diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo edizione 18 - 2022

Ho seguito il Grande Seminario

Pane e acqua

“L’acqua la insegna la sete”: questo verso di una poesia di Emily Dickinson, citata più volte durante il Grande Seminario di Diotima del 2021, è stato per me un dono di Luisa Muraro, dono ricevuto più di venticinque anni fa, quando ero una studentessa universitaria e, a Verona, seguivo le sue lezioni di filosofia. Verso che mi ha quindi accompagnata in questi lunghi anni, e che potrei definire come la mia personale bussola anche in questa pandemia. Mi è stato soprattutto indispensabile nelle settimane del lockdown 2020, durante le quali sono stata, come molte altre, una prof alle prese con la didattica a distanza e quindi con la necessità di tenere vivo il desiderio di imparare e di studiare delle mie alunne/i. Con loro, per fortuna, avevo avuto modo di stabilire una relazione profonda e intensa già prima del confinamento, per cui abbiamo avuto preziosi momenti di dialogo: davanti allo schermo del pc raccoglievo l’eco delle loro sofferenze e frustrazioni, nelle quali spesso mi sono riconosciuta. Ma, oltre che ascoltare, sentivo il bisogno di trasmettere la preziosità anche dei momenti di scacco, di sofferenza, di ansia e di privazione, e per farlo citavo proprio la Dickinson, “l’acqua la insegna la sete”, appunto: quale occasione migliore della perdita per scoprire ciò che ci riempie la vita? In questo “riempimento della vita”, che è poi riconoscere il senso e la direzione della propria esistenza, per me ci stavano anche i pensieri e le parole di donne e uomini che ho conosciuto attraverso i libri. Così non ho sentito l’insignificanza del fare lezione e loro hanno continuato ad imparare perfino durante il lockdown. La sete di tutta la mia vita mi ha ben insegnato cosa sia l’acqua, dove cercarla, il bisogno e il piacere di berla, e quanto sia indispensabile condividerla.

Quest’anno ho potuto seguire per intero il Grande Seminario, e ad ogni incontro sono intervenuta. Le questioni sollevate mi hanno coinvolta ed emozionata, e sentivo forte il desiderio e l’urgenza di dare il mio contributo alla riflessione comune, che si è svolta con la modalità che a tutte/i noi è mancata molto in questi lunghi mesi: in presenza, all’università, insieme.

Nell’invito al Grande Seminario, si affermava che “la pandemia ci ha portato alle radici della vita, dove il bisogno e il desiderio non sono nettamente separati, ma sono espressioni diverse dello stesso movimento”.  Eppure, durante l’ascolto di alcuni contributi delle amiche di Diotima, mi ha più volte fatta sentire a disagio la distinzione tra “bisogni” e “desiderio”, di cui sono state date varie definizioni e proposti distinguo, quali, ad esempio che il desiderio è singolare e senza oggetto, i bisogni possono essere surrogati o irrinunciabili, il desiderio apre alla trascendenza… Soprattutto quest’ultima affermazione l’ho sentita lontana e astratta, perché ho fatto personalmente esperienza di come anche il bisogno, la necessità materiale, l’assenza, possano aprire all’esperienza della trascendenza e della libertà. Per esempio, durante i mesi del confinamento, e anche nella situazione presente, ancora incerta e difficile, molta della centratura e della forza che ho sentito dentro di me derivano dalle mie esperienze passate: ho già vissuto la costrizione di spazi, l’assenza di mezzi economici, la solitudine, per certi versi l’invisibilità sociale, la precarietà. Ho conosciuto l’urgenza dei bisogni e quanto la necessità possa deprimere e opprimere, ma anche liberare e svelare. Ho sperimentato quanto il bisogno quotidiano possa essere una leva di trascendenza, a patto che non venga recepito come miseria e a patto che sia assunto con autorità. Ammettere il bisogno di cibo e di denaro per sopravvivere nella mia esperienza non è stato molto diverso dal lottare per la verità e la giustizia, perché non si vive mai di solo pane, come sanno bene quelle/i che lottano per esistere simbolicamente e materialmente, e nella mia esperienza non esiste priorità tra queste due istanze. Me lo ha ricordato, tra le altre, la ragazza afgana che ha postato un breve video subito dopo l’ascesa al potere dei Talebani: “Spariremo dalla storia”, ha detto. Prima ancora di “Ci uccideranno tutte” ha descritto il destino delle donne e il suo: essere private di esistenza simbolica, sparire, essere dimenticate.

