diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 9 - 2010

Grande Seminario

“Nulla” è la forza che rinnova il mondo

La nostra lezione comprende tre momenti: la lettura del racconto di Vita Cosentino “ Sono una donna ricca”, alcune mie riflessioni che abbiamo discusso insieme, ed un atto di questua a favore della comunità di Ndem con il quale vi coinvolgerò, perché, come vi spiegherò sono nella necessità di pagare un debito.

 

 

Il titolo della lezione “Nulla” è la forza che rinnova il mondo” è la citazione degli ultimi due versi della poesia  (1563) di Emily Dickinson che si può tradurre così:

 

Umili doni, parole smozzicate

parlano al cuore umano

di nulla

“nulla” è la forza

che rinnova il mondo

 

By homely gift and hindered Words

The human heart is told

Of nothing

“Nothing” is the force

That renovates the World )

 

 

La traduzione  è  libera ed io intendo così le parole della poeta: cose da nulla – doni da poco, fatti in casa, e parole smozzicate – questo nulla è ciò che muove il cuore e rinnova il mondo. E’ una asserzione che ci mette fuori dal piano disegnato dei rapporti di forza o delle lotte per il potere e indirizza la nostra attenzione a cercare il rinnovamento del mondo, nelle pratiche, nelle scelte di vita di singole donne e di singoli uomini, connesse insieme in una trama di relazioni.

In queste mie riflessioni  ho pensato in particolare a quelle e a quelli che Hannah Arendt avrebbe detto i nuovi, gli appartenenti alla nuova generazione. Qui, dove viviamo, e in altre parti del mondo che in questa epoca non sono più così lontane da noi.

Ho tenuto presente comportamenti di giovani donne e uomini che conosco, ma mi sono anche avvalsa della recentissima elaborazione delle donne sull’economia e posta in dialogo con testi di uomini che si sono messi in ascolto delle donne, andando al di là delle rappresentazioni scontate ed correnti della realtà.

Con Vita , ed altre amiche della Libera Università dell’Incontro, come Letizia Bianchi e Serena Sartori , abbiamo cominciato a ragionare sull’economia, alcuni anni fa all’interno di seminari e convegni organizzati da Mag Verona. Gli atti del Convegno del maggio 2007 La vita alla radice dell’economia sono stati occasione di discussione in diverse città d’ Italia, nello stesso periodo è uscito il  doppio sì  del Gruppo lavoro della Libreria delle donne e ora,  dopo lo scoppio della crisi economica, si sono aggiunti altri contributi importanti: il numero89 di Via Dogana intossicano gonfiano rubano strozzano e la chiamano economia, del luglio di quest’anno, e finalmente il nuovo Sottosopra Immagina che il lavoro, uscito un mese fa, sempre a cura del gruppo lavoro della Libreria delle Donne.

Anche in questo Grande Seminario le lezioni di Luisa Muraro, quella di Wanda Tommasi sulla sapienza quotidiana, quella di Federica Giardini con i ragazzi dell’Onda sui beni comuni e l’ultima la settimana scorsa delle giovani filosofe napoletane Tristana Dini e Stefania Tarantino hanno affrontato temi che riaffermano la centralità di questa discussione che è ancora tutta aperta.

Mettere la vita alla radice dell’economia, come si diceva in quel convegno del 2007, o primum vivere, come dice più felicemente il Sottosopra, indica un radicale cambiamento di prospettiva, un rovesciamento di valore, di cui tutto il mondo ha urgentemente bisogno. La pienezza della vita al centro, lavoro e produzione in posizione subordinata. Riportare l’economia alla radice dei suoi compiti, che sono quelli di rispondere ai bisogni della vita in rapporto alla terra, all’ambiente nel quale la nostra specie vive, significa riaffermare il primato del politico sull’economico. Lo afferma esplicitamente, Ina Praetorius, teologa svizzera, – le cui riflessioni potete trovare sia nel libretto La vita alla radice dell’economia che nel numero di Via Dogana dedicato all’economia che ho già citato.

Al contrario negli ultimi decenni, quelli in cui la globalizzazione ha sconvolto i punti di riferimento ai quali eravamo abituate, la sfera economica si è imposta come potenza autonoma e dominante rispetto ai processi di decisione  politica, che le sono stati totalmente subordinati.  I governi nazionali, quelli europei, ma anche quelli del Sud del mondo, hanno dovuto confrontarsi con la potenza fuori controllo delle multinazionali, del capitale finanziario e sono stati indotti per intimo convincimento, o costretti, per quel realismo che dà per scontati i rapporti di forza, ad accettare il quadro già definito del liberismo, divenuto imperante dopo il crollo dei paesi socialisti.

