Pagine di lavoro sulla guerra
Nella guerra in Ucraina riconosciamo l’esprimersi di un particolare scontro nel simbolico, tra forme-mondo e linguaggi, che pervade il nostro tempo e rappresenta una soglia politica tra la realizzazione di un mondo o di un altro.
Per questo, e per la confusione di parole e la propaganda mediatica che continua ad esserci nel nostro Paese, abbiamo sentito il bisogno di dichiarare un altro spazio. Di dire un altro discorso, di tornare a portare attenzione al problema più grande, di parlare quelle parole che in realtà rispecchiano la maggioranza, di mettere in luce tutti quegli aspetti che sono stati resi invisibili e riportare così complessità al discorso. Per questo abbiamo deciso di scrivere queste pagine che hanno lo spirito di un Manifesto, in cui proporre i nostri tagli del reale su ciò che sta accadendo. Non per fornire una visione unificatrice e ideologica, ma per mettere in evidenza alcune relazioni tra le cose in un quadro generale e rendere potentemente visibile lo spazio simbolico di un discorso differente. Crediamo che molti e molte si riconosceranno in questo.
Caterina Diotto – Guardarsi (al)le spalle
Questa guerra per molti versi rappresenta un ritornare a galla di concetti, atteggiamenti, modi di fare e di parlare che non abitano più il nostro presente e non rispecchiano più la sensibilità di coloro che lo abitano. Non sto parlando delle lunghe propaggini della storia, dei conflitti geopolitici o degli interessi economici. Non parlo delle armi, della violenza, dei deliri distruttivi che sempre abitano e hanno abitato le nostre realtà in molteplici modi. Parlo delle idee, delle parole, dei modi di pensare, di leggere e di interpretare il mondo che sono le matrici, le chiavi, le forme attraverso cui si realizzano, si rendono materialmente reali questi conflitti e movimenti.
Parlerò quindi di queste forme come se mi stessi girando a guardare dietro le spalle, per vedere qualcosa che è passato e che allo stesso tempo cerca di tornare in modo nuovo. Benché passati e residuali, queste forme non sono scollegate dal nostro presente e da alcune sue dinamiche, né siamo “in salvo” da esse. Se riescono nel loro intento, cioè convincerci che sono ancora attuali, che rispecchiano il modo in cui tante persone sentono e interpretano la realtà, allora diventa una “profezia che si auto-avvera” e queste forme torneranno a pieno titolo. Ma prima devono convincerci, e qui sta lo spazio politico. Nulla è già deciso.
Guardo alle mie spalle: quello che vedo è un colpo di coda reazionario che cerca di rigettarci all’interno di una forma-mondo (un modo di interpretare le cose e di reagire ad esse) proprio dei Paesi occidentali durante la Guerra Fredda. Una forma-mondo etnocentrica, dunque, che vuole rimettere al centro delle dinamiche geopolitiche mondiali “quello che fa” e “quello che dice” un certo tipo di Occidente – patriarcale, capitalista, imperialista, nazionalista, identitario, aggressivo e belligerante –, che vorrebbe riportare questo genere di forma a “modello” per le dinamiche internazionali e, insieme ad esso, anche i propri Paesi.
È una forma-mondo la cui logica profonda si fonda su identità e scissione, un continuo distinguere, separare, tracciare linee tra ciò che è uguale e ciò che è altro, nonché sullo stabilire gerarchie tra identità e alterità. Come scrisse Hèléne Cixous in Sorties, è una gerarchia per coppie di opposti, il cui secondo – l’altro – ha sempre un valore inferiore o negativo. Così è la logica del patriarcato, della competizione capitalista, dei nazionalismi identitari, del colonialismo e della guerra.
Per fare la guerra, infatti, bisogna prima di tutto preparare un campo di battaglia culturale. Bisogna tracciare una linea tra “noi” e “loro”, e poi stabilire quali sono i caratteri che identificano noi come noi e loro come loro, che va insieme al delineare perché noi siamo il “bene” e loro sono il “male”. Così un Paese come l’Ucraina, in cui il bilinguismo e il mescolamento delle culture era la normalità, è stato preso e suddiviso – russi da una parte, ucraini dall’altra. Le definizioni di bene e male, poi, vogliono appellarsi alla Storia: non alla Storia nella sua completezza, no, ma di nuovo a una certa interpretazione di essa, che traccia linee di confine arbitrarie. Per esempio, si inizia da quando il “nemico” ha attaccato. Quello che c’era prima non vale. Infine, poiché “noi” e “loro” sono diversi, e sempre più essenzialmente scissi mano mano che il conflitto avanza insieme alla propaganda culturale, la guerra deve puntare alla distruzione di tutti “loro”. Poiché sono il male, bisogna fare in modo che “non possano più nuocere”. La guerra ha una logica di annientamento: fare-niente di ciò che è altro da me, in modo che solo “io” resti, ciò che è uguale a me. È evidente che finché si segue questa logica, tanto nei combattimenti quanto nella propaganda, nessun negoziato è possibile.
Le riflessioni di Jean-Luc Nancy sulle dinamiche della comunità sono estremamente attuali: una comunità è fatta di forze centripete e centrifughe, forze che spingono verso l’identità e forze che portano il cambiamento e la molteplicità. Quando le forze centripete prendono il sopravvento la comunità si fa mortifera attraverso la guerra: la distruzione di vite in nome di un presupposto “spirito della comunità” – la sua identità – in nome del quale tutti devono sacrificarsi. Uno spirito della comunità che è fatto coincidere con aspetti arbitrariamente selezionati: territorio, (una specifica) lingua, (un tipo di) religione, (un’ideologica) “razza”. Così accade che una comunità, un popolo, sia portato alla propria autodistruzione se coloro che lo guidano danno la precedenza all’ideologia sulla realtà.