Per me quindi il bisogno è inseparabile dal desiderio, anche per la constatazione che spesso chi non avverte il bisogno (o fa di tutto per allontanarlo dalla soglia della consapevolezza) smarrisce il desiderio, e che ogni desiderio ha bisogno di incarnarsi in un’esperienza condivisa con altre/i.

Per cui mi sono chiesta spesso, durante il Grande Seminario, da dove nascesse questa cautela nel mettere a contatto, accostare, con-fondere questi due termini, bisogno e desiderio, che pure fanno credo parte dell’esperienza quotidiana di tutte/i.

In passato, questa cautela l’ho sperimentata anch’io. Per quel che mi riguarda, il fatto di essere nata nell’Occidente ricco e privilegiato da un punto di vista materiale, mi ha resa a lungo estremamente pudica nel chiamare il bisogno “bisogno”, forse perché, pur non essendo personalmente né ricca né privilegiata, ero comunque consapevole che a pancia piena quello che nominavo come irrinunciabile per me potesse sembrare, ai miei stessi occhi, un di più lussuoso e poco legittimo rispetto al bisogno di chi muore letteralmente di fame o rischia la vita per attraversare il mare. Questa esitazione credo sia stata sentita anche da altre/i.

Eppure in questo momento storico, mai come adesso, abbiamo l’occasione di scrollarci di dosso questo pudore che sa molto di senso di colpa rimosso: abbiamo finalmente constatato quanto la disparità di ricchezza nel mondo sia una scelta suicida e insensata, eticamente inaccettabile e scandalosa, mortifera per tutti/e. Abbiamo anche capito che la globalizzazione rimescola le carte del potere, del privilegio e della ricchezza, e che l’emergenza climatica ha già finito per livellare destini fino ad ora percepiti come lontanissimi.

Su questo pudore poi, mi sembra di capire, si gioca una precisa strategia del potere (che sembra peraltro non legittimare i reali bisogni di nessuno): qualora si nominino i propri bisogni irrinunciabili, essi appaiano sempre in contrapposizione con quelli di qualcun altro. Mi è sembrato sempre più difficile, in questi mesi, nominare un bisogno che non sembrasse immediatamente percepito “contro” un bisogno altrui; in questa contrapposizione fittizia ma potentissima, sembra così che chiunque “abbia bisogno”, risulti perdente o mancante, privo degli strumenti materiali e simbolici per ottenere ciò che chiede.

Per esempio, il bisogno di sicurezza contro il diritto rivendicato da alcuni/e di non vaccinarsi. Oppure, di questi giorni (fine 2021), il tiro alla fune politico per il rinnovo del bonus edilizio del 110% tanto utile alla ripartenza economica ma avvertito dai sindacati come un pericolo per i lavoratori, che muoiono ogni giorno per assenza di sicurezza nei cantieri improvvisati per sfruttare l’onda delle commesse attivate dal bonus stesso.

So per esperienza che nominare un bisogno così come l’ha espresso Antonietta Potente, con un “mi manca e basta.”, può avere una carica eversiva radicale, e mostrarci la realtà nella quale siamo immersi, che sia il contesto in cui viviamo o la nostra personale biografia, sotto una luce del tutto nuova, carica di energie e di spazi di protagonismo.

Per esempio, se non intendo la libertà come un bisogno, non riesco a leggere, e quindi a comprendere, il tasso dei femminicidi in Italia e nel mondo. Moltissime donne, sapendo di rischiare la vita, ormai non rinunciano a lasciare il proprio partner tossico, violento e miserabile, con la piena consapevolezza di non poter vivere un giorno di più sotto il suo stesso tetto, costi quello che costi. Non converrebbe a queste donne fare calcoli più accorti? Temporeggiare, quando è possibile? Mentire? Queste donne, immagino, ad un certo punto della loro vita hanno dovuto constatare, al di là di ogni calcolo di cautela e di opportunità, di non poter più reggere e, perfino in un Paese come l’Italia, dove in media ogni tre giorni muore una donna (o un bambino/a) per mano di un uomo, non è possibile che non mettano in conto di poter essere la prossima. Cos’è questo? Bisogno di libertà? Desiderio? Si possono distinguere? Ha senso distinguerli?

