diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo edizione 18 - 2022

Grande Seminario 2021 - L'irrinunciabile

Orientarsi con l’eco

Il Seminario di quest’anno è dedicato al tema dell’irrinunciabile. L’irrinunciabile è ciò che nel nostro quotidiano, nel nostro stare al mondo, costituisce le linee portanti del senso delle cose per noi. Chi siamo, cosa facciamo del nostro tempo, quali valori, quali pratiche di vita seguiamo sono questioni a cui ciò che è per noi irrinunciabile risponde. L’irrinunciabile è il nucleo del senso, ed è un senso in divenire. Bisogni e desiderio trovano nell’irrinunciabile la propria fonte e il proprio orientamento, ma non solo in esso. Essi sono infatti più fortemente intrecciati alle contingenze storiche, politiche e culturali, e al nostro carattere. Se quindi possiamo considerare l’irrinunciabile un po’ come una stella polare del nostro agire, bisogni e desiderio sono invece le navi che fanno vela fra le correnti, percorrendo molteplici rotte.

Vorrei ringraziare Wanda Tommasi per la sua relazione, che ha fatto da apertura e introduzione al tema e ai concetti del Seminario di quest’anno. Nella sua relazione ha descritto con grande accuratezza il desiderio e i bisogni, le loro somiglianze e differenze, i loro intrecci. Desidero che questa mia riflessione faccia un po’ da prosecuzione del discorso aperto da Wanda, raccogliendone i guadagni verso una direzione particolare. Mi concentrerò sui bisogni, lasciando da parte per il momento il desiderio. La questione su cui voglio riflettere è come orientarsi tra bisogni surrogati, cioè quei bisogni che, come ha detto Wanda, rimangono rinchiusi entro i confini dell’io, e i bisogni che sentiamo avere dell’essenziale. La mia proposta, che fa da titolo, è di orientarci con l’eco.

Vorrei riprendere il discorso di Wanda a partire dal concetto di “sentire” formulato da Chiara Zamboni nel suo ultimo libro Sentire e scrivere la natura. Il desiderio e i bisogni nascono infatti dal sentire del mondo.

Il “sentire” è interiore ed esteriore insieme, senza che vi sia uno sbarramento netto tra un piano e l’altro. Il “sentire” fa da ponte in quanto allude al lato inconscio della nostra relazione con il mondo. […] Sentire è più del percepire. Succede quando si avverte che il fatto percepito è onirico e in divenire. Quando nel percepire insistono il passato e il presente avviato al futuro. Mi riferisco all’esperienza comune per la quale in questa erba secca dell’estate sentiamo l’odore dell’erba secca di altri luoghi e altri anni passati e che verranno. E quando la casa di oggi è anche la casa sconosciuta incontrata nei sogni.[1]

 Il sentire è un concetto caratterizzato dall’intersezione dei piani: non c’è suddivisione netta tra interno ed esterno, conscio e inconscio, reale e onirico. Allo stesso modo con le amiche di Diotima non intendiamo suddividere tra bisogni del corpo e bisogni dell’anima, tra un bisogno materiale e un desiderio simbolico. I piani si intrecciano: corpo e anima, materia e simbolico. Il sentire tuttavia non ci permette di distinguere tra bisogni che hanno dell’essenziale e bisogni surrogati perché è anteriore ad essi, anteriore persino alla distinzione tra bisogni e desideri. Il sentire, per riprendere una bellissima espressione di Clarice Lispector, è vicino al cuore selvaggio dell’esperienza.

Bisogni e desiderio nascono quindi da qualcosa che non è proprio solo dell’io ma che si radica nella relazione tra l’io e il mondo. Hanno componenti storiche, ma anche componenti che storiche non sono, componenti che potremmo chiamare trasversali perché riconosciamo un ripetersi e una somiglianza attraverso le distanze culturali e temporali. Ci sono infine componenti che si legano a ciascuna e ciascuno di noi nella nostra particolarità. La differenza tra bisogni e desiderio descritta da Wanda Tommasi, sta nel fatto che i bisogni hanno un oggetto e, di conseguenza, quando trovano quell’oggetto, finiscono. Si possono reiterare, come il bisogno di bere o di mangiare, ma è importante sottolineare che sono limitati. Al contrario, il desiderio non ha un oggetto ed è per questo infinito e mutevole. Il desiderio è lo slancio verso qualcosa che non possiamo nominare, che non possiamo comprendere (nel senso etimologico di stringere tra le mani) ma che ci orienta.