Il liberismo è un sistema di rappresentazione della realtà economica che punta totalmente sul mercato limitando al massimo l’intervento statale, nella pratica risulta essere la progressiva messa a disposizione di tutta l’umanità e di tutte le risorse della terra, che vengono subordinate alla crescita del profitto e della ricchezza di un numero molto ristretto di persone. Il processo di globalizzazione e di finanziarizzazione ha privato di strumenti di intervento i governi nazionali a cui è rimasto però il compito di applicare, mediando il conflitto sociale, le direttive dei centri finanziari. Centri che sono essi stessi, nella loro forma costitutiva, sottratti al cosiddetto controllo democratico

E’ chiaro a questo punto perché destra e sinistra sfumano l’una nell’altra: nessuno pone in discussione seriamente il quadro, tutti sono realisti e tengono conto solo dei rapporti di forza: che cosa succederebbe se lo stato fallisse, se uscissimo dall’area euro? Il compito dei politici, di destra e di centrosinistra è stato quello di gestire il cambiamento, di far digerire alla popolazione la progressiva riduzione della spesa per il welfare, la aziendalizzazione o la privatizzazione  di servizi essenziali: acqua, salute, istruzione, pensioni….

La crisi economica attuale, esplosa con le speculazioni finanziarie,  rappresenta agli occhi della gente che gli aveva dato credito il fallimento simbolico del modello liberista,  non mi pare però che la spregiudicatezza con la quale oggi si fa ricorso all’intervento statale indichi una inversione di tendenza, quanto una decisione congiunturale. Dopo aver teorizzato per anni la riduzione della spesa pubblica, il pareggio di bilancio e il non intervento statale, i governi degli Usa e ed europei  hanno sborsato miliardi pubblici per salvare gli interessi delle banche. Si può fare una politica di deficit se si tratta di salvare gli interessi degli speculatori, ci siamo indebitati per questo e non per investimenti pubblici su beni comuni.  La legge sulla privatizzazione dell’acqua di questi giorni dimostra che la direzione in cui ci si muove è rimasta la stessa.  E’ stato notato inoltre  all’interno dell’ incontro della Fao, a Roma appena concluso, che i miliardi versati per salvare le banche sarebbero stati sufficienti a risolvere il problema della fame nel mondo.

In realtà la crisi economica attuale, offre alle aziende l’ occasione  di completare l’opera di delocalizzazione e di ristrutturazione iniziata negli anni ’80, gli anni della globalizzazione, che in Europa è stata nei decenni scorsi  parzialmente frenata  per ragioni di equilibri politici interni ai Paesi europei, dove ancora perdura qualche potere sindacale e qualche legislazione di difesa del lavoro. Legislazione che come sappiamo non però copre le nuove generazioni entrate già precarie e flessibili nel mondo del lavoro. Il liberismo negli ultimi decenni ha comportato la fine dei contratti collettivi di lavoro, la precarizzazione dell’impiego giovanile, e quindi la fine delle garanzie pensionistiche per gran parte di una generazione, la flessibilità, lo smantellamento del settore produttivo pubblico, il disinvestimento sui servizi sociali ( istruzione, trasporti pubblici ecc..) impoverimento dei ceti medi.

Al momento siamo già avvertiti che la ripresa della cosiddetta crescita (misurata in PIL), non comporterà  diminuzione della disoccupazione. Il benessere delle aziende, quelle che vengono dette dagli economisti le forze vive della nazione, non ha alcun legame con la creazione di posti di lavoro, con il benessere dei lavoratori e con l’aumento del loro reddito. Non si può più pensare in termini keynesiani ad una politica dei redditi: le aziende globalizzate hanno un solo interesse: abbassare il costo del lavoro e diminuire gli occupati, si rivolgono infatti ad un mercato mondiale e non hanno alcuna necessità ad aumentare la domanda locale.

L’economista Bruno Amoroso, con il quale abbiamo lavorato nel Convegno La vita alla radice dell’economia, chiama questa ristrutturazione del mercato apartheid globale: infatti il mercato globale non è il mercato di tutti, ma solo di una parte. La globalizzazione, ha usato gli strumenti informatici per riorganizzare la produzione, collocandola in paesi in cui il costo del lavoro è basso,  e ora permette di ottenere alti profitti anche con numero ristretto di consumatori privilegiati,  che saranno costretti a comprare molto data la rapida, programmata obsolescenza dei prodotti.

C’è quindi profitto senza necessità di allargare la base produttiva,  né  il numero dei compratori.

Per i paesi del Sud del mondo è la fine dell’illusione dello sviluppo, ma anche nei paesi della Triade ( Europa, Stati Uniti, Giappone) sono strutturalmente previste sacche di sottoccupazione o di disoccupazione. Milioni di working poors come già avviene negli Stati Uniti.

