Non tornare a dormire
La brezza dell’alba ha segreti da dirti.
Non tornare a dormire.
Devi chiedere quello che davvero vuoi.
Non tornare a dormire.
C’è gente che va avanti e indietro
attraverso la soglia dove i due mondi si toccano.
La porta è tonda e aperta.
Non tornare a dormire.
Gialâl Ad-Dîn Rûmî
Avvertenza a chi legge: questo testo l’ho scritto in caduta libera.
Il titolo della mia relazione è tratto da una poesia del poeta e mistico sufi Gialâl Ad-Dîn Rûmî, nato a Balkh, entro i confini dell’odierno Afghanistan, il 30 settembre del 1207.
Vi leggo la poesia. Questa poesia è stata la mappa che mi ha guidato nella scrittura del testo che oggi condivido con voi e il suo titolo, Non tornare a dormire, un mantra che da tempo vibra in me come una chiamata.
Qualche tempo fa – prima della pandemia –, ho letto su Internazionale una serie di articoli sulla crescente industria legata al sonno: materassi, pastiglie, oli essenziali, libri sull’argomento che diventano best seller e che ci ripetono continuamente «quanto ci serve dormire, cosa succederà se non dormiamo abbastanza e quanto costano all’economia i lavoratori stanchi». Ci sono persino aziende che, per preservare il fatturato dai rischi della mancanza di sonno, danno un bonus in denaro ai dipendenti che riescono a dormire sette ore a notte per almeno venti giorni di seguito. Esistono anche degli artefatti, «dispositivi di monitoraggio del sonno» li chiama il giornalista, «grazie ai quali chi risulta etichettato come insonne» – sottolineo questa espressione – «riceve sul telefono una terapia in grado di restituirgli un riposo salutare».
Di fronte a un sonno che si perde, sembra che l’imperativo dominante sia «fallo tornare». E sei tu, individuo indipendente e responsabile della tua vita, a doverti arrangiare da solo perché se non dormi è un tuo problema; è una questione personale, che non ha niente a che vedere con il modo in cui vivi, con il mondo in cui vivi. Fallo tornare – ci dicono – perché c’è qualcosa che non va bene, sei danneggiato, non puoi più produrre.
A quell’epoca io non dormivo bene o almeno non così come avrei dovuto, secondo la logica del mercato del sonno. Oltre alla stanchezza, la mancanza di sonno mi generava dei forti sensi di colpa, che accrescevano la mia angoscia. La paura di non riuscire più a dormire e, soprattutto, di non potercela fare, di non riuscire a portare avanti la mia vita, che in quei giorni si era ridotta alle cose che avrei dovuto fare il giorno dopo, la sentivo come un’oppressione nel cuore e una fitta nelle tempie. La notte, quando avrei dovuto dormire, il mio cervello diventava vigile come una sentinella e il mio corpo rigido come quello di una mummia. Ero pietrificata.
Leggere quegli articoli mi aveva tranquillizzata perché mi offriva un’altra prospettiva sulla mancanza di sonno, priva di giudizi morali, con un tocco di senso dell’umorismo, che aveva alleggerito, anche se momentaneamente, la mia preoccupazione. E, soprattutto, leggere quegli articoli mi aveva dato lo spazio per pensarci, per avvicinarmi, anche se timidamente e di qualche millimetro a qualcosa che mi spaventava a morte. Poi è arrivata la pandemia e qualcosa è cambiato.
Forse l’avrete già sentito, forse non così, vi chiedo scusa, spero mi capiate: l’arrivo della pandemia mi ha salvato la vita. Qualcosa è successo al tempo. Tutto ad un tratto, mi sono trovata in un altro tempo, più dilatato, più profondo e consistente, più intimo. Nella solitudine della mia casa mi ci sono riappropriata un po’ alla volta. Forse è stato il tempo ad appropriarsi di me. Ritrovando un mio tempo qualcosa è accaduto allo spazio, che sembrava si materializzassi per la prima volta, con le sue forme, vuoti e pieni. Sono le coordinate tempo spazio a darci un’esistenza e io ho sentito come se qualcosa scendesse, prendesse terra. Mi sono sentita il corpo. Dopo tanto tempo… e ho saputo che ero salva.