Ciò che sto vedendo è il feroce tentativo di ritorno all’egemonia della logica della scissione. Ora dirò invece di ciò che vedo intorno a me, qui e ora, contro cui questa logica cerca di tornare. La globalizzazione e la pandemia, così come la rivoluzione digitale, sono eventi storici che hanno reso evidente la portata dell’interconnessione tra gli esseri umani di tutti i paesi, così come tra umani, non umani e l’ambiente. Se la globalizzazione capitalista aveva l’intenzione di connettere i luoghi e le persone solamente secondo certe direzioni in nome del profitto del “Primo Mondo” – dal Nord al Sud per lo sfruttamento e l’inquinamento, dal Sud al Nord per beni e privilegi –, la realtà ha ecceduto questi confini, dando vita anche a movimenti reciproci, cambi di direzione e contaminazioni inattese. La pandemia, oltre che dimostrare con vivida crudezza quanto siamo tutti vicini, ha dimostrato la reale permeabilità di confini, corpi e specie. Si è quindi aperto un altro spazio del discorso, radicato nella sostanza di ciò che viviamo, nell’esperienza di molti e molte.
Il femminismo, l’ambientalismo, l’ecofemminismo, l’antirazzismo, i movimenti decoloniali, i saperi indigeni, hanno da lungo tempo creato un fertile terreno culturale di cambiamento che superi la logica della scissione e opposizione per avvicinarsi ad un’interpretazione basata sulle relazioni, le interconnessioni, l’essere parte di un sistema ecologico integrato. In un pianeta concepito come Gaia (secondo Lovelock e Margulis) niente è assolutamente “altro”. Ancor più, ciò che accade all’altro si ripercuote su di me, in quanto parte di catene di relazioni comuni. In un pianeta come Gaia, l’annientamento dell’altro significa l’annientamento di una parte di noi stessi.
Da un punto di vista politico, negli ultimi quattro anni l’urgenza della questione ecologica aveva via via preso sempre più spazio nel discorso, nazionale e internazionale, dell’Occidente, nonostante le fortissime resistenze, soprattutto economiche. I movimenti, gli attivismi, la sensibilità delle persone, tutto aveva portato finalmente al realizzarsi di quei passi – il fatto che l’Unione Europea avesse dichiarato lo stato di crisi ecologica e avesse prospettato una serie di misure per avviare una transizione energetica – che, seppur ancora pochi, sembravano aver finalmente spostato il Grande Animale su di un sentiero differente. L’Europa rappresentava in questo un’apripista internazionale, grazie alla relazione che si era creata tra i movimenti ecologisti e la politica istituzionale, portando a nuove leggi, limitazioni e regolamentazioni nei commerci e nello sfruttamento dell’ambiente. Una cultura della pace, della collaborazione, della multiculturalità e del rispetto per l’ambiente sta diffondendosi sempre più nel piano del visibile; una cultura radicata nel profondo, a giudicare dalle forti resistenze alla guerra e alla sua propaganda. È una direzione, un percorso in divenire irto ancora di pericoli e resistenze, molto va ancora affrontato. Ma è questo il sentiero del sentire intrapreso ora.
Lo scoppio della guerra in Ucraina ha portato ad un arresto nel discorso ecologico e femminista europeo. È stato come saltare all’indietro, come se tutto quello che era stato fatto, detto, guadagnato, improvvisamente fosse diventato invisibile. L’attenzione per l’ecologia è scomparsa dai discorsi istituzionali, soppiantata dal problema del fabbisogno energetico – “potremmo dover aprire centrali a carbone”, “torniamo al nucleare” – perseguito attraverso politiche conservatrici. La necessaria indipendenza avrebbe potuto rappresentare una spinta per il cambiamento che avevamo già deciso di intraprendere, invece il discorso è stato accantonato.
Il rischio iniziale di un disastro nucleare a causa dei bombardamenti – per desiderio di distruzione o semplice errore umano – non ha fermato la macchina bellica, così come non l’hanno fatto l’uccisione di migliaia di persone e la distruzione dell’ambiente e delle città. Abbiamo invece assistito a quello schiacciamento culturale della propaganda (soprattutto nelle prime due settimane di guerra, ma tutt’ora presente) su posizioni contrapposte prive di qualsiasi senso critico o profondità storica, inculcate a suon di aut-aut politici e imperialismi culturali (noi siamo democratici, “civilizziamo” il mondo portando la democrazia) e pornografia del dolore sulla pelle delle vittime – uccise due volte: dalla strumentalizzazione bellica e dalla strumentalizzazione mediatica.
Questa forma-mondo non è più maggioritaria. È diventata una struttura interpretativa residuale una struttura culturale che non ha più un sostrato, una base, nella sensibilità attuale, nel sentire delle persone. Esiste per tradizione culturale, per inerzia anche, ma sta per disgregarsi come un tempio le cui colonne sono cadute. Come scrive Elizabeth Jankowski, abbiamo educato i giovani diversamente, la cultura è cambiata e così il sentire. I giovanissimi sono in piazza per il clima, i giovani considerano la guerra una situazione inaccettabile, impensabile, l’Italia è contraria alla guerra, all’invio di armi e al riarmo richiesto dalla NATO. Si vuole invece investire nella sanità e nell’istruzione.
Sapere che è in atto un conflitto nella cultura e nella politica tra queste due forme-mondo, due modi di interpretare la realtà, è fondamentale perché il tentativo reazionario di tornare a una politica e a discorsi vecchi e patriarcali, capitalisti, guerrafondai, non passi sotto silenzio. Non venga dato per scontato o considerato “normale” passare da una direzione all’altra.
Questo è un momento politico, in cui dare parole alla realtà che vogliamo vivere. Non possiamo accettare che questo discorso, scollato dalla realtà com’è, possa radicarsi nuovamente. Non possiamo accettare il riarmo e gli ulteriori tagli alla sanità e all’istruzione previsti nel piano del governo Draghi per il biennio ’24-’25. Non possiamo accettare che il problema reale, la questione ecologica, passi in sordina, perché non c’è più tempo da perdere. Non possiamo accettare che l’Italia e l’Europa continuino ad assorbire passivamente i diktat di un Paese cieco e imperialista, in mano alle lobby delle armi e dei combustibili fossili, prono alle multinazionali dell’agricoltura e dell’allevamento intensivi, teso a rovesciare la scacchiera internazionale a proprio vantaggio. Non quando avevamo imboccato la strada di una leadership ecologica e politica, come mediatrici internazionali e creatrici di soluzioni virtuose. È il momento di guardarsi le spalle e lasciarsi indietro ciò che appartiene al passato.
