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per amore del mondo edizione 18 - 2022

Ho Letto

Nella tessitura di un canto

Questo mio testo attraversa l’interessante romanzo di Franz Werfel, Il canto di Bernadette,[1] per sviluppare autonomamente considerazioni e immagini aperte dalla lettura e che concernono il legame di Bernadette Soubirou con la Signora che si manifesta a lei nella grotta di Massabielle. Tale rapporto si costituisce infatti come centro simbolico attorno a cui ruotano trasformazioni che investono simultaneamente familiari e vicini e in breve un’intera cittadina. Nessuno oltre a lei vede la Bellissima ma nessuno dei presenti alle apparizioni dubita della sincerità della ragazza, quattordicenne in quei mesi del 1857, e questo dà adito a modificazioni che al pari di un sasso dentro uno stagno si irradiano ad ambiti sempre più vasti. Questo, nonostante l’incuranza della protagonista per quanto avviene intorno a lei: schiva e infastidita dal clamore, decisa a non modificare le sue povere abitudini, unicamente interessata al legame con la Dolcissima che incontra alla grotta. Tanto che dopo l’ultima apparizione, la definitiva, non si recherà nemmeno più a Massabielle, indifferente alla folla di pellegrini e all’acqua miracolosa.

Perché “canto”? Lo spiega lo scrittore nella Prefazione di carattere personale, scritta a Los Angeles nel 1941: la sua opera è pensata come un canto epico, canto che nella realtà odierna non può che assumere la forma del romanzo. Il romanzo, attento e sostanzialmente fedele alla vicenda storica, risponde a un impegno che l’autore prese con se stesso nel giugno del ’40, quando, ebreo céco in fuga dalla Francia occupata, trovò rifugio a Lourdes, di cui non aveva mai sentito parlare prima, respirò per così dire la vicenda di Bernadette nel luogo in cui era accaduta, e promise di scriverne nel caso fosse riuscito a mettere in salvo la vita. L’impegno preso con se stesso fu insieme una sorta di scommessa: riuscire, da non cattolico, a narrare e cantare Bernadette.

Il romanzo ha in effetti un ritmo epico, soprattutto nelle prime tre delle cinque parti che lo compongono, organizzate attorno alle apparizioni della Bellissima a Bernadette. A rendere tale ritmo è l’impianto narrativo, che è corale: la vicenda di Bernadette è vicenda di tutta la cittadina, non solo perché tocca e mette in moto l’intera Lourdes – compresi gli istruiti e progressisti avventori del Café Français e in breve le stesse autorità civili e religiose – ma soprattutto perché tali apparizioni arrivano a chi legge attraverso una molteplicità di punti di vista, frammentate in una miriade di sfaccettature. I racconti, le sensazioni, i giudizi a caldo di chi l’ha conosciuta scavano una sorta di spazio vuoto, quello dell’incontro di Bernadette con la Dolcissima, che conserva e protegge qualcosa della potenza vitale di quanto è accaduto. Simili per certi versi ai calchi di Pompei, potenti nell’afferrare e conservare memoria della vita nei tragici momenti dell’eruzione del vulcano attraverso lo spazio vuoto lasciato dai corpi coperti dalla lava.

Anche la gestione dell’elemento temporale appartiene a questa stessa impostazione corale. Pochissime, forse due o tre, le date. Lo scorrere del tempo non è dato infatti dalla collocazione degli eventi sulla linea del tempo, dentro la Storia; c’è piuttosto un percorrere quella circolarità del tempo quotidiano fatta di ore del giorno, di stagioni che si susseguono, di riti religiosi, che segnala lo scorrere degli anni come dentro una spirale. È tornando e ritornando sulle stesse persone, gli stessi luoghi, gli stessi ambienti, gli stessi rapporti interpersonali, che Werfel fa scaturire i cambiamenti dei percorsi interiori e gli spostamenti nella lettura dei fatti.

È proprio questo approccio narrativo a rendere le prime tre delle cinque parti che compongono il libro le più riuscite, perché qui gli incontri della protagonista con la Signora scandiscono il ritmo di un’intera cittadina. La ricostruzione avrebbe potuto anche fermarsi qui, ma l’autore ha deciso di continuare il suo canto seguendo sino alla fine la vicenda di Bernadette, la segue dunque nelle maglie di una burocrazia fatta di psichiatri, autorità politiche e religiose, e infine nel monastero benedettino di Nevers.

Asse portante della seconda parte è il rapporto tra Bernadette e suor Vanzous, rapporto che percorre l’intera vicenda raccontata e che è organizzato esso stesso in una spirale di cerchi concentrici che delineano pagina dopo pagina un tragitto. Ha inizio nelle prime pagine del libro, quando madre Marie-Thérese è la terribile insegnante di religione di Bernadette, giudice inappellabile dell’ignoranza e della spavalda pochezza della protagonista. E continua, vissuto con drammatica asprezza da quella che si trova suo malgrado nel ruolo di maestra, a Nevers, fino all’inversione di ruoli finale. Capovolgimento che mostra con una evidenza cristallina il delinearsi di due percorsi spirituali antitetici: l’uno retto su una ricerca di perfezione ascetica che ha il suo fulcro nella volontà, l’altro nutrito da un’esperienza amorosa assoluta che porta all’accettazione di quanto la realtà offre e alla capacità stessa di attingervi e goderne.

Il passaggio dall’uno all’altro dei percorsi, quale lo si incontra nei tracciati mistici, avviene attraverso un’esperienza di scacco della volontà. Emblematico, al riguardo, il tragitto di pensiero di Simone Weil, che agli inizi del primo dei Quaderni aveva steso una lista delle tentazioni cui sentiva di dover fare fronte per un orientamento di libertà, individuando nella pigrizia senz’altro la più forte da arginare e scorgendo dunque nella volontà, nell’esercizio quotidiano della volontà, la pratica da seguire. In seguito, pur ritenendo importante sforzarsi di realizzare obiettivi anche minimi che si proponeva, quantomeno per sperimentarne la pochezza, la sua ricerca vira dalla volontà in direzione dell’attenzione, quello stato di attesa e di sospensione, quello stare sul vuoto che permette alle cose e agli esseri umani di esistere e alla mente di aprirsi all’inedito ed essere creativa. Nei saggi su Lo specchio delle anime semplici, di Margherita Porete, Luisa Muraro affronta quello che è un passaggio cruciale nel percorso delle mistiche, illuminante per coglierne la portata: la fuoriuscita dal campo proprio delle virtù, dopo averne effettuato un attraversamento che in qualche forma le ha esaurite, per fare esperienza del vuoto e consentire così l’avvento di un’esperienza d’amore totale con quell’assolutamente altro da sé che è Dio, fino a coinciderVi.[2]

Ma l’incontro di Bernadette con la Signora non avviene all’interno di un cammino spirituale già avviato, l’apparizione alla grotta coglie di sorpresa la ragazza, che dopo un primo profondo smarrimento prova qualcosa che somiglia a una calda consolazione. La percezione fisica di una bellezza come reale – diversa cioè dalle immagini evanescenti dei sogni – le dà conforto, una sorta di profondo appagamento per qualcosa di cui non sapeva di avere profondo bisogno. Sarà anzi questa stessa sensazione di pienezza a tenerla lontana da un percorso orientato alla pratica delle virtù e sostenuto dalla volontà. La sua via sarà da subito quella dell’amoroso abbandono.