Concentriamo quindi il nostro discorso sui bisogni.

I bisogni hanno un oggetto e pretendono soddisfazione. Questo li rende parte dell’ordine della necessità, mentre il desiderio appartiene alla libertà. L’ordine della necessità implica una cosa molto importante: che hanno una forza cogente, una spinta alla realizzazione molto più immediata e visibile rispetto alla spinta del desiderio. Come ci ha fatto notare Diana Sartori, storicamente si è sempre parlato di “bisogno” per dare forza simbolica ai movimenti politici. Dire «Non lo desidero semplicemente, ne ho bisogno» crea un tipo di narrazione che solleva una forza simbolica immediata. Una forza che ha mosso le rivoluzioni e i movimenti di liberazione, e di cui i meccanismi di potere, di conseguenza, sono sempre stati ghiotti. È un’energia potente, veloce e molto visibile – che ha quindi un grande impatto sul simbolico –, ma che, al tempo stesso, si ammansisce facilmente offrendo un oggetto di soddisfazione. È quel tipo di energia che si cavalca ad esempio durante una campagna elettorale per attirare a sé il consenso e poi, una volta al potere, sopire gli animi con qualche concessione. Non solo, è spesso un’energia di massa, di contro alla spinta del desiderio che resta legato alle soggettività senza creare “noi” fusionali. Per usare una metafora, se il desiderio è come una corrente marina, costante e trasformativa, il bisogno è come un’onda che si infrange su una scogliera, per poi tornare a formarsi.

La questione dei bisogni si fa problematica a proposito di quei bisogni che vengono surrogati. Quei casi in cui, cioè, la cogenza del bisogno viene sfruttata in modo strumentale, spostandolo verso un oggetto che non era il suo obiettivo iniziale (o non solo quello). Surrogare il bisogno significa prendere un moto del sentire e deviarne il movimento verso qualcosa di diverso (ma collegato) rispetto al suo oggetto iniziale. Se da un lato è spesso la società che devia i nostri desideri e bisogni secondo cornici culturali, simboliche e politiche, d’altro canto noi stesse e noi stessi partecipiamo di questo processo in quanto soggetti storici, culturali e politici. Di nuovo, i piani si intersecano.

Quando ai nostri bisogni viene presentato un oggetto surrogato non totalmente estraneo all’oggetto originale, noi sentiamo una forma di soddisfazione. Facciamo quindi fatica ad accorgerci che il nostro bisogno era un altro, o che non si limitava a quel particolare oggetto. Si cambia la forma del bisogno attraverso un oggetto diverso, spostandolo su un piano diverso. Come ha mostrato Wanda con l’esempio del dibattito dai toni accesi che si era aperto su bar e ristoranti alla fine del primo lockdown pandemico, il bisogno di relazione e condivisione era stato “spostato” nella narrazione politica sul piano economico, come se solo nei bar e nei ristoranti potessimo trovare soddisfazione a quel bisogno. Andare al bar era diventato un diritto inalienabile, una misura della libertà. Per contro, com’è stato fatto notare durante il dibattito, non c’è stato un vero ascolto o dialogo rispetto a coloro per cui quel bisogno era effettivamente primario.

Dunque la questione della distinzione tra i bisogni che hanno e mantengono un rapporto con l’essenziale – con l’irrinunciabile – anche nella loro soddisfazione e quei bisogni che vengono surrogati verso altre o più particolari soddisfazioni è anche e prima di tutto una questione politica. Per il femminismo lo è particolarmente, perché è stato il femminismo a lavorare di più su quello spazio trasformativo nel passaggio tra personale e politico. Come distinguere quindi tra bisogni fedeli all’irrinunciabile e bisogni surrogati?

