti più canonici dell’orrore? Il doppio, il ritorno del rimosso, il fantasma, il mostruoso, il familiare che si rivela spaesante e minaccioso, ciò che non ha un’identità ben delineata, ciò che è né vivo né morto, la paura e insieme la fascinazione… L’interpretazione nella luce del perturbante ha contribuito non poco a chiarire quel che avveniva nelle atmosfere oscure dell’horror, nel profondo buio dei nostri cuori atterriti e attratti e soprattutto nello strano godimento ricercato nel buio delle sale cinematografiche. La critica femminista ha poi dato contributi imprescindibili a questa comprensione, producendo una quantità di analisi sia della funzione e della rappresentazione della donna nell’horror, sia del suo ruolo nei confronti dello sguardo maschile, sia del rapporto femminile con il genere in termini di produzione (non si può dimenticare quanto l’horror debba alla madre Mary Shelley) e di fruizione. La paura della differenza femminile nelle sue più diverse manifestazioni ha cominciato a venir riconosciuta inequivocabilmente nelle sue più mutevoli incarnazioni, affascinati e terrifiche, come vero e proprio centro nero e abissale dell’orrore.

Ma naturalmente ciò che ha stabilito un autentico punto di non ritorno per il dibattito sul genere è la lettura che ne ha proposto Julia Kristeva in Poteri dell’orrore[10]. Il suo concetto di abiezione è ormai diventato irrinunciabile nelle analisi e altrettanto onnipresente di quello di perturbante, del quale rappresenta peraltro lo sviluppo. Riprendendo anche le intuizioni che furono di Mary Douglas su come si strutturi la nostra percezione di ciò che è da considerarsi pericolo attraverso la funzione di definizione di puro/impuro[11] Kristeva mette in connessione quel che viene percepito come abietto al materno. Tutti quegli elementi che, come già in Douglas, riportano alla turbativa dell’identità e minacciano un ordine, non rispettano i confini, sono intermedi, fluidi, impropri, misti, confusi, ancor più che doversi al ripresentarsi di un rimosso in senso freudiano[12] vanno ricondotti a una rimozione ancor più originaria[13] che ha a che fare con il luogo di una prima indistinzione, nel quale ancora propriamente non si ek-siste, non ci si è separati dall’entità materna, dalla dimensione della chora. L’orrore dell’abietto riguarda il confronto con questa zona limite, arcaica e innominabile, e il suo ritorno minaccia di precipitarci nel “baratro della caverna materna”, di “affondare senza ritorno nella madre la propria identità”[14].

Sulla scorta anche di questo approccio di Kristeva, che consente di riconoscere nel pericolo del faccia a faccia col femminile e col materno l’oggetto proprio dell’orrore, Barbara Creed ha prodotto un’analisi specifica e articolata del cinema horror, riconoscendovi il perenne ritorno di quel che chiama the monstruos-feminine, il femminile mostruoso[15]. Donne divoranti, vendicatrici, donne fatali, mutanti, mortifere, perverse, insaziabili, vampire, mostri fascinosi e letali, madri cattive, madri mostruose e madri di mostri, aliene, femmine fantasma, streghe, creature ibride, donne dai poteri soprannaturali, occulti, donne-animali, donne acquatiche, ctonie, infere…

La mostruosità femminile che pervade l’immaginario horror e che ci viene incontro dallo schermo non viene solo denunciata come frutto delle fobie maschili, nelle letture femministe ad essa si riguarda con crescente simpatia (non diversamente da quanto già accaduto con le altre figurazioni del pericolo femminile mitiche e letterarie della tradizione) rovesciandone il segno nella possibilità di potenza femminile e materna e di sua rifigurazione. E’ quel che ha fatto anche Rosi Braidotti, una delle amiche del mostruoso femminile, che ne ha esplorato le potenzialità in rapporto alle trasformazioni della contemporanea sensibilità postmoderna[16].

Lucidamente Braidotti riconosce il proliferare di mostri come sintomo emblematico di una postmodernità che rende labili e confusi tutti i confini, confonde le identità, trasfigura le forme, perde il contatto con la materialità dei corpi e li vede tornare in sembianza mostruosa come rimosso della tecnocultura, il tutto nella crisi dell’autorità paterna. E’ una diagnosi con cui è ormai davvero difficile non convenire: per certi versi direi che nel tempo che viviamo l’horror e la fantascienza sono diventati una sorta di neo-realismo, mentre la luce della realtà è inquietante come l’alba dei morti viventi[17].

Non c’è di che stupirsi del fatto che l’orrore goda oggi di tanto successo di pubblico e di tanta attenzione critica se si ricorda la lezione di Mary Douglas: esso funge da indicatore di ciò che è da considerarsi pericoloso per la nostra identità individuale come pure per le strutture simboliche che definiscono il sistema delle differenze dell’identità sociale. Il senso dell’orrore avverte con precisione dove stanno le relazioni pericolose, quelle che costituiscono minaccia di contaminazione per noi stessi e per l’ordine complessivo dei rapporti vigente specie nei suoi dispositivi differenziali portanti, primo fra tutti quello che ordina la differenza sessuale e il rapporto sociale e simbolico tra i sessi. Quando l’ordine muta il sentimento dell’orrore è forse il termometro più preciso del cambiamento, registrando il pericolo e dove si stia spostando il confine di ciò che è da temersi come pericoloso. Quando una particolare narrazione, un peculiare immaginario horror, ha larga presa e riesce a mobilitare profondamente il senso dell’orrore fino nel corpo[18], allora c’è in circolo nel corpo sociale il timore di un pericolo che ne minaccia la “salute”, l’integrità, la purezza, l’equilibrio del suo ordine di differenze.

Come Cassandra e Shizuko/Anna l’orrore ha la facoltà di uno sguardo preveggente, avverte del pericolo incombente, solo che a differenza di quello, forse proprio perché di uno sguardo più maschile si tratta, solitamente viene creduto. Anche per questo allo sguardo femminile previdente conviene prenderlo sul serio: una lunga storia racconta come il pericolo dell’orrore lo riguardi minaccioso.