Chi ha ancora il privilegio di avere un lavoro spesso si trova in una situazione di grande sofferenza. In alcuni casi la ristrutturazione e la riorganizzazione aziendale è talmente brutale che tra chi non è stato licenziato è cresciuta vertiginosamente la percentuale dei suicidi. E’ ciò che è accaduto a Telecom France, originariamente azienda statale, che è stata privatizzata. In 18 mesi si sono suicidati 25 quadri di Telecom France. Facevano parte dei 100.000 dipendenti ancora in servizio dopo che altri 60.000 erano stati tagliati. La maggior parte ha scelto di darsi la morte nel luogo di lavoro. Erano uomini, ma anche donne, la maggior parte era vecchia, cioè avevano 45-50 anni ed erano in difficoltà a riadattarsi – ma una aveva 32 anni, uno 28 e non ce la facevano più.. Alcuni erano stati costretti a cambiare mansione, alcuni, che non erano in grado di trasferire famiglia e figli, erano stati costretti ad accettare un pendolarismo che li costringeva a fare 120 km al giorno per potere continuare a lavorare a Telecom. E’ interessante leggere il commento da Londra – Internet ci permette di farlo -: i lavoratori francesi sono troppo protetti, viziati: solo 38 ore settimanali, invece di 48 e troppo controllo sindacale…

Il problema della mancanza di lavoro si pone oramai in modo drammatico anche in Europa, non solo nelle periferie delle grandi città del sud del mondo. A Nord e a Sud abbiamo da pensare

come far fronte al fatto che le occasioni di guadagnare soldi lavorando stanno diventando rare. Invitando Babakar Mbow, guida spirituale del villaggio di Ndem Senegal, al Convegno del 2007 volevamo indicare una direzione nella quale muoverci: cercare ispirazione anche in altre parti del mondo, nutrire la nostra immaginazione con gli esempi di ciò che altre popolazioni, o  gruppi, stanno facendo per condividere e redistribuire quello che c’è.

Già negli anni cinquanta Hannah Arendt, che leggeva l’inventore della cibernetica Norbert Wiener, diceva che  il nostro mondo era un mondo di lavoratori che stavano per essere privati del lavoro. Ci sono volute alcune decine d’anni perché questo si realizzasse. Perché fossero mature le condizioni tecnologiche e politiche che permettono l’organizzazione di questa forma di dominio che priva le persone delle risorse per vivere e le condanna alla marginalità e all’inattività.

Viviane Forrester in un libro del ’96, (L’orrore economico, premio Medecis per la saggistica del ’96, tradotto in moltissime lingue tra cui in italiano, esaurito, ma in via di ristampa da parte di Ponte alle grazie,) descrive l’orrore di un mondo che continua ad essere retto dall’ideologia del lavoro in momento in cui il lavoro non esiste più. L’operazione di controllo politico di masse di disoccupati e soprattutto di giovani, che non sono mai entrati nel mercato del lavoro e non vi entreranno, si opera facendo credere che la mancanza di lavoro è temporanea e non strutturale.  Descrivendo la situazione dei ragazzi delle banlieux di Parigi la Forrester dice “piuttosto che preparare le nuove generazioni a un modo di vita che non dipenderebbe più dall’impiego ( divenuto praticamente inaccessibile), ci si sforza al contrario di farli entrare in questo luogo tappato che li rifiuta, con il risultato di trasformarli in esclusi da ciò che non esiste neppure. Di trasformarli in infelici” “Non si integrano: ma a che cosa dovrebbero integrarsi? Alla disoccupazione alla miseria? Al rigetto al vuoto della noia, al sentimento di essere inutili, o, parassitari?”

Con lo sguardo rivolto ad orizzonti geografici più ampi Vandahana Shiva, Majid Rahnema descrivono l’accanimento con il quale le multinazionali con l’appoggio del FMI e della Banca Mondiale privano miliardi di persone dei mezzi tradizionali di un’economia di sussistenza, ( della quale nel mondo vivono ancora due miliardi di persone) che permetteva di vivere con poco, li spingono ad abbandonare la campagna e ad affollare le baracche alla periferia delle città. E’ la miseria in senso letterale: quello che era ricchezza disponibile è divenuto raro: non c’è più l’acqua bloccata dalle dighe, le terre sono inaridite dalla monocultura, non ci sono più le foreste, disboscate industrialmente, non ci sono più i terreni comuni. Abbandonano modalità antiche di esistenza, per entrare in un mercato che non ha bisogno di loro e la miseria invade la mente e l’immaginario: la promessa di un meglio in una città ancor più grande o dall’altra parte del mare….

In questa situazione credo che una nuova economia politica possa nascere solo da un rivolgimento delle menti, da una rivoluzione simbolica, il sociologo Alain Touraine direbbe culturale, che si incarna in lotte locali e in comportamenti, in scelte di vita di singole e di singoli che costruiscono insieme un altro ordine di scambi e di rapporti, politici ed economici insieme.

