Perché il nome “donna” oggi causa aspri conflitti e turbamenti?
[Trascrizione dell’incontro per il ciclo Genere e Differenza sessuale tenutosi al Circolo della Rosa di Verona]
Annarosa
Grazie a tutte voi che siete qui, a Laura e Morena per questo invito.
Oggi abbiamo da affrontare qualcosa da un lato divertente, dall’altro parecchio controverso, come dice il titolo di questo incontro. L’idea di dare questo titolo mi è venuta grazie all’amicizia, a cui tengo molto, con Max, con cui dialogherò (e dialogherete anche voi), ma anche per una mia esperienza personale che riguarda una specie di shock che ho avuto nel sentire pronunciare il nome donna durante un insegnamento che stavo dando in un master al quale Max si era iscritto.
Ho iniziato la conoscenza della classe con il solito appello, ho letto i nomi così come mi erano stati dati dalla segreteria dell’università IUAV di Venezia. Arrivo a Massimo Simonetto e ovviamente dico: «Massimo Simonetto è presente?» e lui, consideravo di doverlo pensare come lui, mi dice: «No, io non mi chiamo Massimo, sono Max». Ho capito al volo la situazione, e Max ha detto in seguito, durante una lezione successiva: «…io mi sento donna».
Questa è una breve introduzione a quello che vorrei dire qui. Non avevo mai più considerato sensibile il nome donna dal momento in cui ho fatto il mio percorso per assumere veramente questo nome; poi vi dirò in che momento è avvenuta questa assunzione in piena coscienza, per dire così. Da molto tempo non avevo nessun tipo di turbamento né difficoltà e nulla che mi potesse, di nuovo, mettere di fronte al significato o alla difficoltà di pronunciare questo nome in pubblico. Al master IUAV sono stata presa da una specie di shock che mi ha fatto riprendere da capo, in qualche modo, tra me e me, il percorso che avevo fatto per potere dire: «io sono una donna». Mi sono chiesta se potessi condividere questo nome con altri sessi e generi. Questa è stata la cosa interessante che metto sul tavolo della discussione comune: tra l’altro Max sa bene che a un certo punto mi sentivo quasi infuriata dalla contestazione che stava crescendo all’interno della mia relazione con i partecipanti e le partecipanti al master. La contestazione era rivolta alle consuete declinazioni grammaticali, oltre al fatto che parlavo di donne molto disinvoltamente essendo, come ben sapete tutte quante e tutti quanti, una filosofa della differenza sessuale che si è conquistata questo nome, e se lo riconquista quasi ogni giorno.
Quando è montata la contestazione, qual è stata la mia reazione?
La mia reazione, forse interessante in quanto formatrice-docente, riguardava la decisione di mantenere pensabile la differenza tra i sessi, o di far cadere nel nulla il conflitto. Mi sono trovata in difficoltà soprattutto sulla possibilità della condivisione del nome: ho pensato ad un certo punto che il nome donna bisogna conquistarselo, chiunque esso o essa siano. Non è un nome che si può assumere così semplicemente, con nonchalance, oppure pretendendolo, per vicissitudini personali, per transiti, per percorsi più o meno dolorosi più o meno felici della propria storia. Non credo che in nessuno di questi casi sia possibile la semplificazione, ma nemmeno nel caso di una donna di sesso femminile che vuole dare un significato di genere a “donna”; non è possibile assumere questo nome semplicemente, né per auto-riconoscimento biologico, né in qualsiasi altro caso. Mi sono sentita spinta a viva forza in un aspro conflitto che ho deciso di percorrere. Max lo sa, era presente: tante volte ho accettato di misurarmi con ogni obiezione che mi veniva rivolta, anche con quelle francamente non rispettose.
Mi sono detta: «D’accordo. Sono pronta». In certi momenti arrivavo al limite della sopportazione e della mia dotazione di pazienza. Ho detto alla classe:
Se volete chiamarvi donne, che siate genericamente queer, che siate trans, che siate femmine, che siate maschi, dovete assumere non solo il nome ma tutta la storia che contiene; vi dovete assumere il fatto che noi donne siamo ancora uccise in quanto donne, vi dovete assumere il fatto che il corpo della donna è un luogo pubblico da millenni. Se vi assumete fin nel profondo, come ho fatto io, tutto questo, allora potete dire “mi sento donna”, perché è questo essere donna: riuscire a entrare in una genealogia dove in fondo il riconoscimento biologico è la cosa minore, il resto riguarda la storicizzazione del nome e di tutto quello che ha significato nella storia questo nome, che io sento profondamente di avere conquistato come una genealogia che mi segue, che voglio onorare e rispettare e che mi permette di dire tranquillamente “io sono una donna”.
Questa è la questione, quindi ho detto: no, non sono in grado di condividere questo nome così semplicemente per un auto-riconoscimento come usa farsi citando l’identità di genere; abbiamo lavorato a lungo, in vari modi, anche indirettamente, su questi temi e su questi nomi e direi che alla fine quasi tutta la classe mi ha voluto bene, ricambiata. Siamo arrivate a un punto in cui mi sono sentita rispettata, e spero di aver fatto sentire il rispetto che provo per i percorsi soggettivi che attraversano tutte le storie che ho potuto avvicinare. Questo è l’esito di una relazione che credo di avere sviluppato con Max, con cui spero di poter portare avanti nel futuro i risultati molto gratificanti di uno scambio molto duro, in certi momenti, ma che ha chiarito molto più di quanto si fa con il mainstream politicamente corretto. Adottando senza riflettere (cosa impossibile per me) il “politicamente corretto” avrei dovuto dire: «Ma sì, ma certo perché no? se ti senti una donna benissimo, che problema c’è? Non sentirti discriminat*, sentiti inclus*», inciampando ogni momento sulle declinazioni. Il problema invece c’era e c’è, l’ho affrontato per la mia parte coraggiosamente, e per la loro parte, per quelli e quelle che hanno accettato il conflitto, altrettanto coraggiosamente.