Per rispondere a questa domanda il percorso che voglio proporre impone di fare un passo indietro e imboccare un sentiero che coinvolge i concetti di permeabilità, di soggettività e relazione, e il nostro rapporto con il contesto più grande in cui siamo immersi: l’ambiente, la Terra, la natura.

Vorrei cominciare dalla permeabilità. Se c’è una cosa che la pandemia ci ha insegnato nel modo più traumatico è la consapevolezza di quanto siamo permeabili. Ciascuno e ciascuna di noi è molto più vicino agli altri di quanto non credessimo. Basta meno di un metro per condividere il respiro, e con esso virus e batteri. Basta una sola persona in una stanza per infettarne una decina. Basta un volo e pochi giorni di tempo per trasportare un virus da una parte all’altra del mondo. Tutto questo ha fatto paura. Non solo per il rischio proprio della malattia ma in modo più profondo e radicale, perché ha scosso il nostro sentire atavico di esseri separati dal mondo. Quel sentire, cioè, che si guadagna nella prima infanzia quando ci separiamo gradualmente dalla fusione con la madre e dal mondo, costruendo un’identità fisica e mentale separata. La permeabilità a cui la pandemia ci ha bruscamente ricondotto ha scosso le radici del nostro immaginario e del nostro inconscio, toccando quelle che Freud chiama «angosce primarie» o «automatiche». Il timore della contaminazione risvegliato dal virus si è per molti e molte collegato all’angoscia provocata dalla sensazione dell’impossibilità di controllare o impedire il flusso delle cose tra noi e l’ambiente, generando uno shock.

Se la permeabilità è stata, ed è tutt’ora, un’esperienza scioccante, voglio però guardarla nella sua interezza e riconoscerne altri aspetti. È vero infatti che la mancata perdita della fusionalità con l’ambiente e gli altri nell’infanzia è una causa di disagio mentale, e quindi la differenza tra noi e il mondo ci è necessaria. Tuttavia la cultura occidentale ha spinto questa differenza al suo estremo, fino a staccarci e opporci agli altri e a ciò che ci circonda, per mania di controllo e, in certi casi, vero e proprio delirio di onnipotenza. Voglio nominare alcuni momenti della storia del pensiero occidentale in cui questa separazione e opposizione si è fatta radicale, per circoscrivere il fenomeno. Non è infatti sempre stato così, non è “naturale” pensarci diametralmente opposti al mondo, ma è culturale e storicamente determinato. Riconoscerne i caratteri storici permette di separarne i fili dal tessuto simbolico in cui siamo immersi e immerse, e poterli modificare.

Il concetto occidentale di soggettività umana non comincia il suo percorso di separazione dal mondo e dalle relazioni con gli altri con i primi concetti della filosofia, anzi. Il Logos deriva la sua radice da legein, che significa legare insieme, collegare, ma anche tessere. Così ogni disciplina che mantiene nel proprio nome il logos (come la biologia, la psicologia, la geologia etc) possiede alla sua radice culturale ed etimologica la ricerca come studio delle relazioni tra gli elementi di un determinato campo. La tensione del logos greco è verso le cosiddette cause finali: la conoscenza dell’essere delle cose nella loro particolarità e nel loro valore intrinseco. Il problema comincia invece a porsi quando il logos viene tradotto e tradito nella ratio latina – “rapporto” e “proporzione” – avviando un processo culturale che sfocia nell’invenzione del metodo scientifico, nell’ideologia baconiana del dominio della natura e nel dualismo cartesiano. L’opposizione dualistica dei contrari, che se nell’Antica Grecia, ad esempio nell’Apeiron di Anassimandro, erano uniti in una relazione tale per cui entrambe le parti erano ugualmente indispensabili all’equilibrio, si trasforma progressivamente e si afferma in Epoca Moderna come proporzione gerarchica ideale – ratio – tra un Primo e un Secondo.

