diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 4 - 2005

Taglio del presente

Pensare il mondo come ambiente domestico

 

Il titolo molto suggestivo, “Pensare il mondo come ambiente domestico”, è un prestito che prendiamo facendo un omaggio a colei che lo ha coniato, la teologa svizzera Ina Pretorius, una amica, una compagna di strada di alcune di noi, di me e di altre, che hanno tentato di fare una cosa non semplice. Il femminismo italiano, una sua parte, ha cercato di far notare e affermare di fronte alla cultura contemporanea e al nostro contesto di vita sociale, che “le donne pensano”. Perché questa cosa cosi facile da dire, in realtà non è facile articolarla in una comunicazione efficace e efficiente nella sua possibilità di mutare la realtà che ci circonda? Perché è un fatto trascurato nei secoli e almeno fino a quando per “pensiero” si è intesa l’attività dell’intellettuale maschio, magari autore di best-sellers nelle varie epoche storiche.

Allora, pensare il mondo come ambiente domestico ha inizialmente, e prima di tutto, questo significato, che raccoglie la quintessenza di tutto quello che forse potremmo dire: affermare che le donne pensano,  pensano profondamente proprio perché sanno mantenere in vita il mondo a partire da ciò che fanno, ogni giorno nelle loro case. Si pensa mentre si fanno le più piccole azioni che rendono sensato il vivere, non solamente noi, ma anche a quelle e quelli che ci stanno intorno. I cosiddetti “piccoli gesti”, sono piccoli perché sono minuziosi, hanno la precisione e la cura del dettaglio. Anche in questi piccoli gesti c’è già un profondo pensiero, o quantomeno c’è già la possibilità che nasca.

Tutto ciò costituisce un fatto piuttosto complicato e molto affascinante, oltreché contenere un elemento di obbligo: l’obbligo di prendere nota, di rendersi conto che nulla di quello che si fa per tessere la vita quotidiana, e per tenerla sensatamente attiva, presente e degna di essere vissuta, nulla è da scartare, è da buttare nell’angolo delle cose che contano poco sul mercato dei valori di pensiero o dei valori economici. Si può cominciare da questa presa di coscienza, che una volta avviata richiede un grandissimo lavoro simbolico per arrivare a dare frutti nell’area del sapere. Si tratta, appunto, di dare dignità di pensiero a un sapere diesperienza, fondato su ciò che si fa quotidianamente per dare vita alla vita e alla civiltà. Le donne pensano mentre fanno, il loro fare è sostenuto del pensiero. Per prendere autorità da questo fatto, è necessario che ne manifestiamo la potenza, e che ci impegniamo in questo perché, in realtà, molte cose noi le facciamo anche per il gusto di farle, e per il fatto che c’è una forma di necessità piacevole nel farle. Non dico che non sia giusto godere delle proprie azioni quotidiane, anzi. Dico che è un passo importante dare loro la massima autorità possibile.

Ina Pretorius è partita proprio dell’avere registrato che, effettivamente, mentre faceva – e fa – le faccende domestiche provava piacere. Una sensazione difficile da confessare, oggi, da parte di mmolte donne emancipate e tanto più da parte di una donna con un ruolo sociale di prestigio: una studiosa, una teologa, un’insegnante, una manager, un’avvocata, ecc. Ina Praetorius non ha mai abbandonato, e molte di noi come lei, le sue ricerche, i suoi studi, e la sua presenza pubblica, ma, nello stesso tempo, non ha abbandonato il gusto della cura personale dei luoghi in cui vive. Ha avuto il coraggio di non negare proprio questo gusto, questo piacere provato nel fare quello che fa, nel fare quello che molte di noi facciamo nel corso della vita quotidiana.

E’ una grande cosa perché c’è stata una forte spinta rivoluzionaria, partita negli anni settanta, quando è iniziato il cammino del femminismo contemporaneo, non solo italiano ma mondiale. E una parte di questo femminismo ha cominciato giustamente a guardare particolarmente un aspetto della vita delle donne: il fatto che avessero, da sempre, il ruolo di curare l’ambiente domestico, a volte esclusivamente. Molte donne si sono sintonizzate con questa forma di sensibilità, criticando la destinazione di ruolo e cercando di liberarsene in favore della possibilità di avere una vita sostenuta dal lavoro retribuito, fuori dall’ambiente domestico, considerando quello al suo interno come una forma di sfruttamento da rifiutare totalmente. Altre donne, pure ammettendo che il lavoro domestico può essere imposto e quindi fatto in assenza di libertà, hanno valutato che poteva esserci in molti casi una libera scelta femminile da valorizzare e da guardare con rispetto. Se vogliamo provare a considerare questa seconda posizione positivamente, potremo trovare in essa alcune buone ragioni, a fronte di una storia piuttosto lunga che ha visto la presenza di un patriarcato determinato a “ruolizzare” le donne. Questo aspetto del patriarcato, tra gli altri, aveva giustamente provocato una ribellione, una rivolta vera e propria nei confronti del fatto che le donne fossero semplicemente ed esclusivamente considerate buone per fare il lavoro che hanno misteriosamente sempre fatto: curare la vita nelle sue varie declinazioni, nei suoi vari aspetti.  Possiamo dire che questa ribellione, in certi momenti, ha fatto il gioco del patriarcato stesso perché ha considerato il lavoro domestico un tipo di lavoro umiliante, residuale, di grado più basso rispetto a quello retribuito.