Ritorno al sonno. È accaduto che una notte che non riuscivo a dormire mi sia alzata. Sono andata a bere acqua, ho guardato fuori dalla finestra la solitudine di Via Santa Felicità e il cartello di chiuso della pizzeria di fronte. Ho camminato lungo il corridoio, ho sbirciato nello studio e poi sono tornata a letto. Ho preso un libro, ho letto qualche riga e poi l’ho poggiato sul petto. Ho guardato verso il soffitto e ho visto le ombre ovali del mobile di carta mescolarsi alle strisce proiettate dagli scuri. E ho atteso incuriosita. Perché il sonno non si era presentato? Dov’era andato a finire? Sarebbe tornato? E se avessi smesso di dargli la caccia? Poi mi sono addormentata con la luce accesa.
Ci sono delle esperienze soglia, che aprono dei varchi; delle esperienze scintilla, che illuminano per un attimo delle dimensioni della realtà che prima erano invisibili ai nostri occhi. Esperienze radice che ci riportano al nostro corpo, che ci ridanno tempo spazio, terra sotto i piedi. Esperienze che aprono delle crepe, che rimuovono le fondamenta e fanno emergere del nuovo. Esperienze che ci tolgono il sonno e ci risvegliano.
In questi tempi di pandemia, così strani, indecifrabili, imprevisti nei suoi effetti a medio e lungo termine, Non tornare a dormire mi chiama a non cadere nel sonno della dimenticanza, un sonno asettico, senza sogni né visioni, un sonno che vuole un corpo efficiente che non sussulta né si arresta; un corpo pronto per il nuovo giorno, per andare avanti. Non tornare a dormire mi invita a restare sveglia, ad ascoltare e guardami attorno, a non farmi distrarre dal rumore delle narrazioni che vorrebbero tornare alla “normalità” come se niente fosse accaduto e che ogni giorno diventano più rigide e persino violente, forse perché sanno che ciò che le sostiene sta cadendo a pezzi. Non tornare a dormire mi invita a dire quello che per me oggi conta veramente; mi invita ad attraversare la soglia.
La brezza dell’alba ha segreti da dirti
I segreti si dicono a voce bassa. Poi se è la brezza che parla bisogna affinare l’orecchio perché il suo linguaggio è il silenzio. Il silenzio ha in noi un impatto sottile; cura la nostra anima e il nostro corpo perché ci riconnette alla sorgente, alla nostra vera identità che è fatta di silenzio.
Ascoltare il silenzio è una capacità umana ma bisogna esercitarla. Il Sat Nam Rasayan è un’arte di cura tradizionale che per curare utilizza il silenzio. In sanscrito, Sat Nam Rasayan significa “rilassamento profondo nel Nome Divino” o anche “abbandonarsi all’essenza della Vera Identità”. Nel Sat Nam Rasayan si impara ad accogliere il silenzio, a contenerlo dentro di sé e una volta stabile a utilizzarlo per curare un altro (e, così facendo, anche se stessi). La chiave di accesso al silenzio sono le sensazioni. Si parte da quello che si sente e lo si permette. Permettere significa essere consapevole delle sensazioni senza giudicarle né fare supposizioni su quanto si sente. Quando permettiamo, tutte le sensazioni sono presenti nella coscienza: non ci concentriamo su ognuna ma le sentiamo tutte contemporaneamente. Con la pratica, il nostro sistema sensoriale si allarga, la nostra capacità di contenere quello che avviene aumenta. Da essere una goccia nel mare diventiamo il mare stesso.
Guru Dev Singh, colui che ha trasmesso gli insegnamenti del Sat Nam Rasayan e mio maestro, spesso ci raccontava che questa tecnica meditativa l’aveva imparata dal suo maestro in silenzio.
Non c’è stata una trasmissione parlata né un’iniziazione ma una ricerca di costruire quel potenziale di silenzio che ti permette di avere una percezione diretta di un evento. Un giorno è accaduto che non c’era nessuna domanda ma neanche nessuna risposta, soltanto uno stato in cui stavamo osservando l’esperienza. Quando è accaduta l’esperienza lui ha riconosciuto che io l’avevo riconosciuta e quella forma di insegnamento si è conclusa.