La mia amica Sandra, infatti, si è chiesta: da chi imparare la libertà se non da una donna che è disposta anche a morire assassinata per mano del suo compagno o ex-compagno violento, pur di essere libera?

Mi pare, e credo di averlo ribadito al Grande Seminario, che la politica delle donne, in questo momento, non si stia prendendo tutto lo spazio pubblico (e privato, forse) che pure sembra oggi disponibile più che mai, dal momento che la pandemia, e la radicalizzazione di alcune strategie del potete (una è quella di cui accennavo prima, dell’alimentare la lotta tra bisogni apparentemente contrapposti e inconciliabili) hanno creato anche crepe e fessure nel monolite del nostro sentire e del nostro vivere quotidiano, in cui abbiamo credo tutte/i dato per scontate molte cose. È un momento propizio, eppure esitiamo.

Questa esitazione può avere anche a che fare con il chiamare i bisogni con il loro nome: bisogni? Di prendere sul serio e con assoluta radicalità la necessità dalla quale ciascuna nostra esistenza si sente spinta e tormentata? Non credo che il problema sarà il riconoscimento di svariati e urgenti bisogni; la scommessa politica mi sembra in questo momento come riusciremo a farli dialogare con quelli di altri/e senza cadere nella trappola della contrapposizione. E c’è anche un altro rischio: che le donne e gli uomini possano prendere paura di fronte alla radicalità dei loro bisogni e, non sentendo la forza e i legami relazionali necessari a sostenerli, possano rinnegarli e tornare ad addomesticarli, invocando un ritorno all’ordine e ad una “normalità” che sembra proteggere anche quando in realtà deprime e distrugge.

E’ un bisogno la felicità, è un bisogno essere amate/i, è un bisogno avere ascolto, avere giustizia, essere libere/i, cercare la bellezza “come qualcosa da creare dentro e fuori di me” (quest’ultimo bisogno, raccontava Antonietta Potente, glielo ha insegnato sua madre). Popoli con bisogni materiali maggiori dei nostri sembrano saperlo meglio di noi.

Non so se la pandemia abbia creato nuovi bisogni; per quel che ho sperimentato, la pandemia mi ha con forza indicato quali sono i miei bisogni essenziali, che però erano già lì, spesso occultati da me stessa a me stessa. Nessuno di questi è surrogato, sono tutti autentici perché intrecciati al senso della mia vita con altri/e. Certamente la pandemia mi ha spinta a prenderli maggiormente in carico, a proclamarli, a rivendicarli, a renderli pubblici, dando contemporaneamente l’autorizzazione ad altri/e a fare altrettanto. In questa esperienza travolgente, dolorosa e liberante, tra bisogni e desiderio per me non c’è più alcuna significativa distinzione. Finalmente la sete. Si tratta ora di capire come l’acqua ci possa essere per tutti/e.

Mi ha colpito molto come la strategia del governo, nel momento delle riaperture, cercasse di distinguere i bisogni surrogati da quelli indispensabili, irrinunciabili, in realtà per stabilire quali attività economiche fosse necessario riaprire per prime. I ristoranti sono surrogati. Anche le discoteche e le sale da ballo. Per certi versi, l’anno scorso, anche la scuola. E via così. C’erano senz’altro ottime ragioni di sicurezza a giustificare queste scelte, ma fino ad un certo punto. Non si è tenuto conto che dietro aperture procrastinabili c’erano vite ed esigenze sacrosante. Una proprietaria/o di ristorante ha bisogno di un reddito, ma può anche darsi che il suo lavoro non si riduca a questo: guadagnarsi il pane. Migliaia di persone gestiscono il loro ristorante con la cura e la dedizione e la passione con la quale io insegno a scuola. Non si tratta di solo reddito. Per i ragazzi/e la chiusura degli spazi di socializzazione ha significato disperazione, rabbia ed esplosione di violenza: non era possibile riaprire, ma, con l’eccezione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e di alcuni clinici, la classe dirigente non ha speso nessuna parola per riconoscere la loro sofferenza. Idem per molte altre esperienze. Non solo è mancato il riconoscimento simbolico dei bisogni in campo, ma li si è colpevolmente contrapposti in un’assenza di ascolto e di ricerca di soluzioni condivise, che ha privato molti/e non solo del reddito, ma del necessario per vivere in un contesto relazionale e sociale: il riconoscimento dell’esistenza. La politica, come ha ricordato Chiara Zamboni in un intervento, dovrebbe essere lo spazio in cui l’altro esiste e c’è la possibilità di ascoltare le esigenze di tutte/i, per trovare le mediazioni, e le soluzioni, più efficaci per il bene comune. La politica, in questo momento, è nelle nostre mani, vincolata alla nostra capacità di ascolto dell’esperienza nostra e altrui. L’ascolto è una pratica che le donne padroneggiano e che hanno insegnato a chiunque volesse impararla, per sentirsi al centro della propria vita. Credo che in questo momento ascoltare e interrogare, con rispetto e tenerezza, siano pratiche politiche assolutamente necessarie.