Un Primo che deve dominare e guidare, stabilire le regole, ordinare e creare (o produrre), e un Secondo che deve sottomettersi e ubbidire, eseguire, fungere da materiale di ri-produzione. Se il Primo possiede un valore intrinseco ed è sempre visibile, il Secondo ha valore solo in rapporto al Primo e viene relegato culturalmente e simbolicamente all’invisibilità. A questo modello corrispondono i dualismi gerarchici di cultura e natura, logos e pathos, uomo e donna, padrone e servo, essere umano e animale, uomo bianco europeo e “popoli primitivi”, ma anche lavoro produttivo e lavoro di cura, crescita economica capitalistica ed economia di sussistenza. Il riconoscimento di un modello trasversale – patriarcale, coloniale, capitalistico – che si riproduce in diversi ambiti sociali, culturali e politici attraverso i dualismi oppositivi che ho nominato è alla base dell’approccio ecofemminista.

Carolyn Merchant nel suo libro Death of Nature del 1980, pubblicato in Italia come La morte della natura. Donne, ecologia e rivoluzione scientifica. Dalla natura come organismo alla natura come macchina,è stata la prima a teorizzare la connessione tra una certa concezione utilitaristica della natura nata in Epoca Moderna e l’inasprirsi del patriarcato sui corpi delle donne – il cui fenomeno più eclatante è stato la caccia alle streghe.

Il lascito del dualismo cartesiano, che è il lascito del Razionalismo, ha portato con sé un concetto di soggettività scisso di una parte dell’esperienza. Tutto ciò che nell’esperienza di ciascuno e ciascuna appartiene simbolicamente all’ambito del Secondo – la natura, gli animali, il corpo, le emozioni, il lavoro di cura ma anche lo sfruttamento delle classi e dei popoli, le forze di ri-produzione nelle società, le realtà economiche non capitalistiche – è escluso dalla relazione con l’Io, in primis dalla relazione considerata più importante proprio a partire dal Seicento: quella di causa-effetto. Quanto a lungo si è negata la responsabilità del maschile patriarcale sulla condizione delle donne? Quanto a lungo si è negata la responsabilità del colonialismo sull’economia, la cultura, l’ambiente dei popoli colonizzati? Quanto a lungo si nega ancora la responsabilità del capitalismo sull’impoverimento della gente, sulle crisi sociali e sull’inquinamento degli ecosistemi?[2] Quanto ancora si nega la sua responsabilità verso la crisi climatica?

È qui che a mio parere la pandemia ha avuto e ha tutt’ora il pregio di mostrarci alcune cose attraverso la permeabilità. Ci ha mostrato l’altra faccia della globalizzazione, alzando il velo della narrazione capitalistica della “conquista” del pianeta al capitale come di una terra promessa fatta di guadagni per tutti – vale a dire per tutti coloro che appartengono al mondo occidentale, bianco, ricco. Una narrazione che crede nella “diffusione del vantaggio” secondo un’unica direzione: dal Sud del mondo, retrogrado e sfruttabile, all’occidente capitalistico e “avanzato”. La relazione, ci ha mostrato invece la pandemia, funziona in tutte le direzioni. Non si possono annullare le distanze e voler mantenere le separazioni. La pandemia ci ha dimostrato l’interdipendenza e la vicinanza di ognuno e ognuna, e di tutti noi con l’ambiente. Ci ha fatto toccare con mano quanto siamo tutti inestricabilmente legati, il Nord e il Sud del mondo, vicini e lontani.

Se sull’Io come soggettività in relazione con altri e altre si è fatto un lungo percorso, specialmente nell’ambito del pensiero delle donne – la pratica di pensiero e ricerca in comunità di Diotima ne è un esempio – ciò che manca all’appello della visibilità è per me un pensiero della relazione con altre e altri con il contesto, con l’ambiente. La seconda cosa che la pandemia ha reso visibile è stata infatti come cambi la nostra esperienza – e con essa il sentire, i nostri bisogni e il nostro desiderio – quando siamo costrette e costretti a tener conto della connessione con l’ambito del non umano, della natura. La relazione con il contesto ambiente – nel nostro caso attuale, con il virus e le sue dinamiche – è tornata prepotentemente visibile nel quotidiano di tutti, scompaginando le società e portando con sé nuove gerarchie di importanza, nuovi bisogni e desideri, nuovi valori. Quanti e quante di voi si sono resi conto, come me, che alcune cose che credevamo importanti, o addirittura irrinunciabili, dopo l’esperienza della pandemia non lo sono più? Quante cose che davamo per scontate, sia per noi stessi e per le nostre relazioni più vicine che a livello della società, si sono mostrate invece fondamentali e spesso trascurate o molto fragili? Penso ad esempio all’importanza del lavoro di cura in tutte le sue declinazioni.