L’opposizione politica non si trova in parlamento, ma in quelli che Ina Praetorius chiama i comportamenti dei postpatriarcali, comportamenti che si diffondono nella vita quotidiana e che possono divenire altre forme di vita, di redistribuzione delle risorse, di attività creative e socialmente utili non necessariamente rivolte alla produzione di reddito. E’ stato detto che il patriarcato è morto quando è morto nella mente delle donne, possiamo sperare che anche questo sistema economico insensato che subordina a sé la vita dell’umanità e devasta  le risorse e l’equilibrio del pianeta, avrà fine quando le persone gli sottrarranno il loro consenso.

Saranno i comportamenti di libertà e di salvaguardia di sé delle donne che inaugureranno una nuova civiltà, contagiando gli uomini giovani che non si identificano più nella cultura ereditata dai padri.

Che sarà così ce l’assicura anche il vecchio sociologo francese Alain Touraine. Secondo Touraine bisogna rinunciare all’idea dei movimenti sociali che sono stati protagonisti delle lotte e del cambiamento nel secolo scorso: il movimento operaio, i movimenti di liberazione nazionale e il femminismo sono finiti, perché è finita la società così come l’abbiamo conosciuta. Non ci sarà dunque un movimento che si costituisce contro il potere ma una nuova soggettività libera che ci impedirà di soccombere all’imposizione di una società di mercato caratterizzata da una estenuante concorrenza generalizzata. Il nuovo soggetto personale che ricerca la sua libertà creatrice come unico fine, non subordinato ad alcun obbiettivo sociale o politico, è donna. Le nuove generazioni di donne sono post femministe e si collocano fuori dall’ideologia del dominio.

Il femminismo come movimento è finito, ma si diffonde un nuovo soggetto, si tratta di un soggetto che non si costituisce in contrapposizione dualistica o in polemica, ma in relazione a sé. Io sono una donna è un’affermazione primaria, non conflittuale:. La costruzione di sé da parte delle donne passa attraverso la sessualità, l’elaborazione del proprio desiderio e quindi attraverso la ricomposizione della separazione tra mente e corpo che la modernità aveva attuato. “ E’ dalle donne che dipende la ricostruzione del rapporto tra natura e cultura, tra corpo e spirito, tra donna e uomo, e dunque la ricostruzione dell’essere umano” ” “ Le donne rifiutano ogni opposizione binaria che contrapponga uomini e donne: si potrebbe parlare della ricostruzione della sessualità maschile tramite le donne”.

“E’ necessario parlare di una società di donne che si sostituisce a poco a poco alla società degli uomini” Le donne fondano una cultura nella quale stanno entrando anche gli uomini: con cultura intendendo più che i rapporti sociali “il principio di organizzazione della vita individuale e collettiva in relazione ad un ambiente. “ questo rovesciamento culturale è portato soprattutto dalle donne, perché è inseparabile dalla caduta del dominio maschile e dall’emergenza di una nuova cultura che si libera dalla dipendenza maschile , e nello stesso tempo libera uomini e donne dall’ossessione della produzione e della conquista per farli entrare insieme in una cultura di coscienza e di comunicazione”.

Conclude la sua ricerca, alla cui base stanno le interviste che alcune sue collaboratrici hanno raccolto interrogando donne comuni, in gruppi di parola appositamente costituiti, affermando:

” Niente ci aveva preparati a una simile forza e a una simile originalità del pensiero post femminista cui non fa riferimento nessun libro influente “

Ci sono nei saggi di Touraine anche cose che suscitano perplessità: l’enfasi sui diritti e la non comprensione del carattere relazionale, del soggetto femminile che si costruisce a partire dalla propria sessualità; per cui il soggetto donna, soggetto per antonomasia, potrebbe rischiare di confondersi nuovamente con l’individuo moderno dalle cui ceneri dovrebbe sorgere. In ogni modo non si può non essere colpite da questo riconoscimento, da questo sguardo che ci aiuta anche ad apprezzare ciò che a volte noi stesse non siamo capaci di vedere: ciò che la nuova generazione di donne, nella sua differenza, ha ereditato dal femminismo.

In ambito italiano invece, nel libro di Massimo Ceriani Parole di donne che ci è stato segnalato da Oriella Savoldi si nota una maggiore attenzione dell’autore per la qualità delle relazioni che emergono dai racconti autobiografici di una serie di giovani donne. La qualità dell’ascolto dell’intervistatore nasce, a mio parere, dalla sua relazione con Oriella ( forse Touraine non era guidato da nessuna Oriella) e dalla lettura di testi di donne sul lavoro, in particolare di Wanda Tommasi  Dalle interviste che Massimo Ceriani ha fatto a donne sui trenta- trentacinque anni sul loro percorso di studi e lavorativo, emerge una soggettività centrata su di sé che non separa il lavoro dalla vita ed è capace di mettere anche la precarietà del lavoro al servizio di un proprio percorso di crescita personale. Mentre l’uomo è frammentato dalla flessibilità del mercato del lavoro, la donna è capace di ricomporre i frammenti, commenta il giornalista divenuto al confronto con le sue interlocutrici, consapevole della parzialità del suo sguardo e della sua esperienza.