Leggendo Il canto di Bernadette viene da chiedersi quanto l’invenzione supporti la ricostruzione storica e venga in soccorso di eventuali falle presenti in quest’ultima. Lo scrittore rassicura il lettore diffidente nella Prefazione, dichiarando la veridicità degli avvenimenti narrati, veridicità attestata dalla testimonianza di “amici, nemici, osservatori spassionati” della vicenda di Lourdes. In effetti, la causa di beatificazione di Bernadette Soubirou – che si svolse nell’arco di decenni e che iniziò a indagare nelle pieghe e nei dettagli della vicenda solo pochi anni dopo le apparizioni alla grotta di Massabielle, interpellando il maggior numero possibile di testimoni – fornisce probabilmente un materiale di ricerca cospicuo. C’è inoltre nel romanzo una tale attenzione al contesto della vicenda, pure a fatti apparentemente marginali, a moti d’animo anche di personaggi che paiono secondari, con una capacità sorprendente di cogliere nessi inediti, che porta chi legge dentro una vicenda che presenta tutta la complessità e le sfumature dei fatti accaduti. È infatti lo scandaglio della vicenda narrata a fornire alla ricostruzione un forte ancoraggio reale. Insieme alla verità dei fatti, tenacemente mischiata ad essi, si respira nel libro, pagina dopo pagina, la verità dell’invenzione poetica, capace di togliere opacità ai fatti e di restituirli a chi non era presente con un di più di realtà.

Le apparizioni della Signora a Bernadette iniziano l’11 febbraio 1858, a Lourdes, nella grotta di Massabielle. Bernadette ha da poco compiuto quattordici anni, il 7 gennaio, data importante per la Francia, perché è la stessa in cui nacque Giovanna D’Arco. Alla terza apparizione la Dolcissima le chiede di andare alla grotta, per incontrarla per quindici giorni di seguito, e la avverte di non poterle promettere la felicità in questo mondo ma nell’Altro. La protagonista non chiama mai Madonna o Vergine, Colei che si manifesta a lei nella grotta, ma sempre la Signora, la Bellissima, la Dolcissima[3]. Sollecitata da un crescere di domande e di pressioni intorno, Bernadette si spinge a chiamarla una volta “Immacolata Concezione”, dogma che era stato stabilito qualche anno prima da papa Pio IX. Riluttante a comprimere la Signora negli stereotipi mariani correnti, non riconoscerà la Bellissima nella statua costruita da un artigiano per Massabielle, divenuta in breve meta di pellegrinaggio, e rifiuterà sdegnata quella figura.

       Non è un posto qualsiasi, Massabielle, per gli abitanti di Lourdes. Ci sono racconti popolari, paurosi e di spiriti, relativi a questa caverna dentro il Monte delle Spelonche. Clarence – persona di cultura nonché assiduo del Café Français, che è luogo di ritrovo delle persone istruite, laiche e progressiste, della cittadina – racconta di una pietra trovata in una grotta sul Monte delle Spelonche che risalirebbe al Seicento: il simbolo cristiano sopra lo stemma di Mirambelle, nome moresco e medievale di Lourdes che significa Miriam-Belle, tradirebbe la vocazione mariana della città. Qui, nella piana del Gave e poco lontano dall’abitato, si apre il romanzo, quando il padre della protagonista vi arriva con un carro carico dell’immondizia pestilenziale di un ospedale da bruciare. Si tratta di un lavoro a giornata, rimediato dopo che ha perso per la siccità il mulino e vive con la moglie e i quattro figli alla guardina, penitenziario locale dismesso perché insalubre e offerto dal comune alla loro indigenza. É in questo stesso luogo che la Dolcissima si manifesta a Bernadette.

Lei arriva con la sorella e una compagna di scuola nei pressi del Monte delle Spelonche, in cerca di legna da ardere, ma si trattiene da sola al di qua del Gave gelato, non lo attraversa in zoccoli per non bagnarsi i piedi, data la salute sempre precaria per i ricorrenti attacchi di asma. Qui, poco distante dalla grotta di Massabielle, avverte un mutamento sul piano uditivo: il fiume ha cambiato rumore, quello che lei sente sembra il chiasso dei carri sulla strada misto al parlare forte e agitato dei giorni di mercato. È come se tutto questo trambusto risalisse il corso del Gave e venisse come un turbine incontro a lei. Uscita da questa distorsione uditiva, che la riporta a qualcosa che ha l’impressione di avere già udito, ritorna a sentire lo scorrere piano del fiume e guarda la grotta a dieci passi da lei. Una nuova percezione, visiva stavolta, si fa strada in lei: il roseto nella nicchia si muove come se un forte vento lo agitasse, eppure non c’è neppure una brezza a muovere rami e ramoscelli degli alberi intorno. La grotta pare ora illuminata dall’ultimo chiarore del sole che tramonta, e dentro questo chiarore si mostra a lei qualcosa che pare venuto da chissà quali profondità e attraverso chissà quali strade, lunghe e impervie: la giovane e bella signora che vede, piccola e delicata, è diversa dall’inconsistenza delle immagini dei sogni, la percepisce in carne ed ossa. Ai primi istanti di paura segue in lei un sentimento di calda consolazione che vorrebbe non finisse mai. È la profonda soddisfazione di qualcosa che non sapeva le mancasse a costituire il primo intenso legame con quella che lei chiama da subito la Signora. Non sapendo che comportamento tenere di fronte all’apparizione di questa donna che è concreta ma insieme di una bellezza fuori delle possibilità umane, la ragazza si alza in piedi, poi si inginocchia, infine prende in mano il rosario, che tiene in tasca come tutte le donne di Lourdes, e quando scorge un rosario anche nella mano dell’Altra inizia a recitarlo, e continua fino a che una grande tranquillità si impadronisce di lei, tanto che si assopisce, inginocchiata e con il rosario in mano. È così che la trovano le due ragazze di ritorno dalla ricerca di legna, e sono turbate dal pallore, dall’immobilità, dal suo stato di trance illuminato da un sorriso beato che sembra tracciare subito un solco tra lei e loro.

Le trasformazioni messe in atto da questa apparizione sono palesi da subito. Jeanne Abadie, la compagna prima della classe, fino a quel momento incline a sentirsi superiore all’inetta Bernadette, comincia da quel giorno ad avvertirne l’autorevolezza, fino a percepirne in seguito la netta irraggiungibilità. Il mugnaio Antoine Nicolau, che ha il mulino poco distante dalla grotta e porta a casa in braccio la ragazza svenuta dopo una successiva apparizione, è toccato dal suo stato angelico e ne conserverà dentro l’emozione, prestando sempre fede alle parole di lei. Anche altre persone intorno, come la facoltosa Mme Millet, sono fortemente coinvolte dallo stato trasfigurato della petite voyante, non dubitano della sua sincerità e sentono anzi come benefica la sua vicinanza, offrendosi di ospitarla nella propria casa. È come se portasse in sé tracce dell’Invisibile che l’ha attraversata, rendendosi in qualche forma visibile tramite lei, e questo attira le persone che la avvicinano. La stessa Bernadette si percepisce trasformata subito dopo il primo stato estatico: al risveglio, seguito alla sonnolenza, si sente cresciuta in altezza e divenuta più bella; è anche meno paurosa di ammalarsi e più sicura di sé e rifiuta per esempio di indossare l’abito elegante, da Figlia di Maria, che alcune signore benestanti della cittadina le hanno adattato per andare alla grotta, preferendogli sempre il logoro capulet bianco, una mantellina con cappuccio che le donne del popolo indossavano, infilandola dalla testa.