I nostri bisogni e il nostro desiderio si sono modificati con l’esperienza della pandemia. Per quanto mi riguarda ho sentito che alcuni, proprio grazie a questa esperienza, hanno guadagnato in chiarezza. Mi sono quindi chiesta cosa potesse generare questa sensazione e, nella ricerca condotta insieme alle amiche di Diotima, ho cercato di indagare la mia esperienza.

Mi sono resa conto che c’è una differenza di sensazione molto forte nella soddisfazione dei bisogni, grazie al quale riesco a distinguere se l’oggetto offerto era fedele al bisogno nella sua interezza o rappresentava un surrogato. Quando l’oggetto rispetta la vicinanza all’essenziale, la relazione con l’irrinunciabile, sento che la soddisfazione non si limita ai confini del mio io, non si ferma a me, ma possiede una eco. Sento la forza trasformatrice di questo bisogno che si propaga lungo le linee delle mie relazioni con le altre e gli altri, così come lungo le linee delle relazioni con il non umano, i luoghi che compongono la mia vita, gli spazi, la natura che in essi si trova. Questa eco è come un’onda sonora che si propaga con una forza trasformativa nel tessuto delle relazioni che compongono la mia esperienza, un’onda che apre la mia dimensione personale ad un orizzonte grande. È una forza che trasforma me stessa in rapporto a quelle relazioni, mi sposta all’interno di esse, modificando di conseguenza le relazioni stesse. La sensazione della connessione con l’orizzonte grande, del coinvolgimento dell’intero tessuto delle relazioni mi provoca un piacere che va oltre la soddisfazione del bisogno stesso. Un piacere che è come un senso di risonanza tra la forma delle mie relazioni e ciò che per me è irrinunciabile.

Quanto più il bisogno soddisfatto è vicino all’irrinunciabile per me, tanto più i bisogni e il desiderio sfumano i loro contorni. Certi bisogni hanno lo slancio del desiderio e il desiderio può assumere la forza di un bisogno. Quando invece soddisfo un bisogno con un oggetto che mi rendo conto essere surrogato – tante volte questo succede a causa del consumismo e della cultura di massa, da cui è difficile affrancarsi – il movimento trasformativo si ferma subito. L’onda muore sulla soglia del mio io. Va perduta la connessione con l’orizzonte grande, ciò che sento è di aver soddisfatto un bisogno solipsistico che non si è aperto ad altre relazioni, alla condivisione. C’è soddisfazione, ma non c’è il piacere di cui parlavo prima.

Vorrei quindi proporre il sentire di questo eco come strumento per comprendere il carattere dei nostri bisogni. Per orientarci.

L’eco dipende dalla presenza dell’interezza del tessuto di relazioni che compongono il nostro stare nel mondo – le relazioni umane e relazioni con il non umano. Il Primo e il Secondo. Queste relazioni costituiscono, per usare un termine weiliano, il radicamento dei nostri bisogni e desideri. Senza questo tessuto, o senza una parte di esso, il radicamento va perduto e ci ritroviamo in un orizzonte alienato e solipsistico. Solo quando tutte queste relazioni sono nel campo del visibile, possiamo sentire l’eco trasformativo nella soddisfazione di bisogni che restano vicini all’irrinunciabile. La relazione con il contesto ambiente, quella parte di relazione con l’ambito del Secondo ancora per lo più relegata all’invisibilità nel simbolico e che tuttavia è parte integrante della nostra soggettività, rappresenta quindi a mio parere una componente indispensabile nell’orientamento fra i nostri bisogni. Come indagare quindi la relazione con l’ambiente di ciascuna e ciascuno di noi? Come abituarci a rendere nuovamente visibile ciò che la nostra cultura occidentale europea ci spinge a relegare nell’invisibilità? In che termini, insomma, bisogna costruire e descrivere questa relazione perché risulti orientante?