Il confine del dialogo e della contrattazione dovrebbe allargarsi fino a comprendere il pianeta Terra. Del resto, gli esperti e le esperte continuano a ricordarci che usciremo da questa pandemia, per esempio, solo quando i vaccini saranno messi a disposizione anche dei Paesi che per ora ne sono sprovvisti.

Insomma, credo che la partecipazione a questo Seminario, assieme alle esperienze di questi mesi, mie e di altre/i, mi abbiano convinta che occorra una maggiore radicalità, nella vita e in quello che le donne chiamano politica. Quando ho sentito parlare di “bisogno di sentire piacere”, credo di aver provato quello che Maria Milagros Rivera ha definito “l’orgasmo della parola giusta”. Bisogno e piacere accostati: non sembra eretico? Mi sono sentita vibrare come una corda di violino, e la musica che sentivo abbatteva dualismi che non raccontano nulla dell’esperienza autentica di molte donne, delle mie amiche e di me in primis: corpo e anima (anima corporea); il bisogno d’amore, da condividere; la parola giusta, che produce piacere e di quel piacere le donne hanno bisogno, su quel piacere le donne hanno competenza, con quel tipo di parole le donne hanno saputo lottare senza violenza e fondare una civiltà; il concepire senza coito, il pensiero tattile… Queste espressioni, che se dovessi spiegarle a scuola mi costringerebbero a ricorrere al termine “paradosso”, sono immediatamente comprensibili per me, e vanno nella direzione di imparare a sfruttare di più e meglio la radicalità femminista e di approfittare della forza femminile che scaturisce dall’indipendenza simbolica.

In particolare, poi, mi ha illuminata l’obbiezione di Wanda durante la relazione di Maria Milagros Rivera: e se non si sente il piacere di cui pure abbiamo bisogno? Cosa capita alle nostre vite, private del piacere necessario?

Qui per me sta un altro nodo profondo non solo di questo momento biografico e storico, ma ci sta dentro molto del possibile futuro di tutte/i noi.

Dicevo prima che in questi ultimi due anni ho dovuto, e voluto, interrogarmi a fondo sul senso del mio lavoro, cioè insegnare. Cosa insegnare e come insegnare sono interrogativi che chi svolge il mio lavoro affronta in modo ricorrente, in alcuni casi oserei dire ossessivo. È’ un’ossessione sacrosanta, senza la quale rischieremmo di essere banali addomesticatrici. Ho letto con maggior concentrazione possibile i testi delle mie alunne/i e ho cercato di ascoltare con un’attenzione più fine le loro parole. In questa situazione difficile, in alcuni casi la prima vera difficoltà della loro vita, ho provato una profonda pena e tenerezza per loro, ma anche un intenso sbigottimento. Tentando di non esprimere giudizi, ma di pormi domande essenziali, quello che mi frullava per la testa suonava più o meno così: sono fragili. Perché sono così fragili? Perché non inventano nuove strategie di sopravvivenza? Perché non sanno dove trovare il nutrimento necessario alla loro anima? Perché si sentono privati/e della libertà, senza però riuscire a dire esattamente cosa intendono per libertà? Dove spingerli a cercare la forza necessaria? Perché la solitudine sembra non insegnare nulla? 