 

L’opera materna nell’era della riproducibilità tecnica

 

L’orrore sembra dunque ripresentarsi, dietro le sue diverse terrificanti maschere, sempre e ancora con lo stesso volto femminile. Hélène Cixous ha suggerito che quel volto terrificante è quello di Medusa[19]. Una quantità di letture del mito della gorgone dallo sguardo pietrificante ha evidenziato come essa incarni l’orrore mortifero legato al faccia a faccia con la differenza sessuale femminile e ancor più propriamente con la visione del sesso materno[20]. E se il mito di Medusa è chiaro sul riconoscimento di quale sia la prima matrice dell’orrore, ancor più chiara è l’indicazione che raccomanda per fronteggiarne il pericolo: occorre tagliarle la testa. Il maschio eroe Perseo dovrà guardarsi dal guardarla negli occhi e grazie allo specchio tagliarle l’orrenda testa, che finirà peraltro a ornare lo scudo di Atena, la “figlia di solo padre”[21]. Non dissimilmente un’intera tradizione raccomanda, in tutti i modi e le varianti, di fronte all’orrore femminile/materno di armarsi di spada e procedere risolutamente a tagliare con la madre. E’ l’originaria relazione con lei ad essere il primo pericolo, è la relazione materna la prima relazione pericolosa, matrice della pericolosità insita nella relazione stessa e che ogni relazione rischia di ripresentare e di riprodurre minacciando di riportarci faccia a faccia con il volto di Medusa o di riprecipitarci nell’abisso della misteriosa matrice della riproduzione. Se ciò in cui sta il pericolo per eccellenza è il primo rapporto con la madre, il primo “corpo a corpo con la madre” che deve essere interdetto, per usare le parole di Luce Irigaray, massimamente pericolosa è la relazione tra la madre e la figlia[22]: è il passaggio della potenza materna nella figlia, il legame tra le due che deve essere tagliato interrompendone la continuità genealogica in nome del padre e a favore della coppia madre-figlio. Il gesto salvifico dell’ordine che va ripetuto e rinnovato è quindi il taglio con la madre, per il figlio nei due sensi: è il figlio l’eroe che deve tagliare ed è a suo favore che il taglio va fatto tagliando nel contempo la coppia madre figlia, il tutto in onore del nome del padre.

Difficile aspettarsi qualcosa di nuovo sotto il sole quando la storia sembra sempre ancora quella antica del solare dio Apollo e dei suoi protetti: si sconfigge il serpente, si taglia la testa materna, in un modo o nell’altro si seppelliscono le Erinni sotto la città e il loro orrore[23] servirà a mantenerne l’ordine solare..[24] Ma il sole deve sorgere di nuovo ogni giorno e la sua battaglia si è continuamente rinnovata contro una potenza oscura che minacciava di ritornare sotto sempre mutevoli sembianze, il dominio solare richiede la lotta contro sempre nuovi antichi mostri. Così anche l’orrore si rinnova con i nuovi pericoli, mutante nella sua informità come muta la forma che minaccia. C’è da aspettarsi che l’epoca che vede il “declino della luce”[25] e più propriamente il tramonto del patriarcato veda insieme un massiccio ritorno del perturbante femminile e materno e una riconfigurazione delle manifestazioni del suo mostruoso pericolo. Il cerchio di luce oscurato, così simile ad un sole eclissato, dell’immagine di Ring è icona perfetta dell’orrore nel tempo della morte del patriarcato: before you die, you see the ring

Nel cerchio dell’orrore di Ring circolano così le solite vecchie paure, anzi tornano paure ancora più arcaiche, però mescolate e alleate con le nuove.  I canoni tradizionali sono confermati in modo letterale, anzi essi subiscono una vera e propria letteralizzazione, vengono presi alla lettera e sviluppati secondo la catena significante, a partire da quello che è il cuore dell’orrore: la paura del potere di riproduzione. Come accade nei sogni l’incubo è innescato non dalla cosa, ma da qualcosa che la significa richiamandone il significato: la leggenda metropolitana racconta di un pericolo legato alla riproduzione di una cassetta. Riproducendola sul proprio video-riproduttore si entra nel cerchio, le immagini riprodotte vengono al mondo, entrano nella vita reale e il ring del telefono ci richiama alla nostra morte imminente. Il mistero della riproduzione apre alla morte[26] e riprodurre ci rimette in contatto con il passaggio tra la vita e la morte che riporta al corpo della madre.  L’opera materna della riproduzione di corpo in corpo viene così evocata nell’atto della riproduzione nella dimensione per eccellenza dell’immaginario, quella delle immagini stesse. Nella riproduzione dell’immaginario, riproduzione immateriale, tecnica, ritorna il pericolo materno: con il ciclo di Ring ritorna l’orrore dell’opera materna nell’era della riproducibilità tecnica. Proprio nel luogo della circolazione immateriale, come della relazione virtuale, come di ciò che mai muore, possiamo venir toccati da un contagio che ci riporta bruscamente, come un memento mori, al rimosso della nostra mortalità, al faccia a faccia con l’orrore del femminile mostruoso, con la relazione insostenibilmente reale col materno.