Voglio affidarmi al pensiero dell’ecologista e filosofo norvegese Arne Naess, fondatore negli anni Ottanta del movimento dell’Ecologia profonda, i cui saggi sono stati recentemente tradotti e pubblicati in italiano.

Naess ha costruito una filosofia ecologica – un’ecosofia, come l’ha chiamata – fondata sulle relazioni profonde tra l’essere umano e l’ambiente. Non un ambiente inteso in senso concettuale e disincarnato, ma gli ambienti particolari che partecipano alla nostra vita: i luoghi della nostra infanzia, i boschi che percorriamo, i mari e i laghi in cui nuotiamo. Naess è infatti contrario ad un ambientalismo per precetti universali, regole assolute che dovrebbero valere indipendentemente dal contesto particolare, dalle persone, dalle culture e dalle società. Per questo la sua ecologia è caratterizzata dalla profondità: perché si fonda sull’interrogazione delle relazioni fondanti della nostra soggettività, le relazioni che ci legano all’ambiente, ai luoghi e alle persone che ci circondano. È a partire da queste interrogazioni che Naess intende formulare un nuovo modo di stare ecologico: a partire dalla radice greca oikos, la casa comune. L’ecologia di Naess è profondamente legata a un concetto di radicamento. Lo è al punto che il filosofo norvegese scrive che tali relazioni costituiscono la nostra identità, ne sono le componenti. L’obbiettivo dell’ecosofia è quello, scrive Naess, di «difendere la nostra esperienza spontanea, ricca e apparentemente contraddittoria della natura come più che semplici impressioni soggettive. Queste costituiscono il contenuto concreto del nostro mondo»[3].

Naess parla del “sé espanso”, il sé che accoglie integralmente le relazioni di cui partecipa la sua identità, senza scindere tra relazioni umane e relazioni non umane. La sua ecosofia ha quindi come obiettivo «l’integrazione dell’io». L’integrazione cioè di tutte quelle relazioni con il contesto, che normalmente sono rese invisibili dalla nostra cultura, nella nostra rappresentazione dell’esperienza del reale. Solo quando avremo integrato tutte queste relazioni nella nostra visione allora i nostri sistemi di valori si modificheranno e genereranno un nuovo modo di stare. L’ecosofia è quindi il primo e più profondo passo di un processo di trasformazione – in realtà di realizzazione, un portare a galla l’interezza del sé come insieme di relazioni – che da personale, attraverso queste mediazioni, diviene politico. Aderenza al sé espanso vuol dire chiarezza e orientamento politico secondo i propri desideri e bisogni, secondo ciò che noi in questo Seminario chiamiamo l’irrinunciabile.

Il punto di riferimento attraverso cui Naess si orienta nell’intera costruzione della sua filosofia, la sua stella polare, è la relazione con una montagna: la catena dell’Hallingskàrvet. Dalle parole con cui la descrive, in questa relazione è riconoscibile il concetto di sentire di Chiara Zamboni: un attraversamento del conscio e dell’inconscio, del concetto e dell’onirico. Un tenersi vicini al cuore selvaggio dell’esperienza, e farne l’ago della propria bussola. Naess parla di Luoghi-Persona o di Luogo. Il Luogo è definito dal proprio sentimento di appartenenza ad esso, di identificazione. «Identificazione», scrive, nel senso che la relazione con il Luogo entra pienamente nella costruzione della propria identità – anzi, ne costituisce uno dei cardini. A questo modo, il Luogo diventa soggetto tanto quanto la persona, acquisendo quel carattere di alterità che sfugge al nostro desiderio di controllo. Anche in questo la pandemia ci è stata maestra: non possiamo pensare di controllare tutto. Le mutazioni del virus, le sue dinamiche, sfuggono ai nostri deliri di onnipotenza. Come ha detto Wanda Tommasi, si tratta del nostro limite in quanto esseri umani, della nostra fragilità intrinseca e necessaria, del nostro stato creaturale. Si possono fare esempi meno spaventosi della pandemia. Come sa chiunque abbia un orto o un giardino, la natura che vi si trova non può mai essere dominata. Le erbacce troveranno altri modi per spuntare, i fiori e gli ortaggi cresceranno in modi diversi da un anno all’altro, lo stesso quadrato di terra darà frutti differenti pur utilizzando sempre gli stessi metodi. C’è qualcosa di insopprimibile, qualcosa che resta altro da noi sempre e comunque. Perciò qualsiasi delirio di onnipotenza sarà messo immediatamente in ridicolo dai pomodori che spuntano troppo tardi o troppo presto e dall’edera che ricresce con qualsiasi tempo. La natura non è più, quindi, concepita come materia da dominare, ma un organismo con regole proprie e un valore intrinseco, verso cui solo se ci poniamo in dialogo possiamo aprire e aprirci a tutte le potenzialità politiche di questa relazione.