Inoltre, nella prefazione al libro, Tiziana Vettor nota il sostegno che queste giovani donne hanno ricevuto dalla loro famiglia: aiuto economico durante la precarietà lavorativa o nei periodi di fuori uscita dal lavoro per riprendere lo studio, ma non solo soldi : le scelte sono state condivise ed è stata incoraggiata  la libertà di cercare non un lavoro qualsiasi, ma qualche cosa di appagante.

Anche genitori operai hanno fatto sacrifici per sostenere non solo gli studi universitari delle figlie, ma anche il loro precariato o l’intermittenza lavorativa di chi voleva fare un lavoro interessante.

Questo legame tra generazioni è, a mio parere una delle novità in atto, e mostra come, in una parte almeno nella generazione più vecchia, quella che ha avuto la sicurezza del posto fisso e la garanzie della pensione, si facciano strada altre consapevolezza e diverse forme di sostegno e di solidarietà, un atteggiamento diverso rispetto all’imperativo dell’indipendenza economica prima di tutto, che è stato per alcuni decenni trasmesso dai genitori anche alle ragazze. In ambiente non operaio forse l’illusione perdura e attuale  non si è ancora diffusa abbastanza la consapevolezza di quanto siano mutate le condizioni del lavoro e di quanto le giovani donne pagheranno l’accettazione delle regole del mercato del lavoro Conosco giovani molto qualificate che lavorano 50|60 ore la settimana e passano la loro vita tra aerei, aeroporti, e alberghi e weekend solitari in città sconosciute. Altre che insistono a voler entrare nell’Università si ritrovano alla fine dei trent’anni senza quel posto fisso in vista del quale hanno ancora rinviato la decisone di avere un figlio.

Decidere di prolungare la dipendenza economica  ha costi che non sono puramente economici, sembra però che per molte giovani donne sia coniugabile con scelte di libertà che puntano sulla realizzazione personale e la costruzione di una vita sensata.

I giovani maschi, che conosco, anche i più qualificati, hanno maggiormente interiorizzato l’imperativo del guadagno e dell’autonomia, accettare qualsiasi lavoro: mantenersi a qualsiasi costo.

E’ un’eredità pesante che li rende più fragili e più ricattabili, mentre spesso permettono alle loro giovani compagne di godere di una maggiore libertà e di entrare ed uscire dal lavoro, con scelte condivise all’interno della coppia. Dalla lettura del doppio sì e dall’osservazione delle giovani coppie che conosco sembra infatti che i compagni maschi sostengano il desiderio delle donne di sottrarsi ad un lavoro alienato e di avere tempo per altre cose desiderate – i figli o gli studi.

Sanno che non tutta la vita delle donne si subordina allo scambio lavoro-salario e cominciano a farsi contagiare da questo esempio.

E’ in atto infatti un movimento che è anche maschile che consiste nel ritrarsi dal mondo aziendale. Nel mondo anglosassone sta diventando un fenomeno sociale ed è stato nominato downshifting.  E’ un comportamento che si è diffuso negli ultimi quindici anni e, a distanza di una dozzina di anni dalla sua prima nominazione, il termine è stato acquisito dal New Oxford Dictionary che ne ha fissato il valore lessicale individuandone il significato nel (libero) scambio di una carriera economicamente soddisfacente  con uno stile di vita meno faticoso e meno retribuito ma più gratificante. Secondo il sito internet che ne sostiene la scelta e dove ci si scambiano consigli su come avere un bilancio di vita sufficiente, consumando meno, spendendo meno e rispettando l’ambiente  i downshifters oggi sarebbero 17 milioni. Chi sono dunque i downshifters? Sono gente, molto qualificata, maschi e femmine in carriera, che verso i quarant’anni, dopo avere lavorato troppo e guadagnato parecchio, decidono di sottrarsi ai ritmi, alle regole, al clima competitivo dell’azienda e scelgono il part time, o, più radicalmente  di fare tutt’altro:  lasciano quindi i loro posti dirigenziali e preferiscono essere più poveri e più liberi.  Questa sottrazione di sé alle condizioni date del lavoro, viene tradotta come scelta di una vita sobria.  C’è nei downshifters consapevolezza ecologica, riduzione dei consumi e la decisione di passare ore con i bambini o di godere del tempo per sé. Sono donne,  e uomini che imparano dalle donne un ritmo di vita che comprenda il tempo per la relazione con gli esseri umani e con la natura.

Sta crescendo la capacità di inventarsi una vita diversa, meno subordinata all’imperativo del consumo, più attenta alle conseguenze che il proprio stile di vita ha sull’ambiente e sull’economia: si costituiscono gruppi d’acquisto, si sperimentano monete locali e mercati a km zero, si ritorna all’agricoltura, si progettano forme di cohousing, si formano gruppi che difendono il territorio… L’idea che si possa vivere meglio organizzando l’esistenza in un modo meno individualistico si diffonde in varie forme e dà vita a molteplici iniziative.