Maddalena Spagnolli – Sulla guerra
Di fronte all’invasione dell’Ucraina e a ciò che ci suscita questa guerra, faccio mie le parole di Annamaria Ortese in Corpo Celeste:
Domanda: Quale sembra a lei la cosa più inaccettabile, o per lo meno inspiegabile, del vivere sulla terra? Posso citare una pagina di Ionesco: sulla violenza. La violenza…. è proprio l’orrore annidato nel vivere universale… Si ha proprio la sensazione di una cosa estranea al mondo, che viene da fuori, e viene come uno spettro… I campi di morte sono eterni[1]
L’apice di questa violenza è proprio la guerra.
Trovo sempre più difficile pensare/dire la realtà in termini di sostantivi come “guerra”, così come con sostantivi-ideali come “libertà”, “democrazia”, “uguaglianza”, “giustizia”, “pace” … parole che pure ci servono per dare forma alle nostre più alte aspirazioni. Ma tra questi sostantivi-universali c’è anche la “guerra”. Che cos’è la “guerra”? Ciò che qualche volta viene considerata il “motore della storia”, quasi che costituisse la ragion d’essere degli umani su questo mondo? La guerra è normale, è naturale, è propria della natura umana? Come parlare della guerra?
Quando pronunciamo questa parola abbiamo subito un’eco, una vaga immagine di ciò che comporta, ma in quanto tale si rivela di per sé un concetto astratto, anche se sappiamo come in realtà sia molto concreto e quanto colpisca per la sua distruttività. Per fare ordine in questa contraddizione, riprendo la riflessione di Hannah Arendt sull’agire:
non un uomo, ma degli uomini al plurale abitano la terra e in un modo o nell’altro convivono. Ma soltanto l’azione e il discorso si riferiscono specificatamente al fatto che vivere significa sempre vivere tra uomini, tra coloro che sono miei uguali. Per conseguenza quando mi inserisco nel mondo, si tratta di un mondo in cui sono già presenti degli altri.[2]
Vivere e agire “tra uomini”, riprendendo da Arendt, significa “nel suo senso più generale, prendere un’iniziativa, incominciare, come indica la parola greca archei o mettere in movimento qualcosa, ciò che è il significato originario del latino agere”[3]. Ma un’azione priva di un nome, di un “chi” che l’accompagni è priva di significato[4]. È quindi alla luce di questo “chi”, dei soggetti che sono attori e che sono coinvolti nell’agire, che posso fare ordine nel concetto astratto di guerra, posso provare a dispiegarne il significato: da quale prospettiva parliamo quando parliamo della guerra? Da quella di chi la ordina, di chi la fa, di chi la subisce, o di chi la guarda?
Chi la ordina: spesso (soprattutto nelle guerre moderne) coloro che la ordinano non sono direttamente coinvolti negli scontri armati; e le decisioni di chi ‘ordina la guerra’, in questo caso decisioni di strategia e di tattiche, derivano da quello che la Arendt definisce un processo “puramente speculativo”. Infatti, scrive la Arendt sulla guerra come “continuazione della politica con i mezzi della violenza”ea proposito “della costante crescita di prestigio di certi esperti o gruppi di esperti dotati di mentalità scientifica”, aggiunge:
Il guaio non è tanto il fatto che abbiamo abbastanza sangue freddo da “pensare l’impensabile”, quanto piuttosto che “non pensano”. … Questi signori fanno i calcoli basandosi sulle conseguenze di certe costellazioni immaginate in via ipotetica, senza tuttavia essere capaci di verificare le loro ipotesi rispetto alle situazioni reali. Il vizio logico di queste costruzioni ipotetiche di eventi futuri è sempre lo stesso: quello che in un primo momento si presenta come un’ipotesi … diventa immediatamente un “fatto” grazie al quale danno vita a tutta una serie di analoghi non-fatti, col risultato che si finisce per dimenticare il carattere puramente speculativo di tutta l’impresa.[5]
E poiché, come scrive sempre Arendt in Vita activa, “ogni azione produce non soltanto una reazione, ma una reazione a catena, ogni processo è causa di nuovi processi imprevedibili”[6]; infatti, “le previsioni del futuro non sono nient’altro che proiezioni dei processi e delle procedure automatiche del presente, cioè di cose che è probabile che accadano se gli uomini non intervengono e non succede niente di “imprevisto”[7]. Seguendo così le sue riflessioni possiamo dire che chi ordina/comanda/dà inizio alla guerra è dunque invischiato nelle conseguenze di decisioni operate con la presunzione di avere un controllo sul corso degli avvenimenti che in realtà non abbiamo.
Chi la fa: comescrive Hegel e riprende Carla Lonzi, sono i vecchi uomini che ordinano le guerre per spezzare il legame tra i giovani uomini e le madri, mandandoli a combattere. Chi la fa, generalmente, è obbligato; ma c’è anche chi la fa per scelta, per difendersi da aggressioni (e qui troviamo spesso anche donne, pensiamo alle curde del Rojava); ma c’è anche chi sceglie di combattere per volontà di eroismo, per un’ideologia, o per una sorta di “piacere” piuttosto maschile dell’esperienza militare, bellica. I combattenti si ritrovano in condizioni tali per cui spesso vivono situazioni estreme che, come testimoniano racconti e studi sulle realtà dei soldati, possono creare da forme elevate di solidarietà e carità tra camerati, esaltazione ed esperienze “erotizzanti”, a vissuti come la diserzione, gli smarrimenti, i traumi e le paure, i deliri, etc. Moltissimi di coloro che partono esaltati da propaganda e ideologie perdono qualsiasi slancio di fronte alla realtà materiale e terrificante della guerra, alla morte, alla mutilazione, alla perdita di qualsiasi pietà umana. Di questi “shock” di fronte al reale sono pieni i memoire sia della prima guerra mondiale (es. Generazione perduta di Vera Brittain), che della seconda (es. Da qui all’eternità, di James Jones, versione non censurata) che di guerre più recenti come quella del Vietnam (es. The Things They Carried di Tim O’Brian).