Tornando a Naess, così è descritta la nascita del rapporto con la montagna Hallingskàrvet:

Lungo il lontano orizzonte verso nord viveva l’enorme Hallingskàrvet. Ogni giorno sembrava diverso, pur mantenendo sempre il suo supremo equilibrio. Il visitatore che lo salutava al mattino, in agosto, poteva vederlo improvvisamente ammantato di bianco per via della neve autunnale. […] Questa lontana, suprema, potente, serena, distaccata e bella montagna acquisì gradualmente uno status e si rivelò ai miei occhi come un padre benevolo e protettivo, addirittura come un essere divino. Ho fatto di Hallingskarvet il simbolo di tutto ciò che di buono mancava al mondo, e a me stesso.[4]

È straordinario il fatto che un Luogo, persino quando resta disabitato per la gran parte del tempo, determina gli atteggiamenti, le simpatie, le antipatie, e le prospettive generali di chi lo abita. È come essere catturati dal Luogo [5]

Naess si costruì una baita alle radici dell’Hallingskàrvet e la chiamò Tvergastein. La baita si trovava molto in alto e distante da ogni centro abitato, non possedeva fonti di energia, acqua corrente, riscaldamento o cibo. Naess dovette ripensare il suo modo di vivere per adattarsi all’Hallingskàrvet e ai suoi caratteri: le tempeste di vento gelido che portano via la neve, la mancanza di alberi e di grandi animali. Dovette trasportare la maggior parte dei beni di prima necessità nello zaino e conseguentemente ogni cosa assunse un valore e un ruolo diverso. Scrisse la maggior parte delle sue riflessioni a Tvergastein e in fortissima relazione con essa. La sua ecosofia – che per essere precisi si chiama Ecosofia T, da Tvergastein – prese i suoi fondamenti dalla consapevolezza di quanto la vita umana possa variare nelle sue forme, nei suoi valori e convinzioni quando si trova radicata fortemente nella relazione con un Luogo.

Al contrario, il pensatore norvegese lamentava una «corrosione dei Luoghi» nella modernità. Lo sradicamento, come avrebbe scritto Simone Weil, rispetto alla relazione con una Casa.

Urbanizzazione, centralizzazione, aumento della mobilità (sebbene i nomadi abbiano dimostrato che non tutti i tipi di mobilità distruggono la relazione di appartenenza a un qualsiasi Luogo), il dipendere da beni e tecnologie che arrivano da luoghi a cui non si appartiene, l’aumento della complicazione strutturale della vita – tutti questi fattori indeboliscono, o disturbano, la costante appartenenza a un luogo, o ne ostacolano perfino la formazione. In breve, sembra che non ci sia più posto per il Luogo.[6]

In altre parole, secondo il pensatore norvegese la mancanza della relazione con un Luogo determina la mancanza di una parte della propria identità. Nei termini che abbiamo usato fin qui potremmo dire che restano nel campo dell’invisibile una parte di quelle relazioni che appartengono alla nostra esperienza e che radicano bisogni e desiderio. Questo vuol dire avere difficoltà a trovare un orientamento, avere una visione alienata. Non c’è eco se manca il Luogo.