Ina Praetorius riconosce di avere un debito con il lavoro del pensiero di alcune donne che non hanno mai rinunciato a considerare che qualsiasi luogo in cui una donna sta, sia nel lavoro, sia nella casa, sia nello spazio considerato convenzionalmente come pubblico, ha un significato imprescindibile per tutti. Il luogo che una donna abita consapevolmente, è un luogo di senso per lei, dove nasce e cresce il senso e il gusto del vivere. Quel luogo ha un significato che va oltre il luogo stesso, diventa pubblico, politico, filosofico, comunque. Ad esempio, la casa è uno di quei luoghi dove si svolgono numerosi riti quotidiani, ma il rito ha una forte valenza, quasi sacra, anche se lo abbiamo dimenticato, nel progredire della nostra cultura che non ha più tensione verso ciò che un tempo fa era sacro. Si sapeva che i riti hanno una valenza importantissima indirizzata a coltivare la vita, non solamente dello spirito, ma anche la vita materiale; sono necessari per tenerla sensata, per tenerla insieme, per tenere validi e proficui tutti i gesti, anche quelli più minuziosi e più piccoli.

La casa è un luogo che le donne continuano a mantenere vivente, almeno fino ad oggi e soprattutto qui in Italia, perché ci sono parti del mondo in cui le cose sono in un movimento diverso. C’è sintonia, invece, con ciò che accade in ambienti geografici molto lontani da noi, nei luoghi dove si svolge la guerra, dove la civiltà, se possiamo ancora chiamarla così, è alla estrema agonia. Lì accadono cose che sono molto simili a quelle che accadevano qui in momento storici molto simili, per esempio durante la guerra e nel dopo guerra: ci sono donne nei luoghi di guerra che continuano, anche di fronte ad un brandello di casa che resta in piedi, o di fronte alle ultime presenze familiari, che restano loro vicine, continuano a fare quello che fanno esattamente in condizioni di vita non estreme, cioè il lavoro domestico e tutti gli altri gesti che rendono abitabile dignitosamente l’ambiente domestico. Ciò che fanno risulta essere, e questa è cosa a cui noi siamo obbligate a dare importanza notevole, l’ultimo e il primo elemento di civiltà che resta quando è tutto in rovina.

Non so se ci si rende conto abbastanza dell’enormità di questo fatto: anche di fronte allo spegnersi della vita, allo spegnersi della ragione, allo spegnersi della speranza, queste minacce sono tamponate, rese inefficaci, proprio del lavoro del mantenere vivo e abitabile l’ambiente domestico, insieme a tutte le relazioni che vi fanno riferimento. Le donne algerine, che vivono da anni nella guerra civile, la prima cosa che fanno – lo sappiamo dalle loro stesse testimonianze – è restituire bellezza ai brandelli di casa che restano quando passano i guerriglieri. Non si fermano troppo a lungo a piangere i morti, non si fermano troppo a lungo a disperarsi, fanno la cosa che hanno fatto probabilmente da sempre, da quando si conosce la storia così come noi la conosciamo, cioè, come una storia costruita con la violenza: addobbano con panni colorati le finestre, vanno a prendere l’acqua, ornano i propri capelli e quelli delle figlie rimaste, spazzano via i calcinacci…

Non è troppo diverso quello che capita nella vita domestica quotidiana, fuori dalle emergenze contingenti: le donne fanno incessantemente ciò che serve per la cura degli esseri umani e dei segni della civiltà che è fatta anche di amore per la bellezza e per l’ornamento.

Il problema, non so quanto grave, è che tutto questo rischia sempre, in tutte le epoche, di restare invisibile e dunque di correre il rischio di essere negato, offeso, non pesato, non amato.

La proposta di Ina Praetorius di “pensare il mondo come ambiente domestico” aiuta a scongiurare proprio il destino di invisibilità simbolica il lavoro quotidiano delle donne che, per lo più, lo avvolgono di mutismo. Pensare che ciò che vale in casa, ciò che si fa in casa e il come lo si fa, valga anche per il resto del mondo dà strumenti per questi punti di impegno conflittuali con l’assetto del mondo contemporaneo:

– mettere in questione l’economia del denaro;

– valorizzare le arti del vivere e farne delle competenze necessarie a donne e uomini (non solo a donne!);

– trovare nomi e autorità alle azioni che si compiono per il mantenimento della vita;

– saper descrivere le competenze necessarie per dare  senso  e qualità alla vita quotidiana

 

Spero risulti evidente che tutto ciò può riaprire uno spazio nella cultura concreta che si occupa di orientare l’economia, in modo che si cessi di considerare il mondo come un grande mercato ad esclusivo uso dei transiti di capitali finanziari.

La posta in gioco è ritrovare la possibilità di pensare il luogo – non solo fisico – in cui ci si prende cura della vita propria e degli altri come il vero luogo primario della esistenza umana. Dunque, le relazioni in cui c’è amore, sono da riproporre come ciò che ha la priorità, anche politica, anche filosofica, rispetto al resto.

 

 

Letture consigliate

Diotima, Il profumo della maestra. Nei laboratori della vita quotidiana, Liguori, Napoli 1999.

Maria Zambrano, All’ombra del dio sconosciuto. Antigone, Eloisa, Diotima, Pratiche, Milano 1997.

  1. Vv., L’oro delle vicine di casa. Una pratica che rende umana la città, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne di Milano, 1998.

Aa. Vv., Fare pace dove c’è guerra, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne di Milano, 2002.

Ivana Trevisani, Lo sguardo oltre le mille colline. Testimonianze del genocidio in Rwanda, BaldiniCastoldiDalai, Milano 2004.