Alla terza apparizione, la Signora chiede a Bernadette di venire alla grotta per quindici giorni di seguito, avvertendola, come dicevo prima, di non poterle promettere la felicità in questo mondo, ma nell’altro. Cominciano i pellegrinaggi alla grotta, mettendo in subbuglio sia le autorità religiose, che cercano fino a che è possibile di ignorare la vicenda, sia quelle civili, preposte al mantenimento dell’ordine. La prima ad avvertire il rischio che le apparizioni alla grotta possano venire equivocate e strumentalizzate, è la zia materna di Bernadette, Bernarde Casterot, la mente della famiglia Soubirou: è lei a consigliare saggiamente che la nipote lasci la ricca e lussuosa casa di Mme Millet, dove da alcuni giorni si era trasferita, e torni a vivere alla guardina, e che sia invece la madre a stare al fianco della figlia in questa avventura.

La notizia delle apparizioni della Vergine arriva attraverso i giornali al Café Français, luogo di incontro dei notabili e delle persone istruite del posto. Duran, il proprietario, è fiero di mettere quotidiani locali e nazionali a disposizione di clienti in sintonia con la sua visione laica e progressista. In questo ambiente aperto alle istanze della modernità, isola felice nel bigotto e codino meridione della Francia, si incontrano Clarens, direttore del liceo, l’agente delle imposte Estrade, il procuratore imperiale Dutour, il commissario Jacomet, il medico Dozous, l’uomo di lettere Lafite, talvolta perfino il colto e illuminato decano di Lourdes, Marie-Dominique Peyramale. L’ateo Lafite, incline a collegare le apparizioni della grotta alla stessa dimensione orfica della Grecia omerica, ritiene che la religione sia soltanto una forma popolare di poesia oppure, che è lo stesso, che l’arte tutta sia una religione laicizzata, d’altronde l’unica forma di religione possibile nella modernità. C’è preoccupazione che questa vicenda, inaccettabile a persone che vivono nel XIX secolo, renda Lourdes ridicola agli occhi della Francia più colta e getti questo centro, che vorrebbe proiettarsi verso la modernità, nel baratro dell’oscurantismo medievale. In preda alle furie è soprattutto il sindaco Lacadé, obbligato a prendere decisioni di ordine pubblico a causa della marea montante di pellegrini, ma che vede soprattutto sfumare il suo impegno per fare arrivare la linea ferroviaria che passa dalla vicina Tarbes fino a Lourdes, così che il piccolo centro alle falde dei Pirenei si trovi inserito in una dimensione più ampia. Il medico Dozous assume la sfida di andare lui, uomo di scienza, sul posto, a verificare lo stato di salute fisica e mentale di Bernadette durante la trance. È il 21 febbraio 1858, e la relazione che ne fa, la domenica mattina agli amici del caffè, è un cuneo che inizia a scalfire la tronfia sicurezza dell’accolita: a fianco dell’estatica Bernadette e in mezzo a una folla già vicina alle duemila persone, non ha riscontrato alcuno stato alterato, nella ragazza, e neppure comportamenti palesemente atti a ingannare; è lui stesso turbato da quello che ha visto, non potendo da naturalista credere ai miracoli.

 Gli incontri di Bernadette con la Dolcissima hanno la potenza e l’intensità dei convegni d’amore, punteggiati da quelle che sono le figure tipiche del legame amoroso: esclusività, appagamento, fiducia, angoscia della perdita, svuotamento. Si può scorgere in filigrana, sullo sfondo di questi tópoi del rapporto d’amore, qualcosa che è dell’ordine del rapporto originario con la madre, di cui conserva un’assolutezza che eccede le forme simboliche date. Completamente assorbita dalla relazione con la Signora, in quei mesi lei cresce, matura, diventa sicura della direzione da intraprendere e non si lascia intimidire da persone che occupano ruoli in alto e di rilievo nella scala sociale. Neppure si lascia sviare dal crescere della popolarità intorno alla vicenda che la vede protagonista e a cui lei presterà sempre scarsissima attenzione. Già l’indomani dalla prima apparizione, si vede per la prima volta bella, bella come la Signora, guardandosi allo specchio della casa ricca che l’aveva ospitata per qualche giorno.

 Nei mesi in cui la Bellissima le dà appuntamento alla grotta, dentro “incontri” così intensi da lasciarla stremata per giorni, Bernadette assume consapevolezza di sé e insieme quella che potremmo chiamare competenza simbolicanella lettura di quanto le accade. Comprende per esempio che queste apparizioni a Massabielle non si esauriscono nel godimento che le viene dal manifestarsi dell’Altra ma appartengono a un ordine profondo che pure ignora. Il tumulto infernale che arriva dal fiume Gave in subbuglio, che era stata la prima delle alterazioni sensoriali della ragazza, torna alle sue orecchie e ha il potere di corrucciare gli stessi lineamenti della Dolcissima, e tuttavia basta uno sguardo di Lei per rendere docile e tranquillo il fiume. Perché poi solo quindici incontri e non invece infiniti, come Bernadette desidererebbe, nonostante la spossatezza che ne segue? C’è che anche la Signora è dentro un disegno che la comprende e in qualche modo la supera e non agisce d’arbitrio, e dunque anche il rapporto con Lei è soggetto a regole precise. Se la prima volta che la Dolcissima manca all’appuntamento fissato e tanto atteso, Bernadette entra in uno stato di prostrazione vicino alla disperazione, la volta successiva arriva a darsi una ragione dell’assenza, sentendo profondamente che la Signora non può disporre liberamente di sé ma è dentro un ordine più vasto che regola il loro stesso incontrarsi. Nella sua semplicità, si dice che la Piena di Grazia avrà senz’altro altri impegni e altri doveri; ha fiducia che non saranno futili i motivi che la tengono lontana, e allora recita mentalmente il rosario per sentirla vicina nell’assenza.