Ora, la difficoltà che pongo alla discussione si può riassumere così: per poter fare il percorso che abbiamo fatto io, Max e altri/e al master, bisogna abbandonare tutte le identificazioni non elaborate, i suggerimenti dei media, i mainstream vari e il politicamente corretto. Una volta ancora di più vale mettere in gioco la propria soggettività, anche quando il proprio percorso e i travagli soggettivi portano a contrapposizioni abbastanza difficili da sostenere. Alcune volte, come è capitato a me in alcuni contesti, occorre anche sostenere attacchi personali piuttosto violenti. Ma è bene avere coraggio perché il coraggio garantisce l’autenticità di certe scelte e ne chiarisce anche una radice non banale, soprattutto non facile da ripiantare in terreni che hanno già una loro composizione, una stratificazione storica che non accoglie facilmente tutte le nuove piante.
Desidero ribadire che non ero disposta, e non lo sono ancora, a condividere il nome donna semplicemente per altrui auto-identificazione. Grazie ad un libro, che consiglio di leggere dato che è una ricognizione molto interessante, sappiamo molto della storia del concetto “donna”. Il libro è Donna: storia e critica di un concetto polemico[1] di Paola Rudan, consigliato al master. In questo testo si può percorrere la storia che il nome ha sostenuto, il percorso che ha fatto a partire da Christine de Pizan.
Ora, arrivo ad alcune considerazioni che possono essere oggetto di discussione solamente se sono innestabili in un percorso personale, altrimenti diventano semplicemente dichiarazioni di principio, oppure tracce di una ricerca storico-teorica.
Donna è un concetto soggetto alle perturbazioni storiche. Diventa efficace politicamente nel momento in cui una, oppure tante come abbiamo fatto nel femminismo mondiale, pretendono di dargli un peso e un significato di posizione autonoma storica, un significato di autodefinizione autonoma soggettiva, contro ogni dominio che opprime questo nome. Ripeto: questo nome ha avuto, nel corso della storia, parecchie accezioni e/o perversioni da sopportare, come la “domina” che governa la casa. Ma già dall’inizio non indica nulla di biologicamente significativo, sta a significare una posizione, forse politicamente importante. Storicamente un po’ più vicino a noi, può indicare una posizione che oggi chiameremmo di ruolo, di stereotipo. Se, probabilmente, il concetto viene da una illuminazione della genealogia maschile, allora si capisce perché io e molte altre ribelli a vario titolo nell’adolescenza – o emancipate, con madri che sono state sulla via dell’emancipazione o si sono veramente emancipate – non abbiamo considerato interessante, fino a un certo punto, il valore di chiamarsi “donna”. Nella mia adolescenza non mi confrontavo con un nome del genere, era fuori dalla portata, e se fosse apparso, sarebbe stato immediatamente messo dalla parte dei ruoli patriarcali, come indicava lo stigma sociale delle donne “angelo del focolare”.
Per molto tempo, tempo di emancipazione, questo nome è rimasto imbarazzante o, come nel mio caso, non era considerato essenziale per definirsi, anzi, per la formazione filosofica e politica che molte di noi hanno ricevuto si consigliava di porsi piuttosto fra quelli/e che non fanno differenze per tentare in qualche modo di entrare nel mondo maschile, messo in forma dalla filosofia maschile.
Da giovane-donna ho frequentato l’UDI con entusiasmo, ma poi, all’inizio dell’Università Statale di Milano, mentre vagavo, assetata di nutrimento e per niente contenta di quello che stavo studiando, ho visto nella libreria interna alla Statale dei piccoli libri verdi: erano copie di Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi. Questo titolo mi ha fatto sobbalzare poiché consideravo Hegel come un colosso inarrivabile del pensiero, anche se misogino per la sua parte. L’ho acquistato immediatamente e devo confessare di essere precipitata in un malessere quasi estremo, in quella famosa crisi che, se non c’è, non può trasformare. Se non capita quella crisi che sgretola le false identità costruite non si cambia, e tanto meno ci si trasforma.
A quel punto, il nome donna è diventato incendiario per me, è diventato qualcosa che sgretolava mille sovrapposizioni, mille autoinganni. Da lì è iniziata finalmente la vita profonda del mio saper pensare, da quel momento la mia vita si è messa su binari giusti. Certo, vorrei con simpatia dire a Max: c’è un prezzo da pagare in questo transito perché non si decostruiscono esistenze gratis. Prima avviene la crisi dentro di sé, poiché si deve dare qualcosa in cambio al mondo che lasci, ma non la sua damnatio memoriae:il pagamento consiste nell’apertura di un conflitto, che possiamo considerare amoroso, sia con il vecchio sia con il nuovo.
“Donna” è un concetto efficacemente politico, nel momento in cui si assume la posizione di essere contro il dominio che vuole assoggettare le donne, ma può essere anche una posizione contro ogni dominio che opprime, anche il dominio di chi oggi vuole cancellare questo nome, o di chi vuole appropriarsene mantenendo tuttavia commerci con l’ordine dominante. Sta a ciascuno e ciascuna di noi renderci conto di chi siano queste e quest’ultimi. Se, invece, diventa «una posizione contro ogni dominio che opprime» allora sì che diventa un nome disponibile per chiunque, ma a questa condizione, e solamente a questa condizione. Lo affermo per scienza ed esperienza.