Chi la subisce: sappiamo, per empatia, quanto orrore e disumanità si ritrovano a vivere coloro che la guerra la subiscono; quanta distruzione di luoghi, di case, di comunità, di vite trascorse fino ad allora nella convivenza pacifica tra differenze di lingua e culture vengono annientate a causa di scelte e azioni di poteri altri (per esempio nella ex Jugoslavia). Differenze che fino a poco prima non facevano problema ed erano spesso risolte nel governo quotidiano della convivenza, diventano causa di conflitti; una gestione della convivenza spesso garantita dalle donne, come racconta un bellissimo ed esemplare film del 2011 E ora dove andiamo? di Nadine Labaki. Chi subisce la guerra si ritrova a rendersi conto delle differenze come problema soltanto quando altri lo decidono, differenze che diventano contraddizioni insanabili per chi la guerra la ordina. Forse solo chi subisce la guerra sa come dare risposte a ciò che la genera, sa opporre alla violenza che è “azione senza argomentazione né discorso e senza calcolo delle conseguenze”[8], la mediazione necessaria tra differenze nella vita concreta.
Chi la guarda: siamo in particolare noi dell’Europa dell’ovest, da quando – in particolare dalla guerra del Golfo del ’91 – la guerra si è spettacolarizzata, è entrata nelle nostre case per mezzo dei teleschermi. Se ciò che vedevamo della guerra del Golfo erano lampi nel cielo notturno, adesso vediamo molto di ciò che succede, vediamo sempre di più distruzioni di città, massacri, fosse comuni, disperazione e pianti di donne, di uomini e di bambini, vite ridotte alla sopravvivenza.
La contraddizione di chi la guerra la guarda è nella frattura tra il potere dell’immagine e la realtà: noi non la viviamo, ma guardando la guerra grazie alla forte copertura mediatica viviamo nello stesso tempo una sorta di immedesimazione e di alienazione. La contraddizione sta anche nella falsa immediatezza: sappiamo quanto le immagini ne diano l’illusione, e quanto siano invece sempre costruite, selezionate, montate da qualcuno e inficiate di prospettive ideologiche. Noi siamo qui, oggi, in questa prospettiva a parlare di guerra, in una sorta di scollamento, di sconnessione tra le immagini di distruzione che ci giungono via etere e la realtà che viviamo. E ci sentiamo scissi nella nostra interiorità tra sentimenti devastanti e una (tendenzialmente) tranquilla vita quotidiana. E questo non da ora, ma ormai da 30 anni, con la fine della guerra fredda.
Assistiamo, come dice papa Francesco, ad una terza guerra mondiale, che dura però da trent’anni aggiungo: guerra, o guerre, iniziata nei Balcani, Cecenia, Iraq, Afghanistan, Siria, Libia, per non parlare di tutte le guerre in Africa – Algeria, Congo, Mali, Yemen e del conflitto israelo-palestinese (guerre di cui si parla poco). Un’unica guerra che ha fatto il giro del Mediterraneo e dell’Asia e che ora torna in Europa, in Ucraina. Guerre iniziate e mai finite: quante guerre degli ultimi 30 anni non ancora hanno trovato una conclusione? Una “guerra infinita” diceva appunto G. W. Bush già nel 2001, fatta di guerre scoppiate ogni 6-7 anni: gli anni che servono per rinnovare gli arsenali militari.
A questo proposito si apre la questione enorme, su cui però non mi soffermo, della produzione delle armi e dello sviluppo tecnologico raggiunto in questo settore, degli investimenti sempre più ingenti da parte degli Stati, del potere delle lobby delle armi e del loro impatto sul piano economico, sociale, ecologico e politico.
Durante questa 3° guerra mondiale lunga 30 anni si è verificato anche qualcos’altro che sta cambiando il mondo: la globalizzazione come fenomeno che coinvolge, nel bene e nel male, ogni aspetto della nostra convivenza umana su questa terra. La globalizzazione ci costringe a renderci conto in maniera ancora più cogente di quanto siamo interrelati, ‘connessi’ nella nostra condizione di pluralità, individualità e alterità umana, e ci accorgiamo sempre più di quanto siano obsolete le logiche che hanno retto il nostro mondo fino al secolo scorso e che ancora ispirano chi comanda la guerra (e non solo).
Siamo in un’altra epoca e non si può più pensare il mondo del XXI secolo senza tener conto che ormai si muove secondo tre orizzonti strettamente intrecciati a cui accenno soltanto: quello della diffusione del femminismo inteso come lotta delle donne a livello mondiale nell’affermazione della propria libertà, del problema ecologico come questione portante per la nostra sopravvivenza su questo pianeta, e della digitalizzazione, come rivoluzione inarrestabile nelle forme della comunicazione. Sono assi fondamentali di cambiamento che non possono essere fermati.
Siamo in un’altra epoca e forse dovremmo cominciare a gridare forte: fuori la guerra dalla storia (come ha detto qualcuna) se non vogliamo distruggerci a vicenda e distruggere la terra che ci ospita.
Chiara Zamboni – Schizofrenie
Quando la Russia ha invaso l’Ucraina e gli ucraini si sono difesi, qualcosa mi ha fermato e non mi sono messa a chiedere del come e degli interessi né delle forze in campo e i morti, le resistenze. Mi ha fermato una domanda, che non ha riguardato le vie che hanno portato a questa guerra, che la riallaccia alla storia di lungo periodo che ha visto tante guerre ed eserciti combattersi. La domanda piuttosto è stata: cos’è la guerra? Qual è la sua radice profonda, che non è riducibile alle sole cause storiche, che variano nel tempo?