Credevo fosse un problema delle ragazze e dei ragazzi. Poi, alle prime riaperture, vedendo sui telegiornali nazionali le folle assaltare i bar dei Navigli a Milano, vedendo uomini e donne gettarsi sui banconi per bere sgomitando fino a perdere i sensi, ho provato per la prima volta non solo orrore, ma anche terrore per quanto ci stava accadendo. Credo di poter dire che quelle scene, che mi ricordavano l’assalto dei forni a Milano descritti da Manzoni, mi abbiano dato la precisa misura della voragine nella quale siamo caduti/e, e ho avuto l’intuizione in quel momento che, giovani e meno giovani, siamo immersi in una civiltà che ha perduto la pratica del saper soffrire e del saper sopportare, una civiltà che non riesce ad attribuire più alcun senso alle esperienze di privazione e di mancanza, di frustrazione e di assenza. L’assalto ai bar non aveva nulla a che fare con la sete di cui parla Emily Dickinson, e pertanto,  pur bevendo, quella gente dava l’impressione di non aver imparato nulla, in particolare non sembrava avere alcuna sapienza riguardo a ciò che realmente stava cercando, ed ignorava da quale sete esattamente fosse posseduta.

Non voglio fare un elogio della sofferenza. Però la genealogia femminile alla quale mi riferisco mi ha insegnato che c’è nel dolore una profonda occasione di riscatto, di conoscenza e di chiarezza. Di “redenzione”, diceva Antonietta Potente, termine che assumo in pieno, pur essendo atea. La fragilità del nostro presente, che irrompe e rompe le nostre biografie, di giovani e meno giovani, per me ha a che fare con questa poca pratica che abbiamo del dolore e dei suoi misteri. E’ un materiale preziosissimo, rispetto al quale le donne della tradizione mistica ci hanno lasciato, tra le altre, molte conoscenze carnali e molto sapere, a disposizione di tutte/i. Non a caso, più volte sono stati citati l’esperienza, le parole, gli scritti delle mistiche, e per quel che mi riguarda tra loro posso annoverare anche una delle mie madri, Carla Lonzi. La civiltà che conosciamo, nella quale siamo immerse, ha definito il dolore come un’esperienza di impotenza, di scacco, di privazione, addirittura di vergogna. Ha privato moltissime/i di uno strumento per vivere con competenza e con pienezza. Il risultato di questa cancellazione è sotto i nostri occhi.

La mistica ci può insegnare, o ricordare, che la radicalità necessaria alle nostre vite, sempre ma in particolare ora, ha a che fare con l’aderenza alla vita in tutte le sue espressioni e manifestazioni, nella creatività e nella ripetizione indispensabili per nutrire l’esistenza nostra e di coloro che amiamo, vicini/e o lontani/e, nella cura delle nostre madri e delle nostre figlie/i, della madre Terra e di tutto ciò che il patriarcato, civiltà omicida e suicida, considera insignificante e perciò sacrificabile. Nella pratica e nel sapere mistico, anche la sofferenza ha dignità simbolica e necessità profonda, in prossimità e continuità alla gioia, alla condivisione e alla trascendenza.

Perciò, credo che le donne in questo momento più che mai possano agire per cambiare l’esistente e contribuire a rendere il mondo un luogo più ospitale per tutti/e, credo che debbano riappropriarsi, e rivendicare con forza e orgoglio, una storia che dal corpo di nostra madre ci ha gettate in una realtà e in una genealogia che ci ha attrezzate e preparate ad essere signore anche di questo tempo così difficile e tormentato. Anche nelle esperienze di dolore. Ce n’è un gran bisogno, di quello che sappiamo essere e generare. Nessuno forse poteva immaginare, nel febbraio del 2020, che cosa ci stava per capitare, ma, col senno di poi, nulla di quanto è accaduto mi ha profondamente stupita, o trovata veramente impreparata.

E questo vale anche per le amiche di Diotima. Se hanno creato anche quest’anno un luogo e uno spazio per cercare e trovare insieme parole sensate, e sofferenti, e forti, direi indispensabili, per cercare con altre/i il senso di quanto sta accadendo, per cambiare la narrazione che il potere ci propone e impone, ecco, mi viene da pensare che perfino con una pandemia le donne sappiano fare il pane. Pane: ciò di cui abbiamo bisogno tutti i giorni.