“Donna” può essere disponibile se si comprende che, per molte femmine, l’istanza-donna si congiunge al fatto biologico e non si può separare più, essendo la vicenda delle donne quella di avere visto il proprio corpo usato sempre come luogo pubblico. Da questo ne consegue che anche il mio stesso corpo è politico, come ben sappiamo, e dunque donna non è più, come un tempo fu, solo un’indicazione di ruolo, non lo può più essere. Il femminismo radicale della differenza ha già così bene decostruito le perversioni concettuali, al punto che io so di essere una donna, sono psico-fisicamente tale perché considero anche il mio corpo trattato politicamente da parte del dominio, e quindi so che il mio corpo è politico, e quindi so di essere un’unità psicofisica.
Da quel momento d’irritazione, quasi di disperazione che mi ha preso in quell’aula dello IUAV di Venezia, ho potuto chiarirmi quanto fosse giusto, allora, che non volessi condividere questo nome, affrontato troppo semplicisticamente. Con il percorso che ho fatto successivamente, ora posso dire che posso condividere questo nome se, chi lo vuole, chi lo desidera assumere, si è reso o resa conto che si riferisce soprattutto all’unità psicofisica che è “me stessa”. Se è una trans, può avere accesso a alcune esperienze fisiologiche, alcune esperienze relazionali, ma non a altre esperienze che possono capitare solo quando si è una unità psicofisica come quella che si può rappresentare soggettivamente in quanto donna.
Posso condividere il nome donna se lo si prende come rappresentante dell’istanza eterna e relazionale contro ogni dominio, qualsiasi dominio. Per questo si scrive spesso che il femminismo non lotta mai per sé solo ma lotta per tutti e per tutte, perché ha coscienza del fatto che le donne sono sempre state esterne alla costruzione del dominio e alla gestione del potere, inteso come dominio.
Noi donne, in generale, non siamo autrici storiche della costruzione del potere, ma molte sono ancora sottoposte a quella forma di dominio intellettuale che è la misoginia, diventata in gran parte inconscia nei maschi. A causa dei cambiamenti storici, mentre fino a qualche decennio fa la misoginia si poteva esplicitare, ora è quasi sempre occultata nell’inconscio o negli atti mancati o in tante aggressioni che avvengono quotidianamente negli uffici, negli studi, in casa e ovunque, anche a opera di amici. Anche gli amici a volte non riescono a capire quanto disprezzo per la mente femminile ha preso dimora nel loro inconscio storico. Attualmente la misoginia viaggia sul terreno dell’inconsapevolezza, o dell’ignoranza, in tante piccole dimensioni e a livelli differenti, accompagnando il disprezzo coriaceo rivolto alle donne.
Proprio perché non siamo autrici del dominio, le donne intese come le sto intendendo qui sono capaci di lottare, di sottrarsi e, in qualche modo, di decostruire sempre quel dominio! Chi desidera chiamarsi “donna”, dovrebbe venire a sapere che questo è il nome della capacità di sottrarsi, della capacità di valorizzare la differenza di essere donne: il femminismo della differenza, altrimenti, rende indisponibile questo nome. Quindi il nome non va assolutamente cancellato, né irriso, né accalappiato: è un concetto politico che nella storia è diventato il concetto politico delle posizioni di chi non ha partecipato al dominio.
Siccome molti uomini hanno partecipato alla costruzione del dominio, noi donne non possiamo dire: «io sono un uomo» perché se lo affermassimo, anche per riconoscerci in pratiche sessuali con questo orientamento, considereremmo desiderabile assumere un’identità che descrive il genere “uomo” costruttore della forma-dominio. Noi donne non possiamo fare l’operazione contraria a chi, uomo, intende assumere il nome di “donna”, disponibile ad oggi a certe condizioni. “Uomo”, al contrario, è sempre stato disponibile perché imposto come universale neutro. Ebbene, oggi dico che vorrei fosse cancellata la sua disponibilità universale. Vorrei che “uomo”, rimanesse appannaggio dei soli maschi o di chi intende diventare maschio. Infine, desidererei che si finisse con la stupidaggine un po’ proterva (da razza padrona) di non voler chiudere la bocca quando qualche femmina dice “io sono una donna”.
Ecco perché possiamo stare insieme “dentro” questo concetto operativo, soggettivo, e singolare collettivo, come dice Paola Rudan: singolare perché riguarda la propria soggettività ma collettivo per quello che è successo nella storia; questo nome ha riunito coloro che sono state sottoposte al dominio e che si sono liberate dal dominio perché possano farlo per sempre tutti e tutte.
Max
Grazie, io sono Max Simonetto in italiano utilizzo “lei” come pronome. In realtà subito mi ha un po’ colpita questa restituzione dell’esperienza di Annarosa perché è stato un anno molto complicato, molto intenso e non ho le sue stesse capacità oratorie, utili per farmi comprendere. Però più che giustificarmi rispetto al passato io partirei da come mi definisco oggi perché da qualche anno, sempre di più, sto abbracciando la mia identità transgender, che per me rimane una questione aperta: per me definirsi trans è avere una questione aperta con il sesso che viene assegnato alla nascita. Se devo fare una puntualizzazione oggi, dico che non mi definisco donna, non mi sento donna (poi arriverò anche al perché di tutto questo).
Una cosa che sicuramente avrò detto in classe allo IUAV è che non mi sentivo uomo, cosa diversa dal fatto che mi è stato assegnato il sesso maschile. La mia esperienza con il genere purtroppo è stata molto legata non tanto ad un percorso di esperienza personale, di confronto e di lavoro interno sulla mia identità ma, soprattutto nell’infanzia e nell’adolescenza, è stato un riflesso di qualcosa che mi arrivava dall’esterno. Anche in tenera età avere un sesso che ti è stato assegnato alla nascita determina cosa vuol dire imparare ad essere un uomo, un maschio.