L’esempio di Naess e del suo Luogo è radicale. Ma non è necessario cercare una relazione con un eremo vicino al circolo polare artico per poterci orientare, anzi, era proprio questo genere di astrazioni che Naess criticava. Il Luogo-Persona è un luogo che conosciamo, che fa parte della nostra vita. Il punto sta nel riconoscerne l’alterità e la nostra relazione con esso. Tra i miei Luoghi, ad esempio, quello che sento più orientante è il mare, ed è un Luogo che condivido con la mia famiglia e con alcuni amici. Sono nata a Genova, e il mare ha sempre fatto parte della mia vita, non come un luogo di villeggiatura ma come una persona, un parente o un amico. Quando sento al telefono i miei familiari che abitano là, è normale che dopo avermi raccontato dei parenti mi dicano “come sta il mare”, come se fosse uno zio o un cugino. “Come sta” vuol dire di che colore è, se è mosso oppure piatto, se è bigio, color acciaio oppure blu intenso. Se è frizzante, con le crestine che si vedono da lontano oppure è molle e oleoso per il caldo di agosto. Quando vado a Genova, lo “andiamo a trovare”, perché non lo vedo da tanto e mi manca. Un mio amico che lavora sulle navi mi manda le foto che fa a largo, dove si vedono solo il mare e il cielo, perché così vedo “come sta oggi”.

Il mare è sempre stato un’entità col carattere di persona per chi ci vive, per chi ne dipende. La legge del mare è una tradizione antichissima che tutti i popoli di mare hanno sviluppato, anche se in forme diverse. Rappresenta la formalizzazione di alcune regole che bisogna tenere nel rapporto con questo Luogo: regole che rispecchiano una relazione tra due soggettività, non tra un soggetto e un oggetto. Faccio un esempio: non si esce in mare quando c’è tempesta. Non perché si rischia la vita, o non solo, ma perché non è rispettoso. E quando non c’è rispetto, il mare ti prende. Questo insieme di leggi rappresenta una sapienza non scritta, di cui solo alcune parti sono passate nei codici legislativi ufficiali. Tuttavia, si tratta di una sapienza la cui forza a volte attraversa la legge. La scorsa primavera la capitana della nave Sea Watch Carola Rackete è stata scagionata dalle accuse per aver sfondato il blocco del porto di Lampedusa voluto da Matteo Salvini, che le impediva di far sbarcare i rifugiati a terra. La Corte di Cassazione ha riconosciuto che la legge del mare, presente nei codici come dovere di soccorso, aveva forza maggiore rispetto alla legge di terra sui confini. Dalla lunga tradizione della relazione con un Luogo-Persona, il Mare, sono derivate regole che sono umane e non umane al tempo stesso, che radicano e orientano l’oikos, la nostra Casa, secondo giustezza.


[1] Chiara Zamboni, Sentire e scrivere la natura, Mimesis, Milano 2020, p. 11.

[2] A questo riguardo, la riflessione di Jason W. Moore sulla critica all’utilizzo del nome “Antropocene” per l’era geologica in cui ci troviamo risulta quantomai calzante. Non sono stati tutti gli anthropoi, gli esseri umani, a generare la crisi ecologica in cui ci troviamo, ma un certo sistema umano di organizzazione di sé e di utilizzazione delle risorse per la propria sopravvivenza. Moore individua nel capitalismo il «regime ecologico» responsabile della crisi e propone quindi un nuovo nome: «Capitalocene». Cfr J. W. Moore, Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria, Ombre corte, Verona 2017.

[3] A. Naess, Ecology, Community and Lifestyle, Cambridge University Press, Cambridge 1989, traduzione di E. Cavazza in A. Naess, Siamo l’aria che respiriamo. Saggi di ecologia profonda, Piano B edizioni, 2021, p. 35.

[4] Ivi, p. 45-46.

[5] Ivi, p. 52.

[6] Ivi, pp. 29-30.