Mentre il sindaco, il procuratore imperiale, il commissario di polizia, il parroco, messi alle strette dalla folla di centinaia di persone che si riversano ogni giorno davanti alla grotta delle apparizioni, cercano con i mezzi di cui dispongono di impedire alla ragazza di raggiungere Massabielle, Bernadette – forte della relazione con la Dolcissima – si scrolla di dosso la timidezza dei poveri verso l’autorità e tira diritto. Lo fa con parole scarne e misurate, che mostrano la sua riluttanza, quasi un’impossibilità a deviare dalla direzione intrapresa. Durante l’interrogatorio, il procuratore imperiale Vital Dutour osserva l’abbigliamento povero e il tratto infantile della ragazza che ha di fronte, ma è soprattutto colpito dagli occhi che sono inconfondibilmente quelli di una donna che ama. Capisce che lei non desisterà dall’impresa e la strana percezione avuta durante l’interrogatorio gli lascerà l’amaro in bocca anche dopo: dirà a se stesso che chi ha qualcosa da difendere, anche soltanto un fantasma, la vince su chi sta magari in alto nell’amministrazione e però manca di una tale risorsa. Bernadette tiene testa anche al commissario di polizia Jacomet, che le fa paura e la tratta in modo intimidatorio, lasciandola per esempio in piedi per tutto l’interrogatorio: non cede alle minacce e non cade nelle trappole con cui l’astuto uomo d’ordine era abituato a far cadere i delinquenti più incalliti. Presente all’esame di Jacomet nel ruolo di testimone è il commissario delle imposte Estrade: riluttante a credere alla faccenda delle apparizioni, si convince tuttavia, durante l’interrogatorio, che la ragazza non sta mentendo né vuole ingannare, e decide di andare anche lui l’indomani alla grotta. Benché intimidita e quasi terrorizzata dal parroco di Lourdes, il colto e disincantato Marie-Dominique Peyramale, Bernadette non esita a raggiungerlo nella sua casa perché realizzi quella che ritiene la volontà della Signora. Più freddo e distaccato delle autorità civili, il decano le chiede beffardo che la Signora si manifesti in modo tangibile anche agli altri con un miracolo, così da togliere tutti loro da un’impasse: che faccia fiorire fuori stagione il roseto situato all’ingresso della grotta.

Le apparizioni di Massabielle a Bernadette hanno da subito un seguito di folla che arriva a contare, in pochi mesi, migliaia di persone. Non c’è mediazione da parte delle autorità religiose, restie a farsi abbindolare da visionari di bassa lega, e dunque esse rimangono all’inizio un fenomeno di popolo estraneo alle forme tradizionali della religione, non disciplinato da esse. Simili, in questo, alle religioni misteriche del mondo antico. E questo genera timori che i fatti di Lourdes diventino ingovernabili, che al di là di Bernadette ciascuno possa sentirsi autorizzato a interpretarli a modo proprio. Lo stesso Francesco d’Assisi, riluttante sulle prime a circoscrivere la propria vicenda dentro un ordine religioso, si sentì costretto a un certo punto a chiedere al papa il sigillo di una regola data la crescita esponenziale ed incontrollabile dei suoi seguaci da ogni parte. Bernadette Soubirou non circoscrive dentro le forme date della religione cattolica la Signora che per alcuni mesi la chiama alla grotta, si limita a chiamarla la Dolcissima e la Bellissima; è vero che fin dalla prima apparizione estrae il rosario di tasca per mettersi in comunicazione con Lei, ma il rosario era lo strumento che ogni donna del popolo era abituata da secoli a usare per mettersi in rapporto con il trascendente. Se le persone che accorrono al suo seguito alla grotta identificano da subito la Signora nella Vergine Maria e la immaginano nella forma delle statue che hanno visto in chiesa, la ragazza si sottrae a questa operazione. La pressione che sente crescere attorno – pressione non solo delle autorità civili ma anche della stessa folla che accorre alla grotta – induce però Bernadette a riconoscere in seguito, anche se mai completamente, nella Bellissima l’Immacolata Concezione e a farsi Sua portavoce perché si costruisca sul posto una cappella e si dia via libera ai pellegrinaggi.

 Aleggia anche il timore che l’Invisibile con cui folle di persone entrano in contatto tramite la petite voyante possa cambiare di segno, dato che nell’ambito dell’imperscrutabile divino e demoniaco corrono vicini. Dopo le quindici apparizioni alla grotta, accade che nella vacanza della Signora la suggestione collettiva alteri soggetti psichicamente instabili e comincino a proliferare falsi veggenti che si sentono investiti di un ruolo importante. A proposito dei falsi veggenti, Werfel chiosa che mentre il divino investe l’intero essere della creatura cui va la sua Grazia, il demoniaco non vuole tanto affaticarsi e sceglie perciò la scorciatoia delle nostre capacità per aprirsi una strada, e questo spiegherebbe la morbosa vanità delle persone di talento.  Sulla medesima lunghezza d’onda, Simone Weil scriveva negli stessi anni, ne La persona e il sacro, che era stato un errore delle società moderne investire interamente sullo sbocciare dei talenti, trascurando completamente di amare e riscaldare quella genialità che si contraddistingue per l’amore della verità e che potrebbe incarnarsi anche nell’idiota del villaggio, rendendolo per questo superiore a qualsiasi individuo di talento.

Quelle sorgenti termali, esistenti in centri vicini e che il sindaco di Lourdes sperava fosse la strumentazione scientifica a scovare un giorno nel comune da lui amministrato, così che si potesse ammodernare e arricchire, fu paradossalmente la Dolcissima a svelarle, intimando un giorno a Bernadette di bere e lavarsi alla fonte. Poiché non scorreva alcun rigagnolo d’acqua dentro la grotta di Massabielle e nessuno sapeva dell’esistenza di una sorgente, lei si limita a obbedire con dedizione alla richiesta della Signora, pur ignorandone completamente gli intenti, e raspa per terra e ingoia terra bagnata ed erba fino a vomitare, passando per pazza agli occhi dei più e suscitando forti preoccupazioni nella sua stessa madre, che non smette tuttavia di darle credito e sostenerla. Quando dal fango inumidito dello scavo febbrile della ragazza comincia a scorrere, nei giorni  successivi, un sottile rigagnolo che si ingrandisce sempre più successivamente – uno scroscio di acqua benefica – la grotta delle apparizioni comincia a configurarsi come sorgente dei miracoli.

Poco interessata al susseguirsi dei miracoli e quasi infastidita dalle migliaia di occhi puntati su di lei, Bernadette continua a mantenere nella relazione con la Signora delle apparizioni il suo centro e sostanzialmente il suo unico interesse. Lo stare in rapporto con la Bellissima ha su di lei effetti terapeutici, dandole in poche settimane una consapevolezza di sé mai sfiorata prima e che la rende capace di reggere l’intricata e complessa situazione mantenendo intatti il proprio candore e la propria singolarità. Sta anche meglio in salute, quanto agli attacchi di asma che la scombussolavano da quando era bambina. Certo le apparizioni cui la Dolcissima la chiama alla grotta, benché durino poco meno di un’ora, la lasciano ogni volta spossata e inerte per giorni, tanto che si rendono necessarie pause anche lunghe tra l’una e l’altra, come in un rapporto d’amore intenso e assoluto. Il gesto di bere e lavarsi alla fonte, sempre reiterato dopo quella prima dolorosa volta, ha per lei un significato rituale, di coinvolgimento del corpo nella comunione mistica con l’Altra. Anche la recita del rosario, la materialità del gesto di scorrere la mano sui grani della sua povera corona sussurrando l’Ave, chiama l’Altra a fare altrettanto sulle perle della corona splendente, e ciò stabilisce una profonda comunione tra le due, un abbandonarsi dell’una nell’altra.