Uno dei ricordi più intensi che ho del primo lockdown è il silenzio. È sceso su tutti e tutto e in me è calato in profondità. In quel tempo abitavo insieme a una gatta che oggi, purtroppo, non c’è più. C’erano giorni in cui le uniche interlocutrici che avevo erano lei e me. Il silenzio di quel primo lockdown è diventato il mio maestro. Un maestro all’antica usanza, senza parole, che mi ha presa per mano e mi ha accompagnata nelle salite e le discese; nelle notti in cui non riuscivo a dormire; nelle ampie praterie di sole di quei giorni di aprile mentre ascoltavo dire a Vandana Shiva che ce l’avremo fatta. La donna parlava di una nuova resilienza radicata nella terra, nei suoi ritmi e forme. Ce l’avremo fatta – diceva – ma era necessario preservare la nostra integrità, impegnarci con la verità, entrambe inseparabili dalla terra e dagli esseri viventi che in essa abitano.
Durante quei giorni di silenzio e apprendistato è morto di covid un grande matematico, John Conway. Non lo conoscevo, ho saputo di lui girando a zonzo per internet. Le piaceva insegnare, giocare da solo e con i suoi studenti. Ai suoi occhi era un frivolo e meno male che ogni tanto faceva una grande scoperta, altrimenti che cosa avrebbero pensato i suoi colleghi, diceva. Parlava di simmetrie sporadiche e combinazioni inattese; aveva scritto un libro intitolato Atlante dei gruppi finiti semplici e a me, leggendo quel titolo, quella mattina di aprile mi si era aperto un grande orizzonte, che aveva spalancato le mura dello studio e fatto entrare aria di terre lontane. John Conway aveva un’anima da poeta, come tutti quelli che amano giocare e restano vicini alla vita; coi piedi per terra.
Negli incontri preparatori di questo Grande Seminario abbiamo dedicato del tempo a discutere su ciò che ci permette di distinguere un bisogno vero da un succedaneo. Penso alla frequenza in cui i bisogni veri li sentiamo, ci vengono rivelati; al tipo di ascolto che richiedono. È come un sintonizzarsi su una frequenza altra. Nei giorni del lockdown ho sentito crescere in me quel potenziale di silenzio di cui parlava il mio maestro, una disponibilità ad aprirmi a quello che accadeva, ad ascoltare, ad accogliere. È accaduto che entrassi, anche se brevemente e con discontinuità, in quella frequenza in cui la brezza del mattino ti parla e ti dice: risvegliati a dove sei e senti.
Quello che la brezza ha da dire è un mistero. Peter Bichsel in Quando sapevamo aspettare scrive: «È possibile ascoltare bene quando si tollera di non capire». Della brezza mi sono rimasti dei semi e una fiducia che nei giorni buoni sento scorrere sotto e dentro me, come la mia lingua materna.
Devi chiedere quello che davvero vuoi
Immagino l’anima che mi chiama:
– Pronto?
– È l’anima che parla…
E io ascolto.
Non sento differenza tra l’anima e il corpo. Questa complementarità non è un’unità solida ma un intrecciarsi sottile, spesso fragile, che si compone e ricompone per tentativi, a tentoni. Sento così che tra i bisogni del corpo e quelli dell’anima c’è un filo che li tiene insieme.
Sento anche che tra i miei bisogni e il mondo c’è una risonanza, un legame che si manifesta sotto il segno della cura, della non indifferenza. Un bisogno autentico, diceva Caterina Diotto, crea come un’eco, provoca un’onda espansiva, la cui forza trascina e trasforma non solo chi sente il bisogno ma anche il mondo circostante, riattivando i tessuti di interdipendenze che connettono tutti gli esseri viventi, e anche l’invisibile. Un vero bisogno nasce in quello spazio di intersezione tra noi e il mondo, in quel infra che non è mio né tuo.
Forse quando chiama l’anima è anche il mondo a chiamare.
Da quando ho iniziato a scrivere questo testo, mi guardo attorno con attenzione alla ricerca di segnali. Una mattina nella spazzatura, nel bidone della carta e del cartone spunta un foglio a quadretti, strappato da un quaderno A4. La grafia è rotonda, probabilmente da ragazza:
nessuno ci capiva, solo noi due – pensavo – ci capivamo.
c’era qualcosa di insostenibile nelle cose, nelle persone, nelle palazzine, nelle strade, che solo reinventando tutto come in un gioco diventava accettabile.