Gli elementi più caratteristici delle paure del tempo presente si innestano sui fattori più arcaici e tradizionali dell’orrore, così che Ring ha prodotto una vera proliferazione epidemica di letture secondo le chiavi interpretative più varie, offrendo peraltro a tutte solidi elementi di supporto a conferma di come questo ciclo horror abbia la qualità di catturare nel suo cerchio le paure circolanti. Ci sono innanzitutto gli ingredienti più tipici del perturbante[27]: a partire dal pericolo che si manifesta nel luogo della familiarità, qui in quel vero e proprio centro della casa che è il salotto con il suo televisore, oggetto della domesticità anzi della domesticazione del rapporto con la realtà che fa entrare non più solo immagini, ma il reale stesso. Tipicamente unheimlich è la confusione e l’attraversamento dei confini, e qui viene attraversato il confine tra l’immaginario e il reale, autentico incubo di una postmodernità impero dei segni, dominata dalla virtualizzazione, dalle immagini, dall’immaterialità, che vede qui il ritorno del rimosso del corpo che irrompe attraverso il casalingo altare dell’immagine[28]. Il confine che in primo luogo viene violato è però ovviamente quello tra la vita e la morte[29], non solo nel prendere vita dell’immagine, ma nel classico ritorno del morto: lo spettro, il fantasma. Non si tratta in questo caso della presenza di altre dimensioni sopra-naturali o demoniche che convivono con il mondo dei vivi, tipiche peraltro della tradizione nipponica, ma di uno yurei, un fantasma vendicativo che ritorna per una ingiustizia subita, molto simile a quello della cultura tradizionale occidentale[30]. Ci sono quindi il pericolo del ritorno di ciò che abbiamo seppellito, gettato nel pozzo, del ritorno di ciò a cui abbiamo “messo una pietra sopra”, del suo risorgere vendicativo e quindi quello dell’affermarsi della logica di ripetizione della vendetta. Il film è poi costruito tutto intorno al nodo della ripetizione del medesimo nella forma del doppio, altra costante tipica delle forme del perturbante: ciò stesso a cui si lega il pericolo è la duplicazione. La duplicazione intesa come riproduzione della cassetta ne è l’aspetto più palese, col che si instaura l’equivalenza duplicazione/riproduzione che, come si è detto, apre all’irruzione dell’orrore materno e che si riverbera sul sistema di relazioni genealogiche su cui si articola la trama. La coppia originaria di Samara e sua madre Anna ha infatti il suo corrispettivo nella coppia di Rachel con il figlio Aidan e il pericolo del reduplicarsi di quella genealogia è uno degli aspetti centrali del film. Il meccanismo perturbante del doppio agisce poi ad un altro livello: quello che il filmato narra lo duplica nella realtà, suggerendo inoltre che l’unica salvezza stia nella duplicazione che trasmette il contagio, ma ciò induce un’ulteriore effetto di duplicazione dal momento che noi stessi che assistiamo al film siamo, nella sua logica, contagiati ed entrati nel cerchio della coazione a ripetere la duplicazione. L’altro topos perturbante freudiano della credenza nella onnipotenza del pensiero è anch’esso presente sia nella forma dell’animismo che compare nel prendere vita degli oggetti e delle immagini, sia nel potere psichico posseduto da Shizuko e da Sadako, facoltà previsiva oracolare che si fa potere di impressionare le immagini con la forza della mente e quindi mal-occhio, lo sguardo malefico e mortale di Sadako. E con il riemergere agghiacciante della risorta Medusa siamo naturalmente al ritorno di ciò che per antonomasia ritorna nel dispositivo dell’orrore, il femminile mostruoso e il pericolo materno. Le fattezze della femminile minaccia sono rispettate: la madre originaria dotata di un potere misterioso, di una differente potenza di visione, di un desiderio di maternità eccessivo che la fa sospettare di intrattenere rapporti sessuali con entità soprannaturali, che la avvicina all’animalità (i cavalli), legata alla dimensione acquatica e ctonia (il vulcano). Ci sono la femminile capacità previsiva non creduta che precipita nella follia, la potenza dello sguardo materno previdente, capace di vedere oltre la realtà che diventa follia che non sta alla realtà. C’è il passaggio del pericoloso potere femminile di madre in figlia[31], c’è la minaccia della madre infanticida che replica il gesto di Medea, la facoltà di influenzare con lo sguardo fino a dare la morte, la capacità di passare tra il mondo di qua e quello di là.  E poi i capelli lunghi, neri e scomposti caratteristici dell’icona della femminilità inaddomesticata e incontrollabile, la chioma medusiaca che allude al pube e al sesso femminile, come pure la vergine bianca, il femminile intatto e innocente (Sada-ko: bambina casta) che si rivela aggressivo e maligno. Il volto dallo sguardo insostenibile di Sadako appare inoltre completamente velato dalla coltre nera dei capelli, al punto che la sua testa sembra innaturalmente ruotata sul corpo, come rivolta all’indietro, mostruosamente rovesciata. Compaiono i segni dell’inumano e dell’abietto: l’acqua che accompagna l’apparizione di Samara come un liquido amniotico che fuoriesce alla “rottura delle acque” del televisore, la mosca, gli insetti, le mani con le dita sfracellate, i visi deformati, la camminata sconnessa e disturbante[32]. L’orrore si coagula poi su una serie di immagini a fortissimo impatto simbolico: il pozzo, l’occhio, il cerchio, soprattutto, costellati tra loro e con altri nuovi simboli tecnologici come la cassetta e il televisore. Superfluo soffermarsi sulla valenza simbolica dell’occhio e della metaforica della luce come pure sul simbolo del cerchio, ma è interessante come qui questi onnipresenti simboli prendano una peculiare accezione per la connotazione femminile/materna del clima d’orrore in cui si inseriscono, in particolar modo per il loro legarsi all’immagine del pozzo. Così il cerchio rimanda all’occhio distorto e mortifero di Sadako, ma anche all’ultimo oggetto del suo sguardo: l’imboccatura del pozzo chiusa dalla madre sopra di lei come un sole eclissato e tombale. Ring è quindi il cerchio del pozzo in cui viene rimandata, e il pozzo è la soglia di passaggio uterina tra il mondo dei vivi e dei morti[33], dove viene gettata in un rifiuto materno che innesca il cerchio della ripetizione, dell’eterno ritorno del rimosso, ripresentandosi con la sua chiamata (ring) alla morte. Tornerà, il fantasma, attraverso il nuovo grembo della cassetta e il nuovo utero del televisore, tornerà a riprodursi in una nuova maternità vendicativa e mortale, generativa di nuovo male che duplicherà quel che ha subito e ci immetterà nel cerchio coatto della duplicazione/riproduzione del male. Se dunque il cerchio, l’occhio e il pozzo hanno trascinato con sé l’evocazione di una simbologia arcaica e perenne (la luce e l’ombra, lo sguardo, il confine tra la vita e la morte, il ciclo della vita e della morte, l’accesso dell’inconscio…) il loro coniugarsi ai nuovi simboli tecnologici del nostro presente ha indotto anche altre più contemporanee associazioni, peraltro ancora spesso legate al pericolo femminile e materno. Varie letture del fenomeno Ring hanno puntato sull’ansia per le nuove tecnologie[34] (mettendo in secondo piano le letture in chiave di perturbante e di paura del femminile), o sull’essere il film sintomatico dei nuovi timori relativi alla postmodernità, all’età del trionfo dell’immaginario, laddove il pericolo può essere rappresentato di volta in volta dal ritorno della materialità, della corporeità[35], o della perdita nel cerchio dell’estasi della comunicazione nella circolazione dei puri simulacri[36], o ancora del ritorno del reale (lacaniano), o del centro vuoto della circolazione dialettica, o ancora del kantiano noumeno[37], oppure del “molecolare” di contro al “molare” deleuziani[38], o altrimenti all’attraversamento dei confini culturali nell’epoca della globalizzazione[39]. Questa proliferazione di interpretazioni che suggeriscono la lettura del fenomeno Ring come horror postmoderno e tecnologico non toglie la centralità  che in esso continua ad avere l’orrore del femminile/materno, i nuovi motivi del pericolo si ibridano con le vecchie forme, ad esempio c’è chi ha riconosciuto nella cassetta, nuovo oggetto d’orrore del film, una vera e propria ultima incarnazione del mostruoso materno: scatola nera impenetrabile, simile a Sadako stessa, utero capace di riprodursi in una nuova orrenda gravidanza tecnologica[40].