Sono tornata alle pagine di Carla Lonzi e di Luce Irigaray che rileggono in una ermeneutica sessuata La fenomenologia dello spirito di Hegel. È Carla Lonzi ad essere particolarmente chiara in Sputiamo su Hegel quando, riprendendo il testo di Hegel[9], dice che la guerra è voluta da uomini vecchi, che con la guerra allontanano i giovani dal piacere della vita condivisa con le donne[10]. Sono gli uomini vecchi al governo – gli adulti al potere da tempo – che fanno leva sul valore degli uomini giovani per fondare una comunità sulla morte e sul sacrificio della vita. È solo la morte dei giovani in guerra, al di là del singolo e della sua storia, a rinsaldare e unificare una comunità verso l’esterno e dunque anche al suo interno[11].
Potrei aggiungere dicendo che al contrario i legami di vita e di fiducia aprono la comunità ad altro, perché sono molteplici, plurimi, attraversano i confini, sgretolando il dentro e fuori.
Ed invece uomini di potere, vecchi, fondano una comunità sulla morte, sacrificando i giovani.
Carla Lonzi scrive anche: «Il pensiero maschile ha ratificato il meccanismo che fa apparire necessari la guerra, il condottiero, l’eroismo, la sfida tra le generazioni»[12] e ha istituito questo meccanismo come valvola di sicurezza dei propri conflitti interiori, che non sono quelli delle donne.
Lonzi e Irigaray danno una interpretazione sessuata della guerra. Mi appoggio a questa loro spiegazione, perché altrimenti la guerra mi sembra davvero solo e soltanto una immane distruzione di vite umane e di cose e di beni, del tutto inutile rispetto a principi economici legati all’arricchimento e al benessere. Scopi che possono essere perseguiti con molta più efficacia e producendo molta più ricchezza con gli scambi economici e diplomatici. Certo la mediazione sia negli scambi che nella diplomazia implica una riduzione del narcisismo di onnipotenza che è inevitabilmente presente in chi agisce una guerra sia direttamente sia indirettamente, con aiuti esterni.
La guerra è talmente una distruzione senza misura, senza proporzione, così legata all’annientamento di vite, di cose, di beni, di cultura e alla disgregazione dei legami di fiducia, che può essere spiegata solo come hybris che prende la forma di un anelito di morte. Esprime un profondo odio nei confronti della vita, che è affidata alla rete fragile dei pegni reciproci, degli atti generativi.
La pandemia prima e la guerra tra Russia e Ucraina poi sono state così vicine nel tempo da far vivere con più evidenza una contraddizione che attraversa il nostro mondo. Abbiamo visto il personale medico: donne e uomini impegnati a salvare le vite, a curare la malattia. E abbiamo visto, senza soluzione di continuità, la guerra, che è distruzione di massa di vite. Il dispendio della morte. Come reggere la contraddizione tra le immagini del personale degli ospedali che cerca di salvare vite e quelle degli aerei che bombardano gli ospedali?
È una condizione schizofrenica, dolorosa, come se l’umanità vivesse in due spazi mentali e immaginari non comunicanti. È uno stato schizofrenico che mi sembra simile a quello che viviamo nel tenere assieme da un lato l’impegno di una legge profonda delle civiltà umane che impone di non uccidere, tanto che le legislazioni puniscono gli assassini, e dall’altro l’obbligo di uccidere in guerra. Se non uccidi vieni punito, mentre se uccidi sei un eroe, e comunque hai la benedizione delle diverse forme di potere da cui sei dipendente.
Ho riconosciuto nelle foto e nei racconti di donne e uomini, che vivono la guerra in Ucraina, qualche cosa di simile ai racconti dei miei genitori e di quegli uomini e donne anziani che ci hanno parlato della guerra del ‘45. Alcuni di loro ci hanno detto con fermezza: la guerra non deve più essere. Si sono impegnati con i discorsi perché noi ereditassimo a nostra volta l’impegno ad evitare una nuova guerra. Mi sembra di sentire ancora le loro parole, la fede che li guidava e che ci vincolava nei loro confronti. È come se in qualche modo noi non rispettassimo il patto.
Guardando le foto di questa guerra ho capito che comunque oggi si è slargato il senso del patire. Patiamo per la nostra specie sì, così senza rimedio nel ricadere in errori del passato, così martoriata. Ma patiamo anche per quelle case mezze distrutte e annerite dai bombardamenti, quelle strade in cui si sono aperte voragini, ponti fatti saltare, alberi anneriti e animali dagli occhi angosciati. Il cielo ingrigito dal fumo. La guerra porta alla distruzione dei luoghi. I campi che diventano improvvisamente deserti e ridotti a periferie dei bombardamenti.
Quando le cose, le costruzioni, i campi, gli alberi vengo feriti anche noi rimaniamo feriti per i legami inconsci che abbiamo con essi e che ci costituiscono.
Giannina Longobardi – La guerra e un femminismo per tutte e per tutti
Giochi di maschi che hanno il potere: chi ha la gittata più lunga? Vedrai dove arriva il mio. E poi lo sai che è tutto mio. A due anni c’è certo un’innocenza nell’agitare intorno a sé bastoni, nel lanciare oggetti che poi precipitano e fanno boom. Ancora a sei anni è solo un gioco: quando dopo tanta rabbiosa distruzione propongo al mio nipotino di costruire ora un ospedale per curare i feriti, mi guarda con tanto sbalordimento che penso di sbagliare, che non devo intervenire con elementi realistici in quello che è solo un gioco simbolico. Che non devo spaventarlo, che non devo dire che ci sarà sangue e morte. Certo lui tira bombe ed io farei casette e recinti, ci metto dentro i letti e gli animalini.