Forse l’apprendistato di povertà e di dipendenza che le nuovissime generazione stanno facendo farà maturare la capacità di scegliere e di apprezzare l’essenziale, prima di tutto la necessità di condividere e di sostenersi reciprocamente. Anche allargando al di là delle relazioni familiari la cerchia delle relazioni necessarie ad una vita buona e soddisfacente. Che siano le relazioni a costituire la ricchezza di una singola l’abbiamo appena ascoltato nella relazione di Vita. Speriamo che anche la nuova generazione possa sperimentare e costruire simili legami politici.

Per ora la cosa più visibile in Italia è la solidità delle relazioni con la famiglia di origine.

L’ Italia ha infatti un’altra caratteristica, che chiamo premoderna in quanto contraddice l’idea moderna del singolo concepito come individuo libero da legami: permane infatti, come in altre zone mediterranee, l’importanza delle relazioni familiari e quindi quello che i sociologi  nominano come localismo familiare. Che sarebbe la preferenza delle giovani coppie ad abitare nella città della famiglia d’origine e una grande riluttanza ai trasferirsi lontano seguendo le occasioni offerte dal mercato del lavoro. Per economisti e sociologi è segno di arretratezza culturale o di parassitismo o di pigrizia. In una economia complessiva di vita, invece, che è non conteggiabile in termini puramente monetari la vicinanza permette non solo di coltivare la relazione affettiva, ma anche il sostegno reciproco: c’è un periodo in cui le nonne accogliendo i nipoti permettono alle figlie di lavorare e c’è un tempo in cui figlie e nuore si prendono cura dei genitori anziani che hanno bisogno di aiuto.

Penso inoltre che le migrazioni, non solo quelle all’estero, ma anche quelle interne, abbiano un alto costo esistenziale e ne comportino uno molto alto anche per l’ ambiente. I paesi che si spopolano o non conoscono più continuità di generazioni perdono le loro caratteristiche culturali e le persone che si trasferiscono lontano vivono un senso di sradicamento e di estraneità.

Anni fa (2002 ) è uscito un libro di Diotima intitolato Approfittare dell’assenza: come si può leggere nella prefazione di Luisa Muraro l’idea partiva da un’affermazione di Carla Lonzi: la differenza è l’assenza dalla storia, approfittiamo della differenza. La differenza – in relazione al tema che stiamo affrontando- è il radicamento delle donne nella vita quotidiana, nel mondo della cura della vita, radicamento che non è mai venuto meno, almeno nell’area mediterranea, neanche quando le donne hanno invaso in massa il mercato del lavoro. Questa esperienza consente loro anche oggi di non affidarsi totalmente alla misura del guadagno monetario, per tenere presenti altre misure e altri profitti nelle loro scelte di vite. Per decenni, anche a costo di tollerare la dipendenza economica dall’uomo ( e la violenza che a volte a questo dislivello di potere si accompagna), anche a costo di una maggiore povertà , le donne si sono sottratte al lavoro produttivo quando hanno sentito che le condizioni imposte erano tali da compromettere ciò che stava loro maggiormente a cuore. Per questo non hanno mai raggiunto l’identificazione totale con il lavoro che ha caratterizzato la personalità del lavoratore maschio occidentale del secolo scorso. Nel sistema capitalistico che poneva la produzione al centro le donne sono rimaste ai margini, quasi una sacca di resistenza precapitalistica.

Resistenza precapitalistica dicevo e penso ad altre resistenze vive, quelle di quei milioni di donne povere del mondo che a causa delle privatizzazioni, della costruzione di dighe, della desertificazioni stanno perdendo i mezzi di sussistenza, – quelli che gli hanno permesso finora di viver con meno di due dollari al giorno. Si possono leggere i resoconti delle loro lotte nei libri di Vandahana Shiva, o nella storia del Barefoot college indiano di cui racconta Maria Pace Ottieri nel suo Raggiungere l’ultimo uomo.

Poco tempo fa è uscito, a cura del Gruppo Lavoro della Libreria delle Donne di Milano il Sottosopra Immagina che il lavoro che ci invita ad immaginare una trasformazione del mondo del lavoro retribuito che risponda ai bisogni di ricomposizione dell’esistenza di donne e uomini mettendo al centro la vita quotidiana. E’ un testo rivoluzionario, coraggioso, molto bello che spero divenga un manifesto discusso da molte e molti.