Ma se nel ciclo di Ring si replica il modulo dell’antico orrore della matrice, del pericolo della riproduzione e della paura del femminile aggiornato al tempo della postmodernità tecnologizzata e globalizzata, c’è da chiedersi se in esso non siano presenti anche segni rivelatori di una trasformazione del sentimento di quel pericolo materno in tempo di fine del patriarcato.

 

Relazioni pericolose post-patriarcali?

 

Ancor più che il riconoscimento esplicito della morte del patriarcato, che stenta tuttora a nominarsi, è forse la presenza massiccia del ritorno del suo fantasma a testimoniarne l’evento. L’atmosfera spettrale del tempo che viviamo è stata denunciata da più parti, nonostante di rado con la consapevolezza di quale fosse il lutto di cui prendere atto e da elaborare[41], e la quantità di fantasmi che si agitano nell’immaginario circolante e addirittura ritornano spaventosamente nel reale sta a riprova di quanto il clima presente sia quello opprimente del “ritorno del rimosso dell’inconscio patriarcale”, per usare l’espressione di Jane Flax[42]. L’immaginario cinematografico e per eccellenza quello horror, sismografo sensibilissimo delle paure collettive, hanno registrato l’avvenuto ripopolando gli schermi di fantasmi, occulte presenze e mostri di ogni genere, e anzi bisognerebbe dire di genere femminile in quantità[43]. Il ciclo di Ring è frutto maturo di questa stagione infestata dai fantasmi evocati dalle paure patriarcali e costituisce un buon punto di osservazione per avvistare quali mutazioni si stiano manifestando nello spettro delle immagini del pericolo femminile e materno nel momento in cui l’archetipo della narrazione del mito del maschio eroe in lotta con la minaccia dell’orrore femminile sta mostrando la corda sfilacciata della sua trama.

Intanto, a prima vista, l’eroe manca la scena. Se nel romanzo e in Ringu c’era un padre infanticida nella parte classica di colui che si interpone tra la madre e la figlia, e la vicenda si strutturava su una sorta di lotta tra i sessi, nel remake questo protagonismo maschile viene meno, le figure maschili/paterne diventano comprimarie e la storia si concentra decisamente sul lato femminile delle genealogie. Non c’è più un padre, né un Perseo a tagliare la testa della gorgone, la questione si gioca tra donne, o meglio tra due linee genealogiche materne: la coppia madre/figlia e quella madre/figlio. C’è una eroina al centro della storia, portatrice dei caratteri della final girl [44], sua è la vicenda di individuazione e a lei è affidata la salvezza, è lei che deve/può affrontare Samara, incarnazione dell’orrore femminile e di una storia di orrore che passa di madre in figlia. Peraltro la stessa sua antagonista mostruosa potrebbe rivendicare i tratti della final girl, e non c’è dubbio che la bimba di bianco vestita dal tragico destino muova in Rachel, come in chi guarda[45], un moto di pietà che si fa sentimento materno. Rachel è all’inizio lei stessa delineata come una possibile cattiva madre: single, presa dal lavoro non si cura molto del figlio, non lo ascolta: la vicenda del film costruisce per lei un vero e proprio rito di passaggio femminile[46], un faticoso percorso di identificazione col ruolo materno nei confronti di Aidan. Ma prima la chiamata ad esser madre le viene dall’incontro con Samara e con la storia di un’altra madre: Anna, la “madre cattiva” che ha rifiutato la figlia e la ha rimandata indietro nell’utero/pozzo della solitudine e della morte.

Lo specchio di quella maternità la spinge ad affrontare il male attraverso la ricostruzione del trauma originario di quella rottura della coppia madre/figlia, la comprensione e il riconoscimento del male compiuto. Rachel vuole maternalmente ricongiungere il cerchio spezzato tra la madre e la figlia, pagare lei il debito materno, e la convinzione nel potere di questo atto simbolico la porta in fondo al pozzo. Qui il cerchio sembra chiudersi con l’abbraccio del corpo della bimba, che si dissolve. La scena è una potente icona della genealogia materna femminile: la madre con la figlia tra le braccia nel fondo del pozzo sembra proprio una di quelle immagini tanto raccomandate da Irigaray per bilanciare l’onnipresenza simbolica della coppia madre/figlio della tradizione cristiana, la Madonna col Bambino.

A differenza della madre di Samara, incapace di sostenere la figlia nell’eccesso della sua differenza[47] Rachel sostiene l’orrore riconoscendone il desiderio: lei “vuole solo essere ascoltata” e “vuole solo una madre”. Il suo intento è quello di riconciliare la genealogia materna la cui interruzione è la colpa da cui scaturisce il male, e da quel riconoscimento la catena della cattiva riproduzione che duplica il contagio del male verrà interrotta. Il ricongiungimento del cerchio della riproduzione materna tornerà a mettere in circolo il bene e lei stessa sarà così una buona madre salvando il figlio e liberandolo dal contagio, avendo liberato la figlia dalla coazione al ritorno e alla riproduzione del male. Ottima pratica simbolica e politica, mi dicevo soddisfatta non potendo fare a meno di riconoscervi una mossa che il femminismo della differenza ha vivamente raccomandato!