Quello che ci tocca e quello che non ci tocca. Siamo in guerra ma la maggior parte di noi, cittadine e cittadini di questo paese, non ci crede davvero. Una cosa che evidentemente era possibile ci sembra ancora impossibile. Misuriamo i limiti della nostra sensibilità, della nostra immaginazione, della nostra attenzione. Sensibili solo a ciò che ci tocca direttamente: uno, voce solitaria, da tempo ha avvertito: la terza guerra mondiale è in atto da anni, ma le sue parole non hanno avuto trovato molta risonanza. Del resto come commuoversi su Aleppo se paghiamo perché i profughi siriani rimangano ben chiusi in campi di concentramento? Se paghiamo i libici perché ci proteggano dai profughi? Se permettiamo che esseri umani debbano annegare nei nostri mari. Abbiamo ceduto sull’umano, sui diritti dell’uomo, sull’amore, sulla compassione, sulla solidarietà. Non abbiamo posto alcun limite alla violenza del potere. Ora questa violenza ci si rovescia addosso.
Il femminismo è per tutti. Femministe abbiamo dichiarato la nostra estraneità al potere, che l’esclusione storica ci poneva in condizione di approfittare dell’assenza. Per questo abbiamo l’occasione storica per dire una verità condivisa anche da miliardi di essere umani minacciati dalla guerra, dalla carestia, dalla fame, dalla distruzione dell’ambiente. Miliardi di viventi sono minacciati dall’avidità di chi pensa che tutto è suo. Il femminismo è per tutti. Il femminismo non crede alla democrazia: la funzione della rappresentanza, se mai ne ha avuto alcuna, è finita. Gli stati nazionali hanno scarsissimi margini di manovra il governo obbedisce al più forte: alla finanza, alla UE, alla Nato. Il parlamento non rappresenta né gli interessi né il sentire di uomini e donne: ha rinunciato ad ogni sua funzione. Per evitare il confronto elettorale i partiti rinunciano ad ogni obbiezione ed accettano continuamente il ricatto della fiducia. C’è sempre qualche decisione già presa da anni, qualche accordo già sottoscritto, qualche vincolo di bilancio, il debito già speso, che rende vana la discussione. I partiti, ci insegnava Simone Weil che ne proponeva l’abolizione, si preoccupano solo del bene del partito e chi ne diviene rappresentante non può né pensare, né parlare con libertà. Il bene del partito si riduce ormai a poco: semplicemente oggi in Italia chi siede in Parlamento non vuole rischiare il suo posto. Non mi aspetto nulla dalle donne al governo, né dagli uomini. Chi si azzardasse a dire la verità, a reclamare il bene comune sarebbe dileggiata e subito messa fuori gioco. La democrazia che dovremmo “esportare” in altri paesi non la conosciamo nel nostro: senza avere mai voluto la guerra, senza averla mai pensata, siamo scivolati nella guerra. Nella guerra in Europa. Non è solamente la volontà di pace a non trovare voce a livello politico, ma neppure i nostri interessi più materiali, più egoistici, più consumistici: avere ancora il riscaldamento, un lavoro, un reddito, poterci spostare, poterci incontrare, avere l’aria pulita, frenare il consumo di risorse naturali e curare l’ambiente, una scuola funzionante, degli ospedali efficienti. Quelli che contano veramente, quelli che anche con la guerra ci guadagnano, la guerra non la vogliono a casa loro, ma da un’altra parte. E le fanno fare agli altri.
Prendere la vita senza l’ombrello. Jamila, un’amica marocchina ospitata dalla Caritas, madre sola con figlia gravemente handicappata, migrante per cure, mi racconta che l’organizzazione che la benefica le ha chiesto di compilare un questionario sulle cause della povertà. “E che cosa hai detto?” Le ho chiesto. “Che la povertà cade dal cielo sulle teste di alcuni”. Ho cominciato allora a visualizzare quegli ombrelli protettivi che, io dicevo, alcuni pensavano di avere sulla testa per proteggersi dalla povertà: welfare, pensioni, assicurazioni, risparmi. Anche la Nato era un grande ombrello contro il comunismo. E il comunismo stesso un grande spauracchio: il riferimento simbolico che sorreggeva il conflitto sociale. Dal suo crollo è venuto un mercato del lavoro sregolato, l’impoverimento progressivo dei lavoratori, l’aziendalizzazione dei servizi pubblici, la privatizzazione sempre crescente dei servizi sanitari, dell’istruzione. Quello che ancora resiste sarà mangiato dal debito nei prossimi anni.
Libertà ed emancipazione, ossia libere di vendersi. Tutte per vivere ci vendiamo, forse la differenza sta solo nel prezzo. Giunto alla fine un regime totalitario ed oppressivo, le popolazioni dei paesi dell’est si sono messe sul libero mercato europeo. Solo un’immagine: le navi stracolme di albanesi che con entusiasmo passarono in massa l’Adriatico. Un’amica accolta e poi schiavizzata da un pastore pugliese, rimase da lui per un paio d’anni perché, come mi raccontò, pensava: “me l’avevano detto che in Italia c’era il capitalismo!” Ma gli albanesi erano solo i primi. Perso il posto di lavoro, sicuro anche se malpagato, privatizzata l’istruzione superiore e le cure, ecco arrivare edili a basso prezzo, lavoratori stagionali pronti al raccolto, badanti a tempo pieno, lontane per anni, per decenni, dalle loro famiglie. Ucraine, moldave, rumene: figli cresciuti da altre e molti doni per compensare l’assenza: computer, cellulari, videogiochi, scarpe e felpe della Nike. La povertà e la sovrabbondante offerta di beni di consumo. Alcune invece hanno anche pensato: meglio affittare l’utero, un lavoro a domicilio che dura solo nove mesi, piuttosto che emigrare e vendersi la vita per anni. In Ucraina, unico paese in Europa, si può fare e quindi si facevano, ogni anno prima della guerra, 2500 neonati, bianchi e forse pure biondi.