 Come nei legami d’amore, l’angoscia della separazionegrava fin dall’inizio come un’ombra, un timore che diventa lancinante nell’approssimarsi del commiato. Così Bernadette comincia a vacillare nell’avvicinarsi alla fine dei quindici giorni fissati; è intanto già arrivato marzo e a lei pare inaccettabile che le apparizioni della Bellissima possano finire di lì a una settimana. Vorrebbe che, pur nel mantenimento della verticalità e disparità del loro rapporto, la giovanissima e bella Signora che le appare potesse crescere assieme a lei, in quella stessa Massabielle, e allora lei lavorerebbe, non si tirerebbe indietro rispetto ai lavori più umili e pesanti, ché tanto ci sarebbe il loro legame a sostenerla, legame che potrebbe durare – perché no? – quanto dura la vita. Per questo vorrebbe fermare il tempo, trattenere le ore e i giorni perché non trascorrano. Mentre esercito e polizia presidiano in gran parata la grotta, dove una folla di forse ventimila persone sono arrivate anche dai borghi vicini, informate dal passaparola sui fatti miracolosi che stanno accadendo a Lourdes, Bernadette affronta in solitudine l’ultimo dei quindici appuntamenti, nella sofferenza che possa trattarsi dell’ultimo in assoluto. L’apparizione dura stavolta pochissimo, pur seguendo il rituale di sempre, quasi per un occulto desiderio di prendere  distanza dalle aspettative generali della gente intorno, di rifuggire dallo spettacolo. L’aspetto di Bernadette è però felice, subito dopo, nonostante i quindici appuntamenti alla grotta siano finiti: capisce che si rende necessaria una pausa di riposo e insieme ha fiducia, sa dentro di sé che la Bellissima tornerà, senza appuntamenti stavolta, e che sarà lei stessa a sentire quando sarà arrivato il momento. La ragazza trascorre serena le settimane che seguono, riprendendo a casa e alla scuola elementare la vita di sempre. Il confine tra l’esaltazione e la derisione da parte di un pubblico è labile, ma Bernadette attraversa apatica il rumore montante intorno a lei e alle insistenti richieste racconta indifferente delle apparizioni a Massabielle, fornendo ogni volta la stessa storia stereotipata. Intanto attende ed è questa attesa a scavare un confine invalicabile tra lei e l’esterno, un baratro che percepisce persino rispetto ai suoi stessi familiari.

È dopo una ventina di giorni, ancora una volta di giovedì, al mattino, che Bernadette si sente nuovamente chiamata dalla Signora alla grotta. Quest’ultima apparizione, in cui vive una comunione con la Dolcissima mai sperimentata prima, è raccontata da Werfel attraverso lo sguardo del medico municipale Dozous, uomo di scienza e naturalista di convinzione, quindi alieno dall’ammettere l’esistenza di fenomeni che alterino le leggi naturali. Come già all’inizio delle estasi della ragazza, vi assiste anche stavolta con lo sguardo lucido e lo spirito dell’osservatore scientifico, stando immediatamente dietro di lei, e presenta poi una sorta di relazione al parroco di Lourdes, lo scettico e riluttante decano Marie-Dominique Peyramale, durante un colloquio privato. Volendo sospendere qualsiasi giudizio sui cosiddetti miracoli legati all’acqua della grotta, dato che la scienza potrebbe in futuro trovare in quell’acqua elementi medicamentosi non visibili con gli strumenti odierni, e non avendo riscontrato alcuna turba mentale in Bernadette, potrebbe liquidare il tutto attribuendo doti visionarie alla giovane: quelle visioni che in grandi artisti portano alla creazione di capolavori, in spiriti geniali ma non coltivati o addirittura primitivi possono presentarsi come dati di realtà e personificarsi per esempio nella Signora della grotta. Fino a qui tutto bene, discorso accettabile a qualsiasi mente laica che voglia capire. E però… C’è un però che incrina quanto detto e gli crea un forte turbamento, tanto che ha sentito il bisogno di un colloquio franco col decano, fino a quel momento assente – come tutte le autorità religiose – da tutto quanto concerne Massabielle. Qualcosa, cui ha potuto assistere quella stessa mattina, sfugge a quanto la sua mente è in grado di comprendere: la fiamma di una candela tenuta con la destra da Bernadette e per caso scivolata in basso ha continuato a bruciare per una decina di minuti palmo e dita dell’altra sua mano, non interrompendo la sua trance e non lasciandovi poi alcun segno di bruciatura.

 Tessendo il canto di Bernadette, Werfel sospende il giudizio su questo episodio come sul contenuto delle visioni della ragazza alla grotta: grazie agli echi arrivati a lui circa un secolo dopo e respirati nei difficili mesi trascorsi a Lourdes, egli appartiene in un certo senso al nutrito gruppo di quelli che si sono trovati modificati dalla relazione della ragazza con la Signora. Ma il medico Dozous si trova invece messo alle strette dalla sua stessa ambizione di dare una valutazione sui fatti osservati quel giorno, in particolare sulla mano uscita indenne dal contatto prolungato col fuoco, e per questo finisce in una impasse. Dentro le coordinate positiviste del suo pensiero l’assunzione della realtà come data ed esterna al soggetto che la conosce è un dogma, e dunque i fatti non possono che essere reali oppure illusori. Nello specifico delle apparizioni a Massabielle, se si esclude l’imbroglio rimane aperta solo la via del miracolo.

 Ne Il mondo magico [4], scritto nel 1945, Ernesto De Martino mette in evidenza l’impossibilità per il nostro orizzonte occidentale di accettare e classificare fenomeni di questa natura. La netta separazione tra soggetto e oggetto e tra uomo e natura, che caratterizza il paradigma della modernità, preclude infatti la comprensione di simili manifestazioni, appartenenti a un mondo cronologicamente antecedente al nostro ma che continua ad abitarlo nei meandri, arrivando di tanto in tanto in superficie come un fiume carsico. Il grande antropologo spiega come in un diverso universo culturale, dove l’esserci non è dato né certo, fenomeni che sfuggono alle nostre categorie interpretative abbiamo invece consistenza reale, servendo a padroneggiare una presenza labile e insieme a  rinforzare l’appartenenza comunitaria.

Fenomeni che attengono all’ambito religioso, al pari di quelli che riguardano l’ambito artistico, e più in generale l’ambito creativo, rifuggono perlopiù dalla netta opposizione tra soggetto e oggetto che caratterizza l’ordine simbolico dentro cui  pensiamo la realtà. Essi riportano in luce frammenti di un’esperienza arcaica, anteriore alle forme simboliche date, che si tratti di un universo culturale originario oppure di una primissima infanzia solo parzialmente o diversamente simbolizzata[5]. Una via per uscire dall’impasse della rigida opposizione tra realtà e illusione è appunto quella di prendere atto degli effetti di realtà, della capacità di modificazione dell’esistente che questi eventi hanno, ed è questa la strada percorsa da Il Canto di Bernadette.