In più occasioni, per esempio, mi capitava un fatto molto divertente se ci penso oggi: venivo scambiato per una ragazza, per una bambina, e questa cosa mi creava un subbuglio interiore semplicemente perché c’era uno scarto tra quello che mi era stato detto che dovevo essere o che ero, e come venivo percepita fuori. Ricordo un episodio del gelataio che mi offre il gelato e mi chiama bella bambina. Mi ricordo tutte le chiamate al telefono: avendo una voce con un registro abbastanza alto, a volte litigavo con chi stava dall’altro capo del telefono perché metteva in dubbio che io fossi la persona che combaciava con il nome. Dall’altro capo del filo mi si diceva: «ma lei è la sorella, lei è la madre», «no, sono io lo giuro!»
Quindi c’è stato questo per me il primo incontro con il “genere”. Un’esperienza sociale più che individuale, poi approfondita nel momento in cui ho avuto relazioni affettive con dei ragazzi che si aspettavano da me una determinata performance di genere, un determinato essere maschio, una determinata idealizzazione, un ruolo appunto.
In realtà tutta questa serie di stimoli esterni cancellavano un’esperienza interiore che per me è sempre stata vissuta. Soprattutto penso alla prima vera esperienza di relazione che ho avuto con una donna lesbica: all’epoca mi definivo maschio omosessuale, eppure il vivere quella relazione tra di noi, in cui la nostra “queerness”, cioè il nostro essere al di fuori dal progetto etero-normativo, in realtà ci dava spazio di vivere molto serenamente le nostre identità. Io accettavo la sua lei accettava la mia.
Naturalmente poi, nel corso del tempo, la mia consapevolezza è cambiata rispetto all’adolescenza; chiaramente anch’io ho cambiato il mio rapporto con me stessa, però, se devo dirla tutta, nella prima relazione non ho avuto lo stesso livello di scontro, di aspettative che invece provenivano dall’esterno nel rapporto con gli uomini; poi fortunatamente ho avuto anche rapporti con uomini che hanno accettato il mio stare al fuori dai binari, la mia soggettività. Quindi io sempre di più rivendico l’unicità del percorso dell’identità trans.
Questa unicità è un discorso molto complesso poiché riguarda alcune problematiche interne alla comunità trans. Per esempio la mia consapevolezza è arrivata non più di 3-4 anni fa: quando ho fatto per la prima volta coming-out in un ambiente inclusivo trans, con persone trans. Subito mi è stata di nuovo negata la possibilità di utilizzare questo termine, perché non ero trans abbastanza! Ciascuna persona può avere un percorso diverso, esigenze diverse, però il binarismo di genere fa questione anche nella comunità trans, soprattutto nell’aspetto della medicalizzazione, dell’iniziare un processo fisiologico che può essere anche molto complicato e pesante. Fortunatamente oggi non lo è più come lo era sette anni fa, quando per poterti definire “donna” dovevi subire mutilazioni che spesso non erano nemmeno desiderate. Infatti, nel momento in cui non è stato più necessario sottoporsi agli interventi ai genitali per ottenere la ratifica dei documenti dal sistema giuridico italiano, molte persone hanno smesso di farli.
Io mi considero una persona con disabilità psichiche. Questo lo dico per il fatto che stride ancora di più il processo di medicalizzazione richiesto per le persone transgender, un percorso che a volte dura almeno dai 2 ai 3 anni, se va tutto bene. Ottenere la rettifica dei documenti significa fare almeno un anno di psicoterapia, seguiti anche da uno psichiatra; è possibile cominciare dopo un anno di psicoterapia la somministrazione degli ormoni e degli antiandrogeni. Nel caso di M to F, si passa attraverso commissioni esterne in cui viene valutata, tra le altre cose, anche la coerenza della persona in adesione agli stereotipi.
Purtroppo, molte persone trans F to M che conosco sono state caldamente consigliate dall’avvocato ad assumere determinati atteggiamenti di fronte ai giudici, allo psichiatra della commissione esterna; anche semplicemente nel modo di vestire, di comportarsi, di riferirsi a loro stessi nel linguaggio. Capite che non è un processo innocente ma anzi molto disumanizzante e spersonalizzante, in cui si apprende che cosa si dovrebbe essere mentre non si è aiutate a capire cosa si desidera.
Fortunatamente non in tutti i casi è così, e nel frattempo sempre di più persone, come me, sentono che c’è una frizione rispetto al sesso che è stato assegnato alla nascita. In questa stanza, per esempio, ci sono molte donne e tutte sicuramente hanno delle caratteristiche estremamente diverse tra di loro. Molte delle caratteristiche e dei tratti biologici sono in comune probabilmente solo tra due donne, tra due individui qualsiasi ci sono invece più differenze che punti in comune. Quindi, se lo chiamo “sesso assegnato alla nascita” è perché riguarda molto ciò che siamo. Tendo sempre a valorizzare l’esperienza individuale dei soggetti nel momento in cui sento dire, per esempio da Annarosa Buttarelli, che si sente un’unità psicofisica. Non la metto in discussione, ma credo ci sia molto da fare anche con il credere, con il dare fiducia anche alle persone che abbiamo davanti.
Non c’è, nella mia esperienza, il desiderio di utilizzare il termine donna per molti motivi, ma innanzitutto perché riconosco che, se devo andare da un medico, bisogna che dica che ho i testicoli, però ci sono molti uomini che non li hanno perché subiscono degli interventi… Anche molte donne non hanno le mestruazioni, non hanno la possibilità o la volontà di generare figli, quindi se ci stiamo riferendo ad un ordine di tipo biologico per ottenere, per esempio, più diritti nell’ambito della salute, per ottenere rispetto della propria soggettività, bisogna stringere il discorso attorno alla singola persona, avendo riguardo anche verso il “genere” di quella persona, cioè verso l’autoidentificazione di genere.