Chi ci guadagna? I paesi ricchi hanno fatto la guerra al Covid a favore delle grandi compagnie farmaceutiche e, in Italia, senza investimenti su di un sistema sanitario collassato in breve. Chi ci guadagnerà dalla guerra tra la Russia e la Nato? I fabbricanti e i venditori di armi, ovvio, ma al momento i profitti che, come si dice, “volano” sono quelli dei venditori di fonti fossili, gas, petrolio, carbone, quelli la cui vendita era in prospettiva minacciata dalla rivoluzione green. Quella che non vorremmo vedere è una guerra a tutti i viventi. È una guerra contro la possibilità che ci sia un futuro per la vita. Non è il pianeta che è minacciato e che dobbiamo salvare, sotto minaccia è la vita, almeno nella forma in cui l’abbiamo conosciuta. Ciò che non interessa ai pochi ricchi che hanno accaparrato tutta la ricchezza e tutto il potere.
Elisabeth Jankowski – Guerra e lingua
Fuori la guerra dalla storia
“La politica dell’uguaglianza porta a chiedere più donne nell’ esercito”, sento dire e scrivere. Non sono le donne che devono poter fare la soldata o la generala ma è l’esercito che deve scomparire perché si basa su un’idea di maschio forte che difende la comunità dalle aggressioni o che aggredisce altre comunità, anche per conto delle donne. L’idea e la necessità della difesa, non dico di un territorio ma di una comunità, deve prendere forme completamente nuove.
Il conflitto in atto riporta in vita una vecchia visione del rapporto fra uomini e donne: la separazione di uomini e donne. Dove le donne vengono mandate via con bambini e anziani (con poche eccezioni) oppure decidono loro di fuggire, non ci potrà mai entrare in gioco la complessità dei punti di vista. Solo nel prendere assieme delle decisioni un certo equilibrio politico potrà essere garantito. Si ripresenta il vecchio scenario degli uomini che difendono la patria e le donne che aspettano tempi migliori nei rifugi oppure lontano da casa. Non possiamo abbandonare gli uomini a questo lavoro sporco. Dobbiamo farli partecipare ai nostri pensieri-sentimento. Li abbiamo partoriti, educati noi, li abbiamo difesi noi, li abbiamo protetti nel corpo e nell’anima. Ora dobbiamo pretendere che tornino alla loro fragilità.
Certo, le donne che lasciano il proprio paese agli uomini e abbandonano la propria forza cedono le armi delle donne e rinunciano alla propria forza pacificante. (Vedi: Dio è violent, L. Muraro)
La lingua materna e la geografia dei sentimenti
Un tema scottante per me è il nazionalismo che si sta risvegliando. Dopo la politica della globalizzazione torniamo nei nostri recinti nazionali che portano per forza a epurazioni e respingimenti di parti della popolazione non considerata sufficientemente idonea per origine, lingua e tradizione. Torna quindi essenziale il tema della lingua materna e delle lingue seconde e terze.
La lingua materna serve a tutti gli esseri umani per godersi la vicinanza alla propria madre, per assimilare il suo pensiero e diventare capaci di affrontare le sfide della vita. Ma la lingua materna non deve mai diventare un’arma spuntata per difendere un diritto al suolo. Il suolo è dove sta casa mia – che poi spesso non è una casa vera e propria ma un piccolo appartamento, dove io, nata in questo luogo, mi sento “a casa”. Quel “casa mia” (oppure Heimat) non è solo fatto di muri ma piuttosto un luogo dei sentimenti e delle relazioni che possono anche fare a meno del luogo fisico.
Come la lingua così anche la casa sono luoghi del nostro inizio che poi diventano luoghi spirituali che ci guidano e ci danno un posizionamento nella vita, non necessariamente nel luogo specifico, o nella stessa lingua: la maggior parte di noi ha praticato altre lingue e altri luoghi, dove si è sentita “a casa”.
Nelle società con lingue plurime, come la Germania prima di Hitler, l’Ucraina o la vecchia Jugoslavia (e quasi tutti i paesi del globo), dopo lunghi anni di convivenza pacifica, succede facilmente che esplodano conflitti etnici. Sembra incomprensibile, ma a mio avviso è la prova che la realtà e la sua complessità vanno curate quotidianamente. Non si potrà mai dare per scontato la fiducia nell’altro/a e il rispetto delle diversità culturali e linguistiche.
Il discorso sulla diversità delle lingue e culture è comunque spesso un falso problema. Nel conflitto attuale, come in altri conflitti, si capisce che dietro questi discorsi fa occhiolino il potere sulle risorse. Il conflitto delle culture è un “oppio dei popoli”. La gente è spinta a schierarsi dall’una e dall’altra parte, così si dividono le persone senza difficoltà. Il conflitto delle culture si fa strumentale: dividi et impera dicevano i latini. Le culture e le lingue dì per sé non sono mai divisorie ma uniscono e crescono mescolandosi.
La tolleranza di altri “regimi”
Occorre un nuovo pensiero di giudizio politico. Noi che ci troviamo a vivere in una democrazia imperfetta con povertà, disuguaglianze, sfruttamento di corpi ed intelligenze non abbiamo il diritto di giudicare gli altri. La parola “regime” non facilita i rapporti fra paesi. Non solo. Essa crea umiliazioni e reazioni negative che a loro volta fanno peggiorare i rapporti all’interno del singolo paese. Ogni cultura segue una propria logica e non deve essere forzatamente influenzata dall’esterno. I cittadini di ogni paese sono abbastanza capaci di far sentire la propria voce: il governo di un paese non è tutto. Lo sappiamo. Esiste anche la politica prima, cioè quella delle donne, delle famiglie, delle comunità, come le pratiche di buon vicinato. Voglio seguire di più queste tracce umane e meno le geografie dei poteri politici. La politica di cura, principalmente quella delle donne, avrà sempre più seguito nel mondo del futuro.
La nuova consapevolezza
“Come si fa a farsi la guerra?”,
dice il panettiere scuotendo la testa.
“Noi non vediamo l’ora di andare a cena con i nostri amici e di pensare alle prossime vacanze al mare.”
La signora ucraina intervistata da una qualche televisione dice:
“Noi avevamo tutto. Non ci mancava niente. Non so da cosa ci dovevano liberare i russi?”