L’accorato racconto del dottore sconvolge il colto e passionale decano Peyramale e chiama a raccolta dubbi e interrogativi che avevano iniziato a serpeggiare da quando, costretto a incontrare suo malgrado la ragazza, aveva potuto rendersi conto di quanto l’interessata fosse aliena da qualsiasi impostura o interesse privato, in altre parole sincera. Riluttante a mettere in moto la rigida e per certi versi implacabile macchina ecclesiastica – riluttante nell’interesse stesso della protagonista, che se ne troverebbe impigliata senza scampo – egli decide tuttavia di confrontarsi sulla vicenda di Massabielle con il vescovo di Tarbes, il severo Bertrand-Sévère Laurence, rigoroso osservante della forma e sulla cui stima e simpatia sa di poter fare conto. Il vescovo definisce un inno alla ragazza Soubirou il racconto emozionato del decano, che osa davanti a lui, cioè tra religiosi, ciò che il racconto di Dozous non aveva osato e chiama miracoli i fatti che si stanno susseguendo a Lourdes nelle ultime settimane. Ma su questo è l’accorto e lungimirante Laurence a porre un alto là, perché quella di miracolo è una parola estremamente pericolosa, il cui uso compete esclusivamente alla Congregazione dei Riti di Roma. Quanto a lui, potrebbe mettere in moto l’ingranaggio attraverso una Commissione vescovile d’inchiesta ma si guarda bene dal farlo perché il miracolo è un evento terribile, difficilissimo da gestire e che farebbe correre alla chiesa il rischio del ridicolo, in un’epoca dominata dalla mentalità scientifica e non propensa a riconoscere realtà a eventi soprannaturali. Del resto, quale futuro si prospetterebbe a Bernadette? Si può immaginare che possa continuare la propria vita, simile nelle aspettative alle altre coetanee di Lourdes, mentre una commissione di inchiesta ecclesiastica si troverebbe per molti anni a indagare su fatti miracolosi che la concernono?

Nella latitanza dell’autorità ecclesiastica, che non condanna né riconosce ufficialmente apparizioni e miracoli alla grotta, l’autorità civile si trova impossibilitata a gestire fenomeni di una sfera, quella spirituale, che la modernità ha espulso dal proprio orizzonte e lasciato dunque senza forma, senza significato, senza parole. «Nell’epoca dell’industria, – commenta Werfel – il miracolo rappresenta indubbiamente una calamità per lo Stato, poiché fa vacillare il moderno ordinamento sociale il quale ha smistato, in un certo senso, tutti i bisogni metafisici sulla solitaria stazione secondaria delle religioni, affinché le linee principali di traffico della vita non ne vengano più appesantite. Là quei bisogni rimangono a intristire nobilmente, servendo da decorazione per i tre patetici avvenimenti dell’esistenza: battesimo, matrimonio e morte»[6]. Alla voragine che questi fenomeni aprono nel sociale l’autorità civile cerca di fare fronte reprimendo, ma senza riuscirvi però interamente. Le espressioni di religiosità popolare spontanee e informi davanti a Massabielle generano timori, e allora la grotta viene chiusa, l’accesso sbarrato da un’impalcatura di assi di legno che vengono però ripetutamente divelte di notte. Intanto il sindaco di Lourdes, preoccupato sulle prime che la vicenda delle apparizioni potesse essere di intralcio all’auspicato ammodernamento della cittadina, scorge adesso nell’acqua che sgorga copiosa dentro la grotta e che è ricca di oligoelementi – come emerge dalle analisi effettuate –  la leva stessa della tanto attesa modernizzazione: si tratta solo di sottrarla a questo punto alla Signora, sbarrandone appunto l’accesso ai pellegrini con delle assi, e che sia dunque il legittimo proprietario, vale a dire il comune nella persona del sindaco, a utilizzarla per quello che è, un’ottima acqua minerale, con l’obiettivo di trasformare Lourdes in un moderno centro termale.

Indifferente e pressoché apatica al crescere del rumore intorno alla vicenda di Massabielle – rumore che si espande in cerchi sempre più ampi raggiungendo Parigi e lo stesso imperatore Napoleone III – Bernadette si mantiene in disparte, e attende l’invito a un incontro che è sicura ci sarà, intanto che i mesi trascorrono, aprile, maggio, giugno… A luglio finisce la scuola e lei viene perfino ammessa alla Prima Comunione, nonostante la crassa ignoranza in materia religiosa[7], neppure scalfita da una qualche curiosità. Unicamente centrata sull’attesa, lei cerca luoghi appartati, per meglio afferrare la chiamata, e a un’ennesima domanda: Quando?, sente finalmente dentro di sé l’urgenza di una risposta che non ammette repliche: Adesso! È il 16 luglio, al tramonto, e lei raggiunge allora di corsa lo stesso luogo della prima volta, dove trova però la grotta sbarrata, ma la Bellissima le appare stavolta fuori, con i piedi in terra lungo la riva del Gave. La Signora è oggi più che mai quella della prima apparizione, è giovane e lieve, e Bernadette comprende che il tempo in cui la Dolcissima le chiedeva qualcosa, di essere una sorta di intercessione per gli altri, è finito, si è esaurito nel corso dei quindici appuntamenti alla grotta. Ora sono loro due soltanto, nella comune solitudine dell’amore. Non c’è neanche il rosario stavolta a fare da tramite, e non ci sono neppure parole tra loro, quasi a significare che la comunione tra loro è completa. Bernadette comprende la straordinarietà dell’apparizione di quel giorno e capisce che non ci sarà un’altra volta nel manifestarsi a lei della Signora. Sente che, dopo il commiato, il rapporto con l’Altra potrà nutrirsi di qualcosa che non è dell’ordine della presenza e si immerge allora nella pura contemplazione, quasi a trattenere quanto più riesce dell’immagine amata. Mentre la luce della Bellissima sembra stemperarsi fino a sparire nel cielo ormai stellato, Bernadette si gira, riconosce visi noti e familiari, la madre, la zia, il mugnaio Antoine Nicolau, poi cade svenuta, ed è quest’ultimo a portarla in braccio a casa, come dopo la prima apparizione alla grotta.

Finite le apparizioni alla grotta si conclude, per certi versi, il racconto epico di Bernadette. Dopo lo stato estatico di luglio la protagonista è spossata, svuotata, di nuovo in preda alle forti crisi di asma, incapace di essere di una qualche utilità per la numerosa famiglia, tanto che la madre Louise, che continua a prendersi cura e a sostenere e incoraggiare quella che è stata sempre la più fragile dei suoi figli, non manca di volergliene a quella Signora che ha messo a repentaglio la salute della sua primogenita e scombussolato l’intera famiglia, esponendola per mesi allo sguardo pubblico senza che questo abbia modificato sostanzialmente il loro status, dato che ancora vivono nell’insana guardina. Cambia così anche il ritmo del canto tessuto da Werfel, che diviene accelerato: la lentezza e coralità delle prime parti, dove la vicenda di Bernadette, durata solo pochi mesi, aveva scandito il ritmo di un’intera cittadina, lascia il posto alla narrazione di un tempo più lungo, circa vent’anni, che segue la protagonista fino alla morte, avvenuta nel 1879, nel monastero benedettino di Nevers. Bernadette non aderisce in nulla al personaggio pubblico che ci si aspetta diventi e rimane apatica se non infastidita davanti alle continue richieste dell’esterno, irritata dai suoi stessi familiari, del tutto disinteressata a quella fonte miracolosa su cui si sta concentrando l’attenzione generale. Vorrebbe starsene in disparte e accetta così di buon grado quel consiglio che è di fatto un’imposizione di ritirarsi in convento; nell’estate del 1864, a vent’anni, inizia il percorso di noviziato a Nevers, trovandosi a proprio agio sebbene non avesse mai sentito propensione per la vita monacale. Lei è ora una sorta di centro vuoto capace di avviare continui movimenti, impercettibili o fragorosi, nelle persone con cui viene a contatto e dentro le stesse istituzioni. È sugli effetti messi in moto quasi suo malgrado da lei che lo scrittore concentra ora la sua attenzione, continuando in questo modo il suo canto.