Ma evidentemente proprio lì sta il pericolo nella logica di Ring, come immediatamente contesta terrorizzato alla madre incauta il figlioletto Aidan: “La hai aiutata? Non dovevi farlo!” “Lei non dorme mai..”

E in effetti quel riconoscimento, quell’abbraccio sono per il film un falso finale. Samara ritorna ancora e questa volta la vediamo uscire in carne e ossa dal televisore. Il fantasma ritorna anche dopo il riconoscimento del trauma, la discesa nel pozzo e l’abbraccio non sono valsi a placarla, anche dopo che si è tornati nel profondo dell’inconscio a ritrovare ciò che ha originato il sintomo, il male persiste, si ripresenta nella forma che Lacan chiamerebbe non sintomo ma sinthome[48].

La strategia del ricongiungimento simbolico della madre con la figlia è stata dunque inefficace, anzi pericolosa, la salvezza del figlio e la salvezza di Rachel come buona madre passano da un’altra via. Quella dell’assunzione del negativo e della sua inesorabile legge: accettare di riprodurre il male, di farlo circolare per spostarlo da sé, dal figlio, su altri. Occorre entrare in questo cerchio riproduttivo, che è l’unica salvezza dall’orrore che l’altro riproduce. Accogliere la necessità del pericolo che si immette in circolo nelle relazioni per evitare di trovarsi faccia a faccia con l’orrore che viene dalla prima relazione pericolosa.

La morale della storia, per quanto innovativa del classico schema edipico, sembra quindi non discostarsi poi molto negli esiti dalle versioni risapute: il pericolo è sempre quello di venir risucchiati nel cerchio della relazione con la madre, di lasciare aperto il pozzo da cui l’orrore ritorna, di guardare negli occhi la Medusa. Pericolo materno ancor più orrorifico nel momento in cui non c’è più un padre armato di spada e capace di fare il taglio salvifico.

E’ il terrificante rischio di ripiombare nel pozzo pre-edipico avvertito con allarme nel nostro presente post-edipico. Una morale ben colta da Erich Kuersten:

 

“Per sfuggire la disintegrazione del proprio Io nelle braccia della dea del sangue, si deve offrire un sacrificio al nostro posto. Il sacrificio simbolico dell’altro diventa il solo modo di soddisfarLa (il sacrificio opposto di gettare la vergine nel vulcano, gettare lo sguardo maschile nello schermo dei sogni). Lo sguardo masochistico pre-maschile è la posizione di chi si nasconde, o aspetta, regredendo come mezzo per sfuggire temporaneamente dalla castrazione simbolica richiesta per l’iniziazione nell’ordine sociale (..) Questa via i fuga ha portato ad uno sviluppo bloccato con implicazioni sociali percepite a ogni livello della moderna società: la perdita della figura dell’autorità maschile sicura, ‘incapacità dei giovani padri di essere presenti e il collasso della sfera sociale. Ciò che ci resta è un mare di bambini fantasma che guardano dal buio del vuoto oltre la realtà a due dimensioni nota come schermo dei sogni, sperando fino all’ultimo di venir adottati da quella buona donna gigante là sullo schermo, che guarda giù nelle nostre scure carrozzine funebri, rallegrandoci quando l’”altro” che sta lì a guardare viene sacrificato, perché sappiamo che la sua morte allontana ancora di un giorno la nostra esecuzione.”[49]

 

Il pericolo del ritorno della prima relazione col materno divorante, confusivo, disintegratore dell’identità soggettiva è ancora il cuore palpitante dell’orrore, con l’aggravante che ormai nessun Dio paterno ci può salvare, specie se si è figli maschi, e si è ridotti a dover confidare nelle donne, peggio: nelle madri. Madri odierne e comuni nelle quali però sempre ritorna a incarnarsi il pericolo materno, madri che riproducendo riproducono la Madre, madri inevitabile soglia della vita, primo passaggio del nostro bene e del nostro male, madri dalle quali pur sempre dipendiamo, al loro sguardo siamo affidati. Ma il loro sguardo previdente può sempre diventare quello di Medusa, o quello di Medea, oppure guardare altrove, distogliersi da noi, magari lasciarci soli davanti allo sguardo cieco della mamma televisiva come Samara e Aidan, o chiudersi opaco come un sole nero[50]. O addirittura le nuove madri ormai fuori dall’orbita del sole paterno potrebbero voler ricongiungere il cerchio con la Madre, persino ristabilire la linea spezzata della genealogia femminile, preferire la figlia e sostituirla al primato del figlio..

Meglio quindi spiegarla bene la morale: repetita juvant. Così benvenuti oltre ai remake i sequel, e infatti Ring 2 si preoccupa di chiarire ancor meglio la lezione. La prima strategia materna di Rachel  era davvero il massimo della pericolosità, infatti Samara si è convinta che Rachel le voglia bene e ora vuole che le faccia da madre, al punto da volersi sostituire al figlio maschio Aidan.

La colpa di Rachel, come le spiega la madre naturale di Samara rintracciata in manicomio e mancata infanticida, sta in fondo nel fatto stesso della maternità. Lei ha aperto il passaggio, ha lasciato entrare il male della differenza malvagia, dovrà ascoltare la voce del suo “vero” figlio e sacrificare la figlia cattiva che ne ha preso il posto e che ora la chiama, lei sì, mamma.

Per amore del figlio Rachel da buona madre dovrà rientrare attraverso il televisore nell’altra dimensione dove si svolge la storia di Samara, riscendere nel pozzo che è sempre rimasto aperto, risalire e questa volta chiuderlo una volta per tutte sopra la figlia, come sua madre non era riuscita  fare compiutamente. Brava madre! Solo che nemmeno riesci ad accettare che tuo figlio ti chiami mamma..

Certo, come però chiede Rachel “almeno per un po’” e in cielo c’è una falce di luna a ricordare che il cerchio non si chiude.