L’essenziale però era saper giocare, e io e lei, io e lei soltanto, sapevamo farlo…
Dopo lo scoppio della pandemia, da parte della scuola c’è stato il silenzio per giorni. Non si sapeva bene che cosa fare, cosa sarebbe accaduto, se saremmo tornati in classe. Tra il disorientamento e l’incertezza, non solo io ma anche altre e altri, abbiamo sentito il bisogno di continuare a fare scuola da noi, come potevamo, attingendo alle nostre forze e risorse, tante o poche che fossero e a seconda della giornata; spinti dal nostro desiderio e creatività, perché sentivamo l’esigenza vitale di mantenere il contatto con le nostre studentesse e studenti. In quei giorni di vuoto istituzionale abbiamo sperimentato un’improvvisa libertà che ci ha incoraggiato; ci siamo resi conto di essere capaci di qualcosa di nuovo, di reinventare il fare scuola in un momento di intensa sofferenza e paura.
Poi è arrivato settembre del 2020 e siamo tornati a scuola. Bisognava recuperare il tempo perduto e tornare alla normalità il prima possibile. Compattata in sé stessa per affrontare l’emergenza, ho trovato un’istituzione barricata dietro i provvedimenti e le norme, irrigidita anche nei modi. Ora la condizione nella scuola non è cambiata; a mio avviso si è ulteriormente indurita e contratta. Vedo anche un irrigidirsi dell’io, delle persone chiuse nella propria identità, aggrappate a sé stesse, che vedono nell’apertura all’altro una minaccia. Eppure, qualcosa di diverso sta avvenendo. Qualcosa che non è più sostenibile sta crollando proprio perché c’è stato un vuoto che ha fatto emergere un paesaggio altro, dei bisogni prima sconosciuti o forse già presenti ma meno chiari, urgenti e irrinunciabili.
Ci sono delle esperienze che aprono un varco.
Attraverso la soglia dove i due mondi si toccano
Dice la filosofa spagnola Marina Garcés in Escuela de aprendices [Scuola di apprendenti], un libro pubblicato nel novembre del 2020:
Educare è imparare a vivere insieme e imparare insieme a vivere. Sempre e ogni volta. È quindi stare nell’incompiutezza di quello che siamo: aperti, esposti, fragili. Perciò educare è una pratica dell’ospitalità che ha come missione accogliere l’esistenza.[1]
Sento che se vogliamo imparare a vivere insieme e insieme imparare a vivere abbiamo bisogno di tenerezza. Tenerezza nelle cose, nelle persone, nelle palazzine, nelle strade, a scuola. A scuola, soprattutto a scuola.
La poetessa e maestra cilena Gabriela Mistral scrisse molte ninne nanne e altre composizioni (girotondi, scherzi) che raccolse in un libro intitolato Ternura. Para Gabriela Mistral Ternura non solo pretendeva far giocare, divertire e consolare i bambini, ovvero educarli attraverso la poesia, ma era anche una chiamata agli adulti rispetto alla loro responsabilità davanti a coloro, in particolare i bambini, che vivevano in una situazione di abbandono. Ternura, tra le prime pubblicazione di Gabriela Mistral, fu uno dei libri più amati dalla poetessa e lasciò traccia in tutta la sua opera successiva.
Nelle sue note «Colofone con viso di scusa», la poetessa scrive che la ninna nanna ha senso in quanto cosa che la madre regala a sé stessa e non al bambino, che nulla può capire (questo è ancora più evidente per la ninna nanna rivolta a un bambino morto, in cui il canto della madre diventa una forma di consolazione). La ninna nanna per Gabriela Mistral è una carezza che la madre rivolge innanzitutto a sé stessa.
Nella ninna nanna Corderito (“Agnellino”) dice la mamma:
(…) lo he olvidado todo por hacerme cuna. | (…) tutto ho dimenticato per diventare culla. |
La tenerezza mi fa pensare alla morbidezza di un corpo che si rannicchia, in risposta a un istinto primordiale; un corpo che si fa nido per accogliersi e accogliere la creatura che ha in braccio.
La tenerezza è un gesto che riporta al corpo, ai suoi limiti ma anche alla sua plasticità; nasce vicina alla vulnerabilità (dal latino vulnus, ferita), alla disponibilità a toccare e farsi toccare, alla capacità di prendersi cura di sé e degli altri.