Le autorità religiose, in primo luogo. Spinti da Thibaut, vescovo di Montpellier, – che durante il soggiorno per cure termali a Tarbes raggiunge Lourdes per conoscere Bernadette e ne rimane fortemente colpito – il parroco di Lourdes e il vescovo della vicina Tarbes si trovano costretti a convocare, nella stessa estate del 1858 e loro malgrado, la Commissione, i cui lavori si prevede dureranno circa quattro anni. Sperano intanto di convincere la protagonista a ritrattare, a sganciare senza equivoci la Signora alla grotta dalla Vergine, e confidano nel tempo, che come si sa è maestro. Nei quattro anni di lavoro della Commissione aperta dal vescovo per il riconoscimento o la presa di distanza della Chiesa ufficiale dalle apparizioni di Lourdes – durante i quali la protagonista e una miriade di testimoni vengono ripetutamente convocati e interrogati – Bernadette continua a vivere in famiglia, rimane tranquilla e serena, poco turbata da quanto le accade intorno, quasi come non la riguardasse. In fondo non è stata lei a far sgorgare la fonte, lei è stata soltanto la forma con cui la Signora si è rapportata al mondo. Gli incontri con la Bellissima avevano reso subito migliore l’aspetto di Bernadette, che nella prima giovinezza è diventata davvero molto bella. Singolare è poi il suo rapporto con il tempo, come se lo stato di attesa perdurasse anche dopo l’addio alla Dolcissima, facendola vivere in una sorta di sospensione, quasi lateralmente al tempo.

Si assiste poi a una vera e propria debâcle del fronte laico e progressista. Napoleone III rimane a lungo senza prendere posizione rispetto ai fatti di Lourdes e alla gestione dell’ordine pubblico. Lascia correre, come se non fosse al corrente, trascurando di ascoltare le voci preoccupate provenienti dallo schieramento laico che lo sostiene e che esprime quello spirito dell’epoca che egli stesso incarna. Certo non crede ai miracoli, ma l’imperatore è superstizioso e non osa irridere o mettersi apertamente contro qualcosa che potrebbe essere dell’ordine del soprannaturale e che va in quanto tale temuto. Ma la moglie, la spagnola e cattolica Éugenie de Montijo, attribuisce la guarigione del loro bambino malato all’acqua di Massabielle che è riuscita a procurarsi e a dargli da bere, e di questo lei vuole ringraziare la Madonna delle apparizioni tramite un riconoscimento ufficiale, riconoscimento che il marito è riluttante a dare ma che alla fine accorda. Per non perdere tuttavia la faccia Napoleone omette di passare attraverso il governo e saltando i vari gradi della burocrazia manda un telegramma direttamente al procuratore di Tarbes, scaricando di fatto su di lui la responsabilità della scelta.

 Quando al recapito di Massy, procuratore di Tarbes, arriva il telegramma dell’imperatore, che gli intima nientemeno che di aprire la grotta di Lourdes, senza altre spiegazioni, il barone è incredulo, irritato, teme il ridicolo, per il sovrano e per se stesso, e dunque tergiversa, si rifiuta di prenderlo per quello che è, un ordine, e ne procrastina l’esecuzione, aspettandone una conferma autografa. Quello che avviene in seguito mostra la postura di uomini inseriti nei gangli vitali dell’amministrazione: una voglia di comandare senza assumersene la responsabilità, un agire per interposta persona perché non vengano compromesse le prospettive di carriera, l’attesa che siano sempre altri ad agire per primi, così da poter prendere al momento opportuno le distanze dal loro operato e anzi rilevarne i limiti e le inadempienze. Una macchina burocratica che procede per una sorta di forza di gravità intrinseca, nonostante l’inefficienza e il gioco allo scaricabarile dell’intero apparato. Vediamo allora quello stesso procuratore decidere di prendersi una vacanza in quell’ingarbugliato momento, scaricando sul sindaco di Lourdes l’ingrato compito di riaprire la grotta. Ma il sindaco nicchia, perché quello di Lourdes è ormai un caso nazionale, che travalica le sue competenze di sindaco, ed egli rimette dunque al governo una decisione di questa fatta. Esasperato, il procuratore indaga allora sull’operato del commissario di polizia e dello stesso procuratore imperiale a Lourdes, cercando di scorgervi delle pecche, in modo che si sentano costretti a farsi carico dell’incomprensibile telegramma dell’imperatore. Non riuscendo nell’intento ordina loro di lasciare le assi di legno davanti alla grotta, ma di togliere i gendarmi che ne fanno la guardia e di essere tolleranti con gli eventuali trasgressori. Spera che, senza gendarmi, la grotta verrà subita aperta a furor di popolo, come era già capitato all’inizio, così che il bislacco ordine dell’imperatore venga di fatto eseguito, senza che nessuno si trovi a perdere la faccia. Ma neanche a farlo apposta, quasi se la sentissero di essere diventati una pedina sulla scacchiera, la folla dei devoti rimane passiva e sosta sull’altra riva del Gave, guidata dal mugnaio Antoine. Un dispaccio del governo, voluto dall’imperatore e che mette praticamente fine alla carrieradel procuratore, intima allora al prefetto di aprire immediatamente la grotta. Saranno dunque le autorità di polizia ad andare di persona a Massabielle per togliere quell’impiantito che ne sbarrava l’accesso e a cui tutti, persino gli operai dei cantieri, paiono intenzionati a non metter mano. Lo scacco delle autorità civili è ora palese e la ritrattazione eclatante, tant’è che essa viene infatti annunciata in via ufficiale, gridata per le strade di Lourdes.

 Nell’estate del 1864, dopo i primi riconoscimenti ufficiali della Chiesa, Bernadette ventenne inizia il suo percorso di novizia nel monastero benedettino di Nevers. Nella vita monastica, che non ha scelto, è serena, si ambienta, si trova a suo agio, apprezza le migliori condizioni di vita rispetto a quelle conosciute nella sua famiglia, ha buoni rapporti con le consorelle. Ci sono coincidenze significative, nella vita della protagonista e una ha senz’altro i caratteri dell’evento cruciale: la morte della madre Louise – che aveva creduto in lei, sempre sostenendola affettuosamente nei mesi complicati delle apparizioni – avviene alcuni mesi dopo il suo ritiro in convento, l’8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione, e quando ne ha notizia Bernadette ha la notte una violenta crisi respiratoria con sbocchi di sangue, prima avvisaglia della tubercolosi, che si aggraverà solo negli anni successivi, portandola, nel 1879, alla morte.

Si riprende, Bernadette, nelle settimane successive, e nella quiete del convento inizia a disegnare, seguendo un’attitudine per il disegno che scopre solo adesso di avere. Ostacolata dalla terribile maestra De Vanzous, che vede in questa attività della giovane donna una sorta di fuga dalle strette del percorso spirituale avviato, dopo il noviziato Bernadette asseconda quell’indole estetica che sente e realizza il suo desiderio di creare forme ricamando su parametri sacri sue proprie visioni. È come se trovasse in questa attività una strada per dare corpo a quanto conserva dentro di sé delle estasi alla grotta. C’è infatti una vicinanza tra l’estasi mistica e la creazione artistica e il punto di tangenza è dato dallo spingersi al limite, dallo stare su un bordo che si intuisce pericoloso da oltrepassare nelle coordinate della nostra cultura, occidentale e moderna, la quale prevede un io bene individualizzato. È uno stato che appartiene d’altronde anche a esperienze del quotidiano che si caratterizzano per intensità e assolutezza e che insieme a un profondo appagamento contengono anche una minaccia di perdita[8].