Leggo in queste affermazioni una riflessione profonda. Un pensiero che è nato da quando è scoppiato la guerra in Ucraina. La catastrofe umana con tutto il dolore delle persone coinvolte, la distruzione delle case, anche quelle misere, ha portato improvvisamente a un arresto del fluire quotidiano: uno sguardo indietro, la convinzione di aver vissuto degli anni felici. Un momento di consapevolezza che ci fa presente la ricchezza della vita quotidiana condivisa, il valore delle piccole cose.
Questo fermarsi e respirare a fondo per respingere la paura che ci assale di fronte alla guerra apre anche a qualcosa di nuovo: la forza di voler raggiungere ancora questo stato di felicità precedente, di bandire la guerra per sempre. Ma non possiamo fermarci a questo punto. La rabbia e lo sgomento ci spingono a prendere in mano la nostra vita e con ciò anche la vita delle altre e degli altri.
Alcuni anni fa una mia amica finlandese, aveva postato su Facebook l’immagine di una foresta con tutta una area sotterranea dove le radici delle singole piante erano collegate da una fitta rete di radici comunicanti. Questa immagine, per me sorprendente, mi è rimasta sempre in mente e fino a oggi la trovo una perfetta rappresentazione di ciò che è la vita della lingua e della cultura come esito del nostro saper parlare e del metterci in relazione fra di noi.
Per noi non sono funghi e batteri a metterci in contatto, ma le parole. Ho sempre cercato un’immagine che fosse capace di dimostrare che anche la nostra lingua non è un puro fatto di superficie ma che ha un lato invisibile che àncora la nostra parola in una sfera sotterranea, che è di un’altra qualità: non più parola ma senso e luogo di nutrimento, come le radici degli alberi. Questa zona di vita delle piante e delle lingue è quasi più attiva della vita di superficie. Ci guida e ci frena senza il nostro beneplacito.
Certo ogni singolo albero è diverso dall’altro, ci sono le betulle come le querce, così anche le lingue: l’inglese come il kiswahili, ma nelle profondità della terra (o del senso) sono connessi e interagiscono continuamente. Nella profondità della terra fluiscono, inoltre, le acque, invisibili al nostro occhio e incontrollabili dal nostro agire. Nella profondità della terra le radici degli alberi sono intrecciate fra loro e comunicano continuamente. Il mondo della natura è connesso e parla la lingua mineraria, la lingua delle onde, la lingua della terra. Noi ignoriamo questo mondo senza confini e senza appropriazioni. Nel “Paese delle maree” Amitav Ghosh parla delle acque dolci e acque salate che si mescolano e formano un fiume invisibile che percorre un lungo tratto nel mare. Mi sento di aderire a questo mescolamento invisibile, passo dopo passo. La convivenza pacifica e creativa delle donne e degli uomini va coltivata come una pianta da annaffiare tutti i giorni.
A Montorio, sobborgo di Verona, il 14 maggio, la piccola biblioteca comunale aveva organizzato un piccolo evento per inaugurare il giardino ripulito da poco, con un programma che ho trovato prezioso. Alcune donne straniere del quartiere raccontavano un pezzo della loro vita, del loro pensare e del loro ricordare. Venivano dal Burundi, dalla Colombia, dall’Ucraina. I racconti erano intervallati da canzoni del coro di Casa di Ramia in modo che ci fosse uno stacco e un riposo del pubblico. Il primo racconto, di una badante ucraina, riguardava la ritualità al momento della morte di un famigliare. Ci ha stupito il tema triste di apertura ma poi la partecipazione emotiva fu grande: ci ricordava la ritualità delle nostre culture, magari non più praticate ma ancora nelle memorie dall’infanzia. Ci siamo sentite tutte molto unite e avremmo avuto voglia di raccontare a nostra volta la ritualità di un tempo. Le donne si pongono a un livello d’incontro che non riguarda la nazione ma, al contrario, la vita delle relazioni, cioè la ritualità della vita quotidiana. Ed è questo il livello di una possibile vicinanza che supera le distanze e crea emozioni condivise.
“Cadendo la piuma impara a volare”, titolo del libro di Usama al Shahmani mi ispira molto. Cerchiamo di trasformare la caduta in volo. I tempi di guerra e l’assetto geopolitico del potere, drammatici, descritti bene da Giannina Longobardi, non ci devono pugnalare nel cuore. Siamo donne che sappiamo di una cultura di mediazione. Sappiamo fare il mestiere delle lingue che prendono, imparano e trasformano la materia grezza del suono. I signori della guerra vincono solo se sconfiggono anche noi.
[1] Annamaria Ortese, Corpo Celeste, Adelphi 1997, pp. 109-110.
[2] Hannah Arendt, Vita activa, citazione in Guido Neri, Lavoro opera, azione, Ombre corte, 1997, p. 64.
[3] Ibidem.
[4] Ivi, p. 66.
[5] H. Arendt, Sulla violenza, Guanda 1996, p. 9. Corsivo mio.
[6] H. Arendt, Vita activa, op. cit. p. 68.
[7] H. Arendt, Sulla violenza, op. cit., p. 10.
[8] citaz. di Arendt in J. Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi, 2005, p. 170.
[9] Sia Carla Lonzi sia Irigaray fanno riferimento a G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad it. di Enrico De Negri, La nuova Italia, Firenze 1979, pp. 34-35, il capitolo intitolato L’azione etica della VI parte dell’opera.
[10] Cfr. Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1974, p. 26.
[11] Anche Luce Irigaray scrive, riprendendo Hegel, che la femminilità rivendica per se stessa il diritto al piacere, al godere, e persino ad una attività effettiva e ironizza sul cittadino adulto, maschio, che si occupa solo, apparentemente, dell’universale. E, per descrivere l’azione degli adulti che governano la comunità, aggiunge: «E queste forze ancora troppo immediatamente naturali, ogni comunità ha il compito di trasformarle in armi per sé, avviando gli individui giovani – nei quali si compiace il desiderio della donna – a far(si) la guerra e ad ammazzarsi in conflitti cruenti» in Luce Irigaray, Speculum. L’altra donna, trad. it. di Luisa Muraro, Feltrinelli, Milano 1977, p. 209.
[12] C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, cit., p. 48.