In questo momento, so che il sistema medico è un sistema basato sugli uomini e per gli uomini. Guarda caso il tumore alla prostata richiede un piccolo intervento, mentre ci sono molte patologie femminili che non vengono studiate, non vengono approfondite e curate. Perciò, non si tratta di cancellare le specificità e le necessità di coloro che si auto-riconoscono come donne, anzi auspico che sempre più si entri nel merito.
La mia condizione di persona trans mette in dubbio molte cose, fa vacillare dentro di me il sistema del sesso, del genere, dell’orientamento sessuale. Infatti, oggi mi definisco persona bisessuale perché mi riconosco nei termini del manifesto bisessuale; è un modo per essere queer, che in italiano tradurrei anche come “frocia”, un termine che nasce con un’accezione molto negativa ma che invece descrive, come posso dire, la non appartenenza all’ordine dato delle cose.
Quindi, nel momento in cui io ho delle relazioni con persone che si definiscono donne, con donne, non smetto di essere una persona queer, una persona che esce dal sistema, soprattutto perché metto in discussione quali sono i diktat del sistema che sappiamo essere etero-normativo e patriarcale, poiché prescrive dei comportamenti, dei modi di sentirsi. Credo fermamente che la lotta delle persone “queer”, la lotta delle persone trans, la lotta delle donne siano intrecciate in maniera molto stretta, come penso abbiano una radice comune le aggressioni omo-transfobiche e la misoginia. Partono tutte dallo screditare l’essere donna ma non solo, anche non essere un uomo, non essere “quel tipo di uomo”. Insomma, cerco sempre di più di abbracciare la singolarità del mio percorso.
Rispetto al tema specifico della serata: mi è chiaro che il termine “donna” crea grandi confitti, ma non credo ci sia una definizione unica e io stesso vengo qui con tante domande più che risposte. Può essere interessante sentire quali sono le posizioni di ciascuna di voi rispetto a cosa vuol dire essere donna, e perché può essere così problematico. Comunque, il lavoro filosofico di Annarosa Buttarelli su questo termine lo considero molto importante.
Per ricollegarmi alla fiducia e al credere alle persone, le esperienze più belle e più significative, per quanto mi riguarda, sono capitate soprattutto nell’ultimo anno e nel momento in cui io ho conosciuto la comunità queer di Bassano, un piccolo collettivo che ora sta attraversando momenti turbolenti. Sono convinta che le cose si risolveranno perché è stato fondamentale l’auto riconoscimento e riconoscersi in soggettività trans che sentivano che qualcosa strideva rispetto al sesso assegnato alla nascita e l’avere un sacco di esperienze comuni, il riconoscersi in pratiche assonanti.
Credo che i momenti più belli siano stati quelli in cui mi sono sentita creduta, e mi sono sorpresa quando Annarosa ha detto che mi ero definita donna, perché non credo di aver mai avuto tanto coraggio da rivendicare un nome per il quale provo tanto rispetto. Ma quando una donna-trans mi dice: «sono una donna» io le credo, anche se sono d’accordo sul fatto che non sia mai una cosa da prendere alla leggera, come non credo che nella maggior parte dei casi ci siano dei secondi fini. Invece, le volte in cui mi sono sentita creduta sono state quelle in cui ho provato più piacere, in cui non mi sono sentita costretta per esempio ad affrontare il famoso percorso disumanizzante e patologizzante. Il “femminile” lo abbraccio dal lato politico, perché nell’esperienza individuale così variegata ci sono molte donne che non abbracciano il sistema di valori dominanti. Per me, può essere pericoloso il termine “donna” soltanto nel momento in cui lo si dà per scontato, mentre se è frutto di un processo di confronto, credo sia la strada più giusta da percorrere.
Annarosa
Max vorrei chiederti questo: secondo te il percorso non è da fare insieme? Proprio perché siamo insieme a fare il lavoro di libertà, di liberazione, non è il caso che si smetta di usare quelle due etichette genere e identità, perché sia l’una che l’altra hanno dentro il rischio dell’identificazione coatta.
Nel corso a Venezia, abbiamo lavorato abbastanza su questo problema: ci sono delle parole che ci fanno agire, non siamo padroni e padrone del significato delle parole. “Genere” è un nome dei ruoli storici ed è una costruzione storica che, proprio perché tale, va sempre decostruita. Poi “identità”, figuriamoci, si direbbe usato come l’altro polo, l’altro piatto della bilancia del nome “differenza”, ma è sbagliato mettere insieme identità e differenza. Mi rendo conto che “identità” certamente ha un’attrazione molto forte, sia per la sicurezza personale dell’orientamento sessuale, sia per un’autoidentificazione. Allora forse tu e io, per dire due che stanno in questa lotta politica, dovremmo, sulla base di quanto ci siamo detti attorno a queste parole, provare ad aiutare il dibattito pubblico, in modo che si sganci un po’ dalle parole ambigue e cariche di aspettative sbagliate. Cosa ne pensi?
Max
Sì, sono d’accordo. Mi ricollego al tema dell’identità come problema con il fatto che, quando mi presento, non uso molti sostantivi legati alla mia descrizione personale. Non desidero avere un’identità! L’identità è un concetto troppo scolpito nella pietra, identico a se stesso. Ma c’è anche una questione legata al linguaggio introiettato: quando, per esempio, mi presento e dico che utilizzo pronomi femminili è come se stessi dando delle coordinate di metodo, ma non mi sto definendo in quel momento.
Il definirmi come persona transgender mi piace perché è un termine talmente ampio… come anche “queer”, come “frocia”, due parole che mi vanno bene – prendiamo sempre in prestito termini dal mondo anglosassone. Per me è rivendicare qualcosa che sfugge, sono parole che sfuggono al definirsi: è un po’ un controsenso, una contraddizione interna, però allo stesso tempo mi fa riflettere su quanto un termine come “donna” potrebbe avere questa carica scombussolante, un termine così potente perché inaccerchiabile, qualcosa che non si può costringere in una forma definitiva.