Le riserve di cui dirò vogliono contribuire al dibattito che si è già aperto. Nel testo ogni attività umana viene ricompresa sotto il nome di lavoro e questo ha sollevato in me qualche perplessità. Una deriva dal fatto che nell’etimologia del termine è il senso della fatica e del travaglio, che accompagnano certo molti lavori alienanti, ma che non risponde al sentimento di chi ha deciso di stare vicino a i figli che crescono o ai propri vecchi che se ne vanno. Che sente di stare nella vita, in relazione alla vita, non di essere al lavoro.

Un’altra perplessità viene dal fatto che tutta la vita diviene lavoro e mi manca la leggerezza dei postpatriarcali tratteggiati da Ina Paretorius attivi non per obbligo, fanno le cose necessarie, ma anche leggono e passeggiano, un poco pigri e capaci di godimento, se ne stanno anche stesi nell’amaca…

L’ultima viene dal fatto che nel linguaggio comune lavoro indica un’attività pagata e che oggi di lavoro per alcuni e alcune ce n’è troppo e gli mangia tutto il tempo della vita e per altri non ce n’è. E molti di questi che non lo trovano sono ugualmente schiavi del lavoro: passano le giornate a cercarlo da un’agenzia all’altra, passano da un corso di formazione all’altro, spesso lo stesso.  Penso ad un giovane amico che in un anno ha fatto tre volte il corso per mulettista e tre volte quello per saldatore.  Se non lo fanno si sentono colpevoli o rischiano di essere esclusi dalla rete assistenziale che li mantiene. Ho dovuto insistere parecchio con una nipote rimasta disoccupata perché occupasse studiando il tempo libero che la disoccupazione le regalava invece di passarlo a bussare inutilmente a porte chiuse.

Mi sembra che siamo nella necessità di inventare come poter rispondere a due bisogni essenziali degli esseri umani: quello di avere ciò che serve per vivere e quello di poter essere attivi, in relazione ad altri, partecipi, utili o creativi. Chi cerca lavoro cerca soldi, ma ha anche un bisogno essenziale, quello di partecipare attivamente alla vita collettiva e che il suo contributo venga apprezzato e riconosciuto. ( Nelle società tradizionali questo veniva in vario modo garantito anche ai bambini e ai vecchi) .

Ho cercato tra i bisogni dell’anima che Simone Weil elenca all’inizio della Prima Radice il bisogno cui mi riferisco, e ne ho trovati due: il bisogno di essere responsabili e il bisogno di onore. Un improbabile reddito di cittadinanza, la cui richiesta è stata avanzata da varie parti – anche da Federica Giardini, anche da Ina Praetorius – non mi pare darebbe risposta a questi bisogni, perché l’assistenzialismo crea emarginazione, invece che partecipazione e onore.

( per me sono state essenziali per capirlo due letture: La signora va nel Bronx di Marianella Sclavi e Cittadina di seconda classe di Buchi Emecheta)

Penso che dobbiamo costruire un mondo in cui né il lavoro, né il profitto siano più al centro, ma dove non manchino le occasioni di forme di attività che siano riconosciute utili alla vita comune.

Per immaginarle e cominciare a sperimentarle abbiamo bisogno di trarre ispirazione da forme di vita comune diverse da quelle che abbiamo vissuto: possiamo cercarne esempi nel passato, possiamo allargare il nostro orizzonte e conoscere ciò che altre e altri stanno sperimentando oggi.

Ci sono forme di resistenza e ad invenzioni di nuove forme di comunità e di vita economica che sono in atto oggi nel sud del mondo, alle quali alcune di noi guardano per trarre ispirazione e per radicare nella realtà la propria speranza. Gli esempi possibili sono tanti e parlarne richiederebbe ben  più di una lezione.

 

Vengo ora all’incontro con Ndem e alla mia questua. Non vi parlo di questo, alla fine della mia esposizione, per proporvi Ndem come soluzione dei problemi che abbiamo davanti, ma perché alcune di noi si sono coinvolte nella vita di Ndem e c’è bisogno di un aiuto che può essere solo collettivo.

Abbiamo conosciuto Babakar Mbow e sua moglie Aissa Cissè attraverso Serena Sartori che negli incontri della Libera Uni e nei seminari alla Mag ci parlava della sua  esperienza di donna di teatro in Africa e di come le fosse capitato di conoscere Ndem un villaggio, al bordo del deserto, il cui nucleo è una comunità spirituale che nell’estrema precarietà ha saputo attraverso l’amore e la condivisione rivitalizzare la vita dei villaggi circostanti, invertendo quella  tendenza all’emigrazione, soprattutto maschile, che li aveva spopolati negli ultimi cinquant’anni.

A Babakar Mbow abbiamo quindi chiesto di venire al Convegno del 2007 a raccontarci Ndem e siamo state tutte molto toccate dalla sua testimonianza e dalla sua presenza.