 

 

Appendice:Links

 

Consigliabile è partire da: http://www.theringworld.com

I seguenti links sono tratti da Snowblood Apple, Asian Estreme Cinema, dove si può trovare una accurata comparazione visuale delle versioni filmiche: http://www.mandiapple.com/snowblood/ringcompare.htm
http://ringufan.intelligent-light.com/ – Arvid’s great Ringu-Fan site, with looooads of information, links, pictures and FAQ’s
http://www.neodymsystems.com/ring/index.shtml – inteferon’s viral vestibule, a great new Ring resource, with downloads of the infamous curse videos from both the original and the remake, articles, images and archives from Ringworld’s forum
http://www.angelfire.com/retro/sadakodoesjapan/home.html – oh my word – that Sadako gets about, doesn’t she 🙂
http://www.theblackmoon.com/Deadmoon/ring.htmlThe Black Moon‘s Ring page, focusing on the mythology and the manga in particular
http://www2.tba.t-com.ne.jp/ymkazu/t-loop.htmlLoopKai [Japanese only]
http://forums.neuroactive.net/index12.html – French Ring forum
http://www.geocities.com/morikai/ring/RS00.htmlincludes all 12 episodes of the Ring:Saishuushou TV-series
http://www.braineater.com/ringu.html – Braineater’s great Ring pages
http://www.tokyoprojekt.com/ – there’s a triple whammy of reviews of the three best-known of the Japanese Ring movies here, all on one page – Ring, Ring 2 and Ring 0 – well-researched and pretty thorough, and well worth reading
http://membres.lycos.fr/thefish2002/ring.htmThe Fish, with a very cool Flash animation based around the cursed videotape… [French only]
http://web.tiscali.it/japop90/Registi/nakata.html – Italian interview with Nakata Hideo
http://www.mars.dti.ne.jp/%7Eyukiko/index.html – official Nakata Hideo website [Japanese only]
http://www.asiancult.com/cgi-bin/webcart/webcart.cgi?CHANGE=YES&NEXTPAGE=/hotstuff.htm&CODE=126 – you know, it’s a Ring universe, and we all just live in it 🙂
http://home.swipnet.se/tommybergskold/ – Tommy Bergsköld’s great new site, another Ring-addict and a fun page with lots of links – including Swedish ones!

Remake links

http://www33.brinkster.com/insideff/ – Robert Martinez’s very comprehensive collection of The Ring screenshots.
http://www.moviecentre.net/movies/t/thering/ – more info, images and a review
http://www.hollywood.com/multimedia/detail/media/1112764 – you can get trailers from here
 http://www.destroy-all-monsters.com/theringtwo.shtml – Destroy All Monsters do a super-thorough job of the remake sequel, as ever

[1]              Il romanzo è stato pubblicato anche in traduzione italiana, Koji Suzuki, Ring, Ed.Nord, Milano 2003, come pure gli alri due testi della trilogia: Loop e Spiral.

[2]              Questa sorta di anonimità è un motivo di particolare rilievo nel fenomeno Ring ed è un carattere che lo avvicina alle fiabe, ai miti, alle barzellette e appunto alle moderne leggende metropolitane e a certe produzioni che circolano nella rete.  Con tutto il necessario rispetto, trovo più interessanti per capire cosa avviene a livello dell’immaginario i prodotti “di genere” (che spesso diventano cicli che non si devono allo stesso regista) rispetto ai film d’autore, che pretendono l’espressione in nome proprio. La presunzione dell’autorialità è ciò che produce la contraddizione sconcertante di cui parla Cinzia Soldano nel suo contributo in questo stesso numero della rivista.

[3]              Nella “Ring fever” c’è davvero di che perdersi, ma per le informazioni fondamentali conviene partire dai siti ufficiali e da Ringworld, in Appendice una serie di links utili per la ricerca. Interessante l’intervista al regista di Ringu e poi del secondo Ring americano Hideo Nakata: The “Ring” Master: Interview With Hideo Nakata, in “Offscreen”, July (2000).

[4]              Distillando il tema del contagio del male con l’eliminazione della questione “fanta-tecnologica” del virus presente nel racconto. La questione del virus è ripresa dalla versione coreana The Ring Virus.

[5]              Questo aspetto di aumento della capacità terrorizzante legata al tema della ripetizione che è al centro tematico del film è stato rilevato da Matthew Sharpe, Repetition: The Ring and the Diabolical Imaginary, in “Cinetext”, September (2003)

[6]              Sul furto del potere oracolare: Sabina Crippa, Sulle tracce del sapere oracolare in Il divino concepito da noi, a cura di Luce Irigaray, numero monografico di “Inchiesta”, 85-86 (1989) e Luce Irigaray, Sessi e genealogie, La Tartaruga, Milano 1989.

[7]              Nicole Loraux, Come uccidere tragicamente una donna, Laterza, Bari 1988.

[8]              Il concetto compare in più luoghi freudiani ma ha la sua trattazione più ampia nel saggio Das Unheimliche del 1919, in Opere, Boringhieri, Torino 1966-80, Vol.9.

[9]              Per chi volesse, comunque, consiglierei di partire da un testo che predilige un’altra traduzione, quello di Graziella Berto, Freud, Heidegger. Lo spaesamento, Bompiani, Milano 1999, che offre un’interessante ricostruzione del dibattito filosofico. Tra le letture femminili della questione: Helene Cixous, La fiction et ses fantomes. Une lecture de l’Unhemliche de Freud, in Poétique, 10 (1972). Per il rapporto con la scrittura femminile: La perturbante, a cura di Eleonora Chiti, Monica Farnetti e Uta Treder, Morlacchi, Perugia 2003.

[10]            Julia Kristeva, Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Spirali, Milano 1981, ma anche il suo Stranieri a se stessi (Feltrinelli, Milano 1990) è stato importante per il tema.

[11]            Mary Douglas, Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù, il Mulino, Bologna 1975; Ead., Come percepiamo il pericolo. Antropologia del rischio, Feltrinelli, Milano 1991; Ead., Rischio e colpa, il Mulino, Bologna 1996.

[12]            Va comunque riconosciuto che anche Freud nel saggio sul perturbante parlando della paura di “essere seppelliti vivi” accenna al “fantasma di un’esistenza intrauterina”.

[13]            Questa rimozione originaria assumerebbe, volendo accogliere i suggerimenti di Lacan ma soprattutto di Judith Butler, più propriamente i tratti di una forclusione.

[14]            Su Kristeva e il materno si veda il saggio di Bettina Schmitz in questo stesso numero della rivista.