A me riesce più facilmente (e questo si ricollega anche alla questione del dare fiducia) apprendere con fiducia, con empatia e grande ascolto verso chi mi sta davanti. Nel momento in cui una persona mi fa delle richieste puntuali su alcune coordinate di metodo, anche semplicemente rivolgendosi a me con termini che mi fanno sentire molto bene, ecco per me quello è un venirsi incontro senza etichette.
Sappiamo che il linguaggio ha una doppia natura, da una parte è magico e crea la realtà, dall’altra mia aiuta se non ho le parole per dirmi, a rendermi concreta nella realtà. Ma il linguaggio, dal mio punto di vista è anche un limite, non può contenere la moltitudine del reale. Quindi ci si muove su questo confine molto fragile.
Laura Sebastio
Se posso dire qualcosa, mi sembra di capire che per entrambe il termine “donna” porta a decostruire quel sistema di dominio nel quale pure nasce il termine stesso e anche tu adesso Max dicevi «a me piace definirmi transgender e “queer” piuttosto che donna» perché sono dei termini che sfuggono. Quindi questa cosa mi sembra che possa, in questa fase “definitoria” dei termini, avere la stessa valenza decostruttiva. Ciò che però aggiunge Annarosa e che un po’ mi manca nel tuo discorso, forse anche perché c’è una scarsa cultura in Italia rispetto a certi studi, è il fatto che poi Annarosa abbia aggiunto che del termine “donna” da lei e dalle filosofe della differenza è stata fatta una riappropriazione in un senso politico e critico, e quindi di una differenza rispetto al patriarcato e al punto di vista del maschile neutro.
Max parla solo di qualcosa che decostruisce perlomeno per adesso. Credo comunque che in realtà la comunità degli studi di genere abbia messo in evidenza l’esistenza di una genealogia “queer”, mi viene in mente un libro molto recente di Maya De Leo che si chiama proprio Queer[2] e cerca di fare una genealogia della cultura queer.
La domanda che ti pongo comunque è cosa apportano le riflessioni del pensiero della differenza alla tua esperienza, visto che hai anche una pratica politica rispetto a questo, di costruttivo. Quindi non solo come parte decostruttiva ma anche come parte costruttiva, perché se n’è parlato – ne parlava anche Chiara Zamboni – forse manca o è mancato un porre in scambio quelle che sono le pratiche di libertà delle donne con pratiche di libertà che vengono dalle pratiche politiche di altre comunità.
Max
Rispetto alla questione del termine “donna” ed alla mia appropriazione nel momento in cui viene posto nei termini di una sottrazione rispetto al sistema patriarcale, mi faccio questa domanda sincera: «una donna che agisce supportando logiche patriarcali è una donna o no, non lo è più?». E questa domanda causa aspri conflitti!
Nel momento, per esempio, in cui diciamo “donna” cosa succede quando questa donna è inserita in una “razza”, cosa succede quando entrano le dinamiche di classe all’interno del soggetto donna? La cosa è molto complessa.
In giro c’è molta distruzione, molta messa in crisi: la “queerness” ha principalmente, dal mio punto di vista, un carattere distruttivo rispetto al sistema. Può essere una questione spinosa però una cosa che mi tatuo nel cuore ormai da anni è quello che segue: mi sono trovata in un momento in cui non volevo più utilizzare la teoria per giustificare la mia esistenza, cioè non volevo più dover trovare le argomentazioni, dover rientrare in un discorso. Ho fatto attivismo nel campo dei diritti animali per molti anni durante l’adolescenza e la prima cosa che ho fatto è stata cercare degli appoggi teorici in materia di diritti animali per poter giustificare quello che era un mio sentire.
Quando parlo di “queerness”, parlo dell’esperienza che ho fatto di oppressione o di resistenza all’interno di un sistema fatto di cancellazioni sistemiche non soltanto individuali; per me la “queerness” è una forma di resistenza all’interno di un sistema che quella resistenza vuole cancellare. Sono partita con la distruzione, però tutte le pratiche di ascolto, le pratiche di condivisione di strumenti per parlare alla pari sono tutti percorsi dell’esperienza “queer”.
AnnaMaria:
Volevo capire Max, la tua soggettività politica come si configura? Hai parlato molto di esperienze e azioni costruttive, ma anche di altro. Le tue pratiche politiche: ne hai altre? Chiedevo come ti consideri in quanto soggettività politica?
Max
Forse è una banalità quello che sto per dire, ma tutto quello che facciamo è politico e io considero la mia attività politica molto legata alla militanza nell’ambiente “queer”, ma non solo. Per esempio, ho avuto una bellissima esperienza dalla quale è esplosa la mia consapevolezza su di me con un collettivo trans-femminista intersezionale a Milano: si chiamava «If you’re reading this, it’s not too late», che vuol dire «se stai leggendo questo non è troppo tardi». È un gioco di parole su un messaggio che viene lasciato di solito dalle persone che decidono di togliersi la vita, che scrivono «se stai leggendo, questo ormai è troppo tardi» e invece noi in quel momento ci siamo radunate e radunati, soggettività estremamente diverse, soggettività discriminate per razza, soggettività trans, soggettività queer, un’assemblea estesa. In quel momento abbiamo cercato forme di cura reciproca e di ascolto, abbiamo scambiato strumenti di risposta alle forme di oppressione, risposta non solo dialettica e verbale ma anche somatica: alcune persone nel collettivo fanno anche pratiche artistiche, pratiche di danza, pratiche coreografiche, legate al corpo, anche pratiche di bdsm (bondage sadomaso) – chiaramente con tutto quello che comporta quest’ultima pratica, il consenso, ecc. Abbiamo riflettuto molto su questi strumenti messi a disposizione delle altre persone e quindi per me l’impegno politico è quello che si fa qui, in questa stanza.