La tenerezza è radice, ci dà misura e tiene a bada la violenza. Ci distoglie dal voler far male un altro innocente, dal farci male.
Suavidades Cuando yo te estoy cantando, en la Tierra acaba el mal (…). Cuando yo te estoy cantando, se me acaba la crueldad (…). | Soavità Quando a te io sto cantando, sulla terra il mal finisce (…). Quando a te io sto cantando cessa in me la crudeltà. |
La tenerezza allarga il cuore nei passaggi più stretti; ci dà coraggio nei tratti più bui. È un canto che salva perché ci rende umani. Un filo ancestrale che vincola con l’origine relazionale della vita e il suo mistero, mostrando i legami di interdipendenza tra gli esseri viventi. La tenerezza è un corpo che si commuove, si muove con, mai da solo; come nell’andirivieni del cullare, si fa ritmare dall’incontro con l’altro.
Yo no tengo soledad Es la noche desamparo de las sierras hasta el mar. Pero yo, la que te mece, ¡yo no tengo soledad! Es el cielo desamparo si la luna cae al mar. Pero yo la que te estrecha, ¡yo no tengo soledad! Es el mundo desamparo y la carne triste va. Pero yo, la que te oprime, ¡yo no tengo soledad! | Solitudine non ho È desolazione il buio dalle sierre fino al mare. Però io, che qui ti cullo, solitudine non ho! È desolazione il cielo se la luna cade in mare. Però io, che qui ti stringo, solitudine non ho! È desolazione il mondo e la carne triste va. Però io che qui ti stringo, solitudine non ho! |
La tenerezza ci dice quando è tempo di lasciar andare, di affidarsi alla notte e cantare con parole semplici che rappacificano il cuore e sciolgono i nodi della paura, del dolore e dell’amore.
Apegado a mí Yo que todo lo he perdido ahora tiemblo de dormir. No resbales de mi brazo: ¡duérmete apegado a mí! | Stretto a me Io che tutto ho già perduto ora tremo di dormire. Non cadere dal mio braccio: dormi stretto a me! |
Alla fine della ninna nanna, abbandonata ogni resistenza, anche lei (la mamma) si addormenta.
La porta è tonda e aperta
L’avvento della pandemia ha aperto un varco tra un prima e un dopo, che stiamo tutt’ora vivendo. Questi due mondi che si toccano li vivo nella mia esperienza interiore, ma li vedo anche delinearsi nello scenario della vita comune, tra cui la scuola. Due mondi mossi da due spinte: una vuole andare avanti, tornare alla “normalità” intesa come ciò che era prima, spesso costi quel che costi, perché il tempo è oro e va recuperato. La seconda spinta invita a scendere in profondità, cogliere le possibilità che la pandemia ha aperto, sostare nei vuoti lasciati da chi o da ciò che non c’è più; continuare ad elaborare quello che ci sta accadendo per ripensare il modo e il mondo in cui viviamo. Nella scuola vedo un avvicinarci e chiederci come stiamo; un essere usciti un po’ da noi per porre la nostra attenzione nell’altro perché abbiamo vissuto e stiamo vivendo un’esperienza comune di vulnerabilità; forse circola anche un desiderio di veder crollare quello che non regge più perché non possiamo e non vogliamo più sostenerlo… C’è chi ha recuperato la passione per l’insegnamento, che si era affievolita con gli anni. Questa seconda spinta non ha una direzione, è più un’apertura, una disponibilità a farsi trasformare da quello che ci accade; che rinuncia al controllo e alla violenza; che non si schiera in posizioni rigide. È un gesto radicale di accoglienza.
Tra i due mondi che si toccano la porta che vedo è forse una fessura, quel passaggio della ninna nanna in cui, dice Gabriela Mistral, «il bambino se la svigna». E continua la poetessa: «quest’ultimo gradino lo conosco molto bene: in tale o quale parola, io e il bambino giriamo la schiena e fuggiamo lasciando cadere il mondo, come il fastidioso mantello nel correre…».
Non tornare a dormire
[1] In originale: «Educar es aprender a vivir juntos y aprender juntos a vivir. Siempre y cada vez. Es estar, pues, en lo inacabado que somos: abiertos, expuestos, frágiles. Por eso, educar es una práctica de la hospitalidad que tiene como misión acoger la existencia».