Quando nel marzo scorso, con Loredana Aldegheri, ed alcune altre persone, siamo andate  a ricambiare la visita abbiamo respirato la qualità speciale delle relazioni, l’accoglienza, la generosità, l’attenzione, in ogni sguardo e gesto, cose che non ricordiamo di avere mai incontrato altrove a questo livello. Ndem vive di lavoro dedicato a Dio e alla comunità e di canto. Il canto che si leva verso sera e nella notte, individuale o di gruppo è la forma con la quale i baye fall innalzano a Dio il loro cuore. Siamo stati vinte dall’amore e dalla generosità dell’accoglienza. E commossi dalla cura materna e paterna con la quale Aissa e Babakar vegliano sulla vita della loro gente in questa povertà, in un luogo dove la maggior parte della gente si sveglia la mattina senza sapere se potrà mangiare due volte nella giornata,. Abbiamo quindi sentito di avere contratto un debito e ci siamo impegnate ad aiutarli a rendere possibile un nuovo progetto, vitale in questo momento di crisi economica, quello di aprire un negozio a Dakar che dovrebbe rendere la cooperativa degli artigiani indipendente dalle commesse del mercato equo e solidale. Entrando maggiormente nel mercato locale avrebbero anche l’occasione di fare conoscere l’esempio di Ndem in Senegal e in Africa – Dakar è una città internazionale – offrendo l’esempio di un possibile sviluppo in equilibrio con l’ambiente, tra auto sussistenza e mercato – produzione artigianale e di combustibile biomassa costituito da bucce d’arachidi e da argilla e diffusione di marechage: orti biologici innaffiati goccia-goccia combinati con l’allevamento.  Tutta la storia di Ndem la trovate sui siti di Ishtar (www.ishtarvr.org ) e di Mag Verona (www.mag verona) nel racconto intervista di Aissa Cissè..

L’aiuto che vi chiedo è in nome di una relazione personale, quella che ho con molte di voi e quella con Babakar e Aissa la cui fiducia nel chiedere aiuto a raccogliere una somma ingente di denaro è stata tale che nella nostra mente nessuna obbiezione sulla nostra capacità di rispondere ha potuto guadagnare spazio. Ndem del resto è già la dimostrazione che l’impossibile può realizzarsi. E c’è stato un altro che ha insegnato: chiedete e vi sarà dato. Mi muove la capacità dei nostri amici di tenere insieme amore, spiritualità ed economia, per questo ho deciso di fare una questua, all’interno del nostro Grande Seminario. Tenendo anche a mente che la questua non è solo il modo in cui fin dai tempi più antichi si fanno presenti i bisogni dei poveri e si chiede condivisione, ma anche la questua in molte tradizioni spirituali è considerata un esercizio di umiltà, utile alla crescita dell’anima e alla diminuzione dell’ego. Quête ( in italiano antico la cerca ) è parola che indica allo stesso tempo la raccolta di elemosine e la ricerca di Dio.

 

 

Bibliografia

(nell’ordine di comparsa nel testo)

 

La vita alla radice del’economia, a cura di Vita Cosentino e Giannina Longobardi , edito da Mag Verona, Verona 2008

 

Bruno Amoroso- Sergio Gomez Y Paloma, Persone e comunità. Gli attori del cambiamento, Edizioni Dedalo, Bari 2007

 

Alain Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, Milano, Il Saggiatore 2008

Alain Touraine ,  Il mondo delle donne, Milano, Il Saggiatore 2009

 

Majid Rahnema,  Quando la povertà diviene miseria, Torino, Einaudi 2005

Majid Rahnema, Jean Robert La puissance des pauvres, Arles, Actes Sud ,2008

 

Maria Pace Ottieri Raggiungere l’ultimo uomo. Bunker Roy, un villaggio indiano e un diverso modo di crescere, Torino, Einaudi 2008

 

Gruppo Lavoro Libreria delle donne di Milano Il doppio sì Quaderni di Via Dogana, Milano, Libreria delle Donne 2009

Gruppo Lavoro Libreria delle donne di Milano,   “Sottosopra”,   Immagina che il lavoro, Milano, Libreria delle donne settembre 2009

 

Paolo Ceriani Parole di donne Un confronti con l’esperienza femminile, Prefazione di Oriella Savoldi e Tiziana Vettor, Roma, Ediesse 2009

 

Wanda Tommasi  Il lavoro tra necessità e libertà in La Rivoluzione Inattesa, Milano, Pratiche ed.,1997

Wanda Tommasi  Sei pennies di libertà in www.diotimafilosofe.it

 

Diotima Approfittare dell’assenza, Napoli, Liguori 2002

 

Daniela Del Boca, Alessandro Rosina Famiglie sole. Sopravvivere con un welfare insufficiente, Bologna, Il mulino 2009

 

Viviane Forrester L’horreur économique, Parigi, Fayard 1996

 

Boaventura de Sousa Santos  ( a cura di) Produrre per vivere Le vie della produzione non capitalistica, Troina, Città Aperta  2005

 

Marianella Sclavi La signora va nel Bronx , Milano, Mondadori 2006