[15]            Barbara Creed, The Monstruos-Feminine: Film, Feminism, Psychoanalysis, Routledge, London 1993. Per una ricognizione della questione: Lidia Curti, Luisa Betti e Silvana Carotenuto,  Corpo abietto e icona tecnologica: il sublime femminile tra cinema e letteratura, in Patrizia Calefato (a cura di), Cartografie dell’immaginario: cinema, corpo, memoria, Luca Sassella, Roma 2000.

[16]            A partire dal suo saggio Madri, mostri e macchine, nell’omonima raccolta curata da Anna Maria Crispino (manifestolibri, Roma 1996) ma soprattutto nel suo In metamorfosi, Feltrinelli, Milano 2003.

[17]            Non mi soffermo su questa questione del ritorno massiccio di forme fantasmatiche nell’epoca del lutto per la morte del patriarcato perché ne ho trattato nell’ultimo libro di Diotima, L’ombra della madre, Liguori, Napoli 2007.

[18]            Quando fa davvero paura: l’horror non può evitare questa fondamentale “prova di realtà”, la sua presa è quella di un immaginario che fa presa fortemente sul corpo.

[19]            Hélène Cixous, Le rire de la Méduse, in “L’Arc” n.61 (1975), una tr. in Critiche femministe e teorie letterarie, a cura di Raffaella Baccolini,  Clueb, Bologna 1997, ma una traduzione è in rete in Il sito di Medusa dell’Università di Bergamo che offre una quantità di materiali visivi, testuali e bibliografici.

[20]            Tra i tanti riferimenti possibili è d’obbligo almeno quello al saggio di Freud, La testa di Medusa, in Opere, cit., vol.9, che la connette alla paura della castrazione, e quello a J.P.Vernant, La morte negli occhi, il Mulino, Bologna 1987. Celebre anche la lettura della  “ bellezza medusea” di Mario Praz in La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Sansoni, Firenze 1991. Recentemente anche Adriana Cavarero ha ripreso l’immagine di Medusa mettendola al centro della sua riflessione sull’orrore nella violenza contemporanea, nel suo Orrorismo. Ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano 2007. Giustamente Cavarero accosta a Medusa l’altra classica figura dell’orrore femminile, Medea assassina dei figli: in Ring ritornano entrambe come figlia e madre.

[21]            Teresa De Lauretis ha suggerito che lo schermo cinematografico riprende la funzione dello scudo di Perseo che usato come specchio protegge dallo sguardo di Medusa, la cui testa finisce poi “appesa a schermi, muri, tabelloni pubblicitari e altri scudi dell’identità maschile” (Sui generis. Scritti di teoria femminista, Milano, Feltrinelli, 1996).

[22]            Irigaray oltre a individuare in un primo matricidio l’origine dell’ordine paterno (facendo leva appunto sull’Orestea e il seppellimento delle Erinni difensore del diritto della madre) pone l’accento sull’interruzione della genealogia madre-figlia, il cui schema è delineato nel mito di Demetra e Kore. I due temi ritornano nei tanti scritti di Irigaray, tra questi di particolare rilievo per il tema in oggetto: Il corpo a corpo con la madre, in Sessi e Genealogie, La Tartaruga, Milano 1989; Amante marina, Feltrinelli, Milano 1981; Etica della differenza sessuale, Feltrinelli, Milano 1985.

[23]            Il termine deinon, del quale si è spesso lamentata l’intraducibilità, indica un terrore che incute anche sacra venerazione, Heidegger propose di tradurlo con unheimlich (guarda caso nel commento all’inno “Der Ister” di Hoelderlin e relativamente all’Antigone). Il legame con l’orrore del materno mi pare evidente, e ciò ben chiarisce la funzionalità all’ordine della città che il seppellimento di questo orrore dichiara nell’Orestea: è l’orrore senza cui non c’è legge.

[24]            La tesi che alla narrazione in quanto tale sia sotteso un modulo narrativo che ripete le vicende mitiche dell’eroe maschile secondo una traiettoria edipica di definizione soggettiva nella quale il femminile ha il ruolo di ostacolo (Sfinge/Medusa) è sostenuta da Teresa De Lauretis, Desiderio e narrazione, in Ead., Sui generis, cit.

[25]            L’espressione è di Pieraldo Rovatti (Il declino della luce, Marietti, Genova 1988) che la coniò sviluppando le tesi di Derrida sulla centralità della metafora solare nella nostra tradizione fallo-logocentrica.

[26]            La citazione del frammento di Anassimandro sembrerà un po’ esagerata, ma naturalmente “e donde viene agli esseri la nascita, là avviene anche la loro dissoluzione/ secondo necessità; poiché si pagano l’un l’altro l’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo”, dove non solo si dà la co-originarietà di nascita e morte, e la differenza nell’origine, ma anche la catena riproduttiva e vendicativa dell’ingiustizia…

[27]            Una dettagliata analisi del perturbante in Ring, in un serrato confronto tra la versione giapponese e quella americana è condotta da Sarah Mckay Ball, The Uncanny in Japanese and American Horror Film: Hideo Nakata’s Ringu and Gore Verbinski’s Ring, Master Thesis,  North Carolina State University, under direction of  Maria Pramaggiore, 2006.

[28]            Un tema presente in molti altri film, basti pensare a Videodrome o a Poltergeist. La paura del ritorno della corporeità nell’epoca dell’immateriale e delle tecnologie della virtualità è la chiave di lettura privilegiata da Eimi Ozawa, Remaking Corporeality and Spatiality: U.S. Adaptations of Japanese Horror Films, in “49th Parallel Conference” Special Edition, n.1 (2006)

[29]            La sottolineatura dell’essere la morte il perturbante per eccellenza è di Hélène Cixous, La fiction et ses fantomes. Une lecture de l’Unhemliche de Freud, in “Poetique”, n.10 (1972).

[30]            Brenda Jordan, Yurei: Tales of Female Ghosts, in Japanese Ghosts  and Demons: Art of the Supernatural, Stephen Addiss ed. (New York: George Braziller, Inc., in association with the Spencer Museum of Art, University of Kansas, 1985). Available through Electronic Reserves

 

[31]            Il pericolo è insomma quello del “continuum materno”, per usare il concetto di Adrienne Rich, o ancora della “riproduzione del materno” per usare invece quello di Nancy Chodorow.