Quindi queste sono le attività politiche nel momento in cui si crea una resistenza ad un sistema; io purtroppo, al momento, ho una visione abbastanza pessimistica rispetto alla possibilità di incidere nella politica, però la politica si fa qui, nelle nostre case, nei momenti in cui scambiamo strumenti di resistenza.
Laura Minguzzi
Nell’intervento di Annarosa Buttarelli mi aveva colpito una cosa, che mi ha aveva fatto pensare anche all’intervento di Carlotta Cossutta, quando parlava di soggetto collettivo. Quando si mettono insieme a queste due categorie, “soggetto” e “collettivo” non c’è il rischio che si ritorni di nuovo col collettivo, il discorso della donna come categoria, cioè che si ritorni di nuovo al punto di partenza? Temo che si perda poi la forza che ci ha dato uscire dal discorso dell’angelo del focolare, cioè del ruolo; che non ci sia questo ritorno di nuovo e si dimentichi il precorso di pratica che ci ha portato a liberarci da questa situazione.
Mi è piaciuto molto di Max il modo di parlare delle esperienze in modo così pacato, così empatico. Mi preoccupa però quando ritorna il discorso del sesso assegnato; l’uso di questo linguaggio così neutro mi sembra che cancelli proprio il discorso della nascita come relazione con chi partorisce, con chi mette al mondo. Vedo questo pericolo anche nell’uso della parola identità.
Annarosa
Ho fatto un percorso per arrivare a indicare il nome “donna” come uno dei nomi vuoti, un nome che non può più essere riempito dai ruoli: è un nome che indica una postura, una posizione, ma anche un’unità psicofisica. Si può rendere disponibile, cioè vuoto, un nome delle uscite da sé. In questo senso, non adotto il vocabolario della Rudan; ho indicato solo il suo percorso di riflessione per dire che “donna” è un nome che si declina singolarmente. Io sono della scuola dei nomi vuoti, i grandi nomi che indicano semplicemente, per così dire, delle posizioni, delle posture.
Per il sesso assegnato alla nascita …che dire… mia madre voleva designarmi maschio perché sennò mio padre si sarebbe arrabbiato perché voleva un maschio! La designazione del sesso non è così semplice neanche per le madri. Anche per gli animali molto spesso c’è un momento in cui è indecidibile… insomma mio padre voleva un maschio, mia madre ha fatto di tutto, credo, per cercare di darglielo ma il suo desiderio invece era di avere una femmina e ce l’ha fatta! Però nel momento in cui lei ha detto «oddio non è un maschio» non ha detto subito «questa è una femmina», quindi ha dovuto accettare che io fossi una femmina.
C’è un modo per testimoniare il rispetto di un’alterità: anche certe madri devono accettare. Ecco in questo senso andrei con prudenza con la questione del sesso assegnato, anche questo è un processo che coinvolge più di una persona, e non principalmente il ginecologo.
Max
Su questo voglio fare una precisazione: chiaramente sono figlia del sistema in cui sono nata e quella che io chiamo assegnazione non è una semplice constatazione di un fatto ma ha una serie di implicazioni legate al ruolo. Ancora di più nel momento in cui parlo di sesso assegnato alla nascita, chiaramente non sto parlando della mia battaglia personale, ma indico ciò che avviene con la medicalizzazione della gravidanza, della messa al mondo delle nuove generazioni. Purtroppo, avviene un’assegnazione e le persone inter-sex sono la dimostrazione del fatto che alla nascita avviene un’imposizione. Alcune persone nascono con variazioni cromosomiche, variazioni dei livelli ormonali e vengono immediatamente ricondotte al binarismo di genere, alcune volte con operazioni chirurgiche invasive. Poi succede il disastro, quando in pubertà possono cambiare i livelli ormonali e si scopre che il sesso assegnato alla nascita non era quello che si è poi manifestato, o meglio che la propria espressione somatica si innesta nella complessità del reale. Con la formula «sesso assegnato alla nascita», si denuncia anche la medicalizzazione della vita, l’allontanamento dall’esperienza affettiva di tutto un percorso di salute della persona, dalla nascita alla morte, che viene relegata in luoghi che non sono la casa. Nessuno è innocente, né mia madre né mio padre: anche i miei genitori come tutti i nostri genitori sono immersi in questa società, e io ho trovato un modo per denunciare questa dinamica.
Rinalda
Ho ascoltato questo ciclo di incontri con grandissimo interesse, mi è piaciuto moltissimo. Oggi ho trovato dentro di me, a un certo punto, un ostacolo interiore, una difficoltà sulla quale stare proprio quando ho tentato di mettere assieme l’espressione «sesso assegnato alla nascita» con l’espressione che ha usato, per me bellissima, Chiara Zamboni nel primo incontro: «culla di parole». Veniamo al mondo in una culla di parole. Ecco, questo è il punto sul quale non sono più riuscita a trovare come potevo districarmi all’interno dei miei sentimenti perché quello che penso è che una donna della mia generazione (ho più di 70 anni) è venuta al mondo all’interno di una cosa che, in teoria, sarebbe stata talmente prescrittiva che più di quello non avrebbe potuto esserlo. Mi risulta che in nessun modo, per nessuna ragione, il percorso era assegnato, le cose possibili tutte definite, della mia vita sono riuscita a fare qualcosa di completamente diverso da quello che era stato previsto per me.
Quello che penso però è che tutto questo non c’entri nulla con il genere, con l’assegnazione del sesso alla nascita, così via dicendo… ma che c’entri fondamentalmente con la quantità di lavoro che è possibile fare con sé stessi, prima di tutto, ma sempre insieme ad un’altra o ad altre, per trovare qual è la propria strada, quali sono le cose che si vogliono, che si possono fare, dove si è in grado di arrivare. Da questo punto di vista non riesco a intuire dove sia il miglioramento possibile, però naturalmente con assoluta consapevolezza di quello che diceva Max. Ci sono casi nei quali ci sono violenze, ed è un po’ un altro discorso rispetto a quello che stiamo facendo qui, mi pare che stiamo più sul modo in cui usiamo le parole.