Il rapporto di suor Marie-Thérèse de Vanzous con Bernadette attraversa l’intera vicenda. È una relazione tesa e difficoltosa fin dall’inizio, quando la maestra di religione della scuola elementare di Lourdes sente di non avere presa su quell’alunna indolente e distante, incorreggibile nella propria ignoranza. Certo non crede poi alle visioni che la ragazza dice di avere, pensa ci sia un qualche vantaggio a muoverla, ma soprattutto non si capacita che quell’allieva maldestra riesca a prendersi gioco di tutti, ad abbindolare l’intera cittadina. Ma come, la Madonna in persona? E proprio a lei?, pare chiedersi incredula. Quando arrivano i primi riconoscimenti pure dalla Chiesa, attraverso il colto e aperto decano Peyramale, lei non regge la confusione e il disordine provocati dalla vicenda e decide che è tempo di lasciare Lourdes per trasferirsi a Nevers, nel monastero benedettino dedito, come a Lourdes, all’insegnamento e alla cura dei malati. Ma per ironia della sorte si trova qualche anno dopo Bernadette in quello stesso convento, affidata alla sua cura d’anime nel percorso di noviziato, e a questo punto il rapporto con lei diventata davvero tormentato per la maestra. Cerca di sfogare tutto l’amaro ingoiato negli anni su quell’eletta della Grazia che continua ad apparirle leggera e indolente, sempre incolta e refrattaria agli strali della sua rabbia. Suor Vanzous è abituata a seguire le novizie lungo cammini spirituali previsti e consolidati dall’esperienza millenaria della Chiesa, percorsi di ascesi retti sull’affinamento della volontà, come era stato il suo. Bernadette, non orientata alla rinuncia, sembra invece gioire di tutto quanto la vita le offre, dal cibo del convento alla possibilità di disegnare, fino all’amicizia con altre novizie. La maestra scoraggia questa leggerezza che pare allontanare l’allieva dalla strada maestra dell’itinerario intrapreso, ma non può tuttavia sfuggire alla sua assidua attenzione la serenità con cui Bernadette accetta la sua stessa malattia, come accoglie tutto il resto, e questo inizia a scavare un cuneo nella granitica convinzione dell’altra. Ma è soprattutto la luce che si riverbera sulle persone intorno a Bernadette a mostrare alla severa Vanzous l’esistenza di altro fuori dai tracciati conosciuti e sperimentati. L’anziana suor Sophie, da tutte stimata e apprezzata, nei giorni che precedono la morte vuole accanto a sé solo la giovane donna, e questa predilezione rinforza la stessa Bernadette nella convinzione di continuare a essere la prescelta della Signora e la aiuta a trovare il suo posto e la sua via. Quando scoppia la guerra franco-prussiana e il monastero di Sainte-Gildgarde si svuota, dato che le suore vanno ad assistere i feriti negli ospedali, suor Vanzous è fortemente colpita dalla predilezione dei feriti per la giovane suora a loro sconosciuta, nonostante essa non faccia nulla di speciale per ottenerla e continui come in convento a essere meno attiva e assidua di altre nelle cure offerte.

Come nelle settimane delle apparizioni alla grotta, anche qui il dato più appariscente e potente è il suo impatto sugli altri: c’è un quid misterioso che accade e si mostra quasi suo malgrado. Suor Vanzous tocca con mano il fatto che Bernadette sa incantare le persone che incontra, pur nella sua pochezza, e che permane in lei quel potere di trasformare le anime che molti avevano avvertito a Massabielle. Questa consapevolezza, maturata in una vicinanza di anni e attraverso una quantità di dubbi, fa piano piano deragliare il suo tragitto dai binari consueti e capovolge dentro di lei le polarità stesse del rapporto: si rende conto di essere adesso lei la scolara di quella strana allieva, e forse di essere stata sempre, seppure inconsapevolmente, a scuola dall’altra. Nel momento del trapasso di Bernadette avverte nella stanza la presenza del Trascendente, viva come mai le era capitato di percepire.

Bernadette Soubirou muore nel 1879, il mercoledì Santo, a 35 anni, nel monastero di Nevers dove era arrivata ventenne. Al parroco Marie-Dominique Peyramale, che lei aveva fatto chiamare al proprio capezzale, consegna la sua verità di sempre, quella di aver visto la Signora, di averla vista davvero. Nel manifestare al decano l’assillante preoccupazione di tornare a vederLa, gli esprime un bilancio consuntivo della propria esistenza, ricca più di gioie che di dolori. È in agonia, ma il momento della morte è un ulteriore stato di estasi, nel quale torna la Dolcissima che ha tanto amato e atteso. Attraverso lo sguardo bello, estatico, rapito di Bernadette, le suore intorno a lei percepiscono la presenza viva della Beatissima nella stanza. J’aime! Amo! Ti amo!, sono le ultime sue parole.


[1] Franz Werfel, Il canto di Bernadette, trad. it. di Remo Costanzi, Carlo Gallucci, Roma 2011 (Ed. originale: Das Lied von Bernadette, Barman-Fischer Verlag, Stoccolma 1941).

[2] In Luisa Muraro, Le amiche di Dio, M. D’Auria Editore, Napoli 2001.

[3] Aqueró – parola del dialetto locale che significa alla lettera “quella là”, e cioè quella, lei – è il termine con cui Bernadette nomina, nei verbali dei vari interrogatori, la figura che le appare alla grotta, sempre sottolineando una bellezza e dolcezza al di là delle possibilità umane.

[4] Ernesto De Martino, Il mondo magico, Boringhieri, Torino 1973.

[5] Nell’illuminante capitolo “La parola, dono della madre”, Luisa Muraro affronta questo nodo teorico, interloquendo con W. Winnicott, J. Kristeva e J. Lacan, a proposito dell’esperienza preverbale. Partendo dall’assunto teorico di Kristeva – che nella Rivoluzione del linguaggio poetico chiama semiotico l’ambito che concerne il rapporto originario del bambino con la madre e che precede l’ordine simbolico, riconoscendogli così la qualità di mondo di segni – Muraro prosegue sulla strada aperta dalla psicoanalista francese, per riconoscere però elementi simbolici anche a quello che corre tra la madre e la creatura in questa fase. Punto di partenza di Muraro è  la constatazione che è in genere la madre a insegnare a parlare. In Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma, 1991 pp.37-51.

[6] F. Werfel, Il canto di Bernadette, op. cit., p.346.

[7] È necessario precisare che le diocesi francesi – in linea con le linee governative tese a potenziare la lingua nazionale per contrastare l’analfabetismo – avevano deciso in quei decenni che il catechismo fosse fatto in francese, saltando i dialetti locali. Per Bernadette, che aveva scarsa dimestichezza col francese, l’unico approccio alla religione era stato quindi quello avuto in famiglia. I genitori erano stati infatti