[32]            La camminata si è ispirata al teatro Ankoku Butoh (danza dell’oscurità) di Tatsumi Hijikata e Kazuo Ohno, volta alla “rivolta della carne” e ad una ricerca nella quale non ci si esprima attraverso il corpo, ma si lasci il corpo parlare da se stesso. A questa tecnica si è aggiunto un effetto particolarmente inquietante ottenuto girando i passi di Sadako a ritroso: è un procedere che è un regredire, movimento all’indietro che va avanti..

[33]            Il pozzo è anche il luogo dove secondo la tradizione è avvenuta la rivelazione del Tao, su questo e sul rapporto Tao/Chora nel ciclo di Ring il bel saggio: Hui Peng Constance Goh, Transfiguration: The Shape-shifting Power and Terror of the Sublime Machine, in “Asia Culture Forum” 2006 /Transformation & Prospect toward Multhiethnic, Multiracial & Multicultural Society: Enhancing Intercultural Communication, Session 1.

[34]            La più decisa in questo senso è quella di Eric White, Case Study: Nakata Hideo’s Ringu and Ringu 2, in Japanese Horror Cinema, Un.of Haway Press, Honolulu 2005. Ma anche Bruce Stone, Decoding “The Ring”, in “Salon” (2007)

[35]            Cfr. Eimi Ozawa, cit.

[36]            Jui-hua Tseng ha proposto una interpretazione di Ring sulla base di Baudrillard vedendovi il nodo della circolazione dei segni che continuamente rimandano a segni in uno spostamento infinito, Sadako rappresenterebbe il “ritorno dello sguardo” in senso lacaniano (The Ring That Screws: On the Metastasis of Terror and Evilness in the Age of Globalization, testo scaricabile in rete).

[37]            Ad esempio Mathhew Sharpe, cit.

[38]            Colette Balmain, Lost in Translation: Otherness and Orientalism in The Ring, in “Diagesis: Journal of the Association for Research into Popular Fictions.  Special Horror Edition”,  No. 7. (ed Gina Wisker) Summer 2004-7-21, pp. 69-77. L’autrice sottolinea il rapporto con l’immagine del pericolo femminile, tema sviluppato nel suo Vengeful Virgins in White: Female Monstrosity in Asian Cinema, in Monsters and the Monstrous: Myths and Metaphors of Enduring Evil, 2nd Edition, Paul Yoder and Peter Mario Kreuter editors, http://www.inter-disciplinary.net/publishing/idp/eBooks/mammme.htm

[39]            Sono molte le interpretazioni che si avvalgono del caso di Ring per esplorare il passaggio tra culture, praticamente tutte quelle citate fanno riferimento a questo problema.

[40]            E’ la tesi di Caetlin Benson Allott, “Before you die, you see The Ring”. Notes on the Immanent Obsolescence of VHF, in “Jump Cut. A Review of Contemporary Media”, n.49 (2007).

[41]            Tra le analisi che viceversa individuano con precisione l’evento, peraltro tempestivamente annunciato dal femminismo, ha avuto particolare risonanza quella di Slavoj Žižek in Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, Cortina, Milano 2000. Sulla sua diagnosi: Jody Dean, Feminism in Technoculture, testo presentato alla conferenza Feminism 2000, Centre for Women’s and Gender Research, Un. of Bergen (Norway), April 28-29 (2000);  Ida Dominijanni, Ma di che sesso è il soggetto post-edipico?, Il manifesto, 22/7/2003. Rimando anche al mio Con lo spirito materno, in Diotima, L’ombra della madre, cit.

[42]            Jane Flax, Political Philosophy and the Patriarchal Unconscious: Psychoanalytic Perspective on Epistemology and Metaphysics, in Sandra Harding & Merrill B Hintikka (eds), Discovering Reality, D.Reidel, Dordrecht 1983.

 

[43]            Penso al successo dell’horror asiatico, ma anche a quello di film come Il sesto senso e simili, e soprattutto a The Others che tematizza fortemente la paura dell’infanticidio materno, al punto che ne circolò in rete la locandina corretta in The (M)Others. In altre circostanze di grande mutamento del rapporto tra i sessi si verificò un’analoga proliferazione di immaginario mostruoso femminile cinematografico, ad esempio nella lunga stagione della “dark lady” o durante gli anni del femminismo con Rosemary’s Baby, o ancora negli anni ’80 con il ciclo di Alien.

[44]            L’individuazione di questa figura si deve a Carol J. Clover, Men, Women and Chainsaws: Gender in the Modern Horror Film, Princeton Un. Press, Princeton 1992.

[45]            Sadako è diventata un culto, addirittura è stato fatto per lei un funerale con l’intento di placarla.

[46]            L’idea che in molti film horror si stiano delineando riti di passaggio femminili è di Sue Short, Misfit Sisters: Screen Horror as Female Rites, MacMillan, Palgrave 2006. In ig lei vede la figura della madre vendicatrice dell’ingiustizia.

[47]            Nella splendida immagine della madre allo specchio che si pettina i lunghi capelli neri mentre nello sfondo appare la figlia che la guarda dietro la chioma nera spettinata si può forse riconoscere la figura della madre che controlla il potere della propria differenza rendendola accettabile, una madre dell’ordine del padre, e della figlia il cui potere è ancora non domato o indomabile, è la vergine “intatta”. La madre infanticida in questo caso lo è per salvaguardare l’ordine paterno dall’irruzione del male, come nella morale di Ring2. Ma ci sono letture che vedono in Shizuko/Anna la madre in rivolta verso l’ordine simbolico paterno, come quella di Constance Goh, cit.

[48]            Questa analogia con Lacan è stata suggerita da Matthew Sharpe, cit.

[49]            Erich Kuersten, Looking through The Ring: Mecha Medusa & the Otherless Child, in “Acidemic. Journal of Film & Media”, scaricabile in rete. La posizone di Kuerten è sviluppata a partire dalla critica delle posizioni di Laura Mulvey sullo sguardo maschile nel cinema  e di Gaylyn Studlar sullo sguardo masochista come difesa dalla madre.

[50]            Il cerchio di Ring ricorda anche un sole nero che associato alla depressione e il suicidio della madre Shizuko/Anna riporta alla mente l’immagine di Julia Kristeva, Sole nero. Depressione e malinconia, Feltrinelli, Miano1989.