Marina Terragni
Praticamente Annarosa ha raccontato il percorso che è stato di molte, no?
Quello di dover fare i conti con il fatto di essere state chiamate “donne” e poi di affrontare una specie di transizione, mi verrebbe da dire, ed è vero perché corrisponde all’esperienza di tantissime di noi che è quello di risignificare quella parola, che ci aveva fino a un certo punto della nostra vita creato un problema, o più di uno. Mi riconosco in ciò che Annarosa dice. Ma mi chiedo: cosa ne è dell’essere donne, di quelle donne che non sono consapevoli del dominio? Per esempio, una donna che pratica la mutilazione genitale femminile sulla propria figlia non può dirsi “donna”? Oppure può dirsi meno “donna” di un uomo che si dice “donna” alla fine di un percorso come quello che ci ha raccontato Max? Che poi lui stesso non si dice “donna”: ci ha raccontato una storia più complessa del semplice dirsi donna, e questo è un tema importante.
L’altro tema invece è di nuovo l’interferenza con la legge, con la norma, e tu Max raccontavi bene quello che è il percorso previsto dalla legge italiana. Tra l’altro è stata una delle prime leggi ma sicuramente molto imperfetta, perché chiede qualcosa che, credo per gran parte di noi, non si sentirebbe di fare, cioè la mutilazione, l’intervento chirurgico maggiore. Poi ci sono state le sentenze, abbiamo detto più volte che hanno mitigato questa richiesta, però nel momento in cui il dirsi “donna” viene richiesto – il potersi dire donna viene richiesto attraverso la legge e non nella relazione come quella tra te e Annarosa, per esempio, o tra me e altre persone trans – entra in un altro piano di discorso.
In questo ciclo di incontri, che ho trovato bellissimo e molto fecondo di spunti, la cosa che mi ha creato qualche perplessità è stato il fatto di avere evitato il confronto con i conflitti che si sono aperti, a partire proprio dalla definizione dell’identità di genere che già ha decostruito Annarosa, per continuare sul fatto che, su questa definizione, si intendeva costruire una norma penalizzante. Quando si chiede alla comunità di corrispondere con una norma a questi vissuti, fuori dalle relazioni quindi, si creano dei problemi grossi che spesso investono proprio in particolare le donne.
Annarosa
Nel momento in cui si invoca l’ingresso del diritto in un ambito così sensibile come quello relazionale del riconoscimento reciproco, in sostanza del riconoscimento di alterità, non si riesce più a vivere sensatamente in comunità.
Per cui la questione del riconoscimento è fondamentale per le relazioni umane e non solo; se non si riconosce nell’altro la sua soggettività e la sua alterità non c’è più relazione, e purtroppo in questo momento storico è sempre più difficile far avvenire il miracolo della felicità di chi si sente riconosciuto o riconosciuta.
Chiedere che sia la norma a creare il riconoscimento di alterità è un gravissimo errore, perché vuol dire che si demanda al sistema delle norme anche le pene: si demanda il processo relazionale al giudice. L’aspro confronto con chi sostiene una necessità della norma in questo ambito è anche doloroso e forse lo dovrà essere ancora di più, però la posizione delle donne contro ogni dominio non ha mai fatto ricorso al legislatore o al sistema dei diritti e delle pene. Questa è la questione che dobbiamo discutere ancora.
Max
Rispetto a questo punto del ricorrere alla legge, ho una posizione molto ambigua. Da un lato concordo assolutamente con la constatazione che ricorrere dalla legge spesso genera più danni che ripercussioni positive. Allo stesso tempo, nello specifico caso del riconoscimento di un sesso sui documenti, per esempio, non posso cancellare l’esperienza, l’umiliazione di attacchi che subiscono persone a cui voglio molto bene e compagni trans che mentre fanno un esame del sangue vengono segregati mentre subiscono minacce. Quindi è chiaro che la legge e soprattutto il ricorrere alle pene in un sistema legato alle prigioni, alle sanzioni, alla violenza, alla fine non è la soluzione. Però io ho il privilegio di poter andare a fare una vaccinazione perché, per quei dieci minuti, mi faccio andare bene che lì è scritto il nome anagrafico e non mi succede nulla, nel senso che le persone mi vedono e dicono: va bene, questo è un maschio. Però, nel momento in cui ci sono persone la cui vita viene messa, se non a repentaglio, quantomeno di fronte ad un grande disagio, non posso dire a queste persone che ricorrere a una legge sia una cosa sbagliata.
È bellissimo riuscire a vivere negli interstizi di questa società malata e riuscire a trovare forme di resistenza, forme di fuga rispetto alla performance che viene richiesta, ma io mi chiedo (e questa non è una questione di cancellazione d’identità) a che cosa serva scrivere il sesso su un documento nel momento in cui c’è una foto di riconoscimento. Non è innocente il motivo per cui lì c’è un sesso, io credo sia un fatto che arriva da una discriminazione comunque inaggirabile; poi è chiaro che è utile avere dati statistici su quante siano le donne che accedono a quel determinato servizio, quanti sono gli uomini che accedono a quel determinato servizio, ma non mi illuderò mai che, in un sistema come il nostro, il calcolo venga fatto in buona fede e che abbia come scopo il miglioramento della condizione femminile, o maschile.
[1] P. Rudan, Donna: storia e critica di un concetto polemico, Il Mulino, Bologna 2020.
[2] M. De Leo, Queer. Storia culturale della comunità LGBT+, Einaudi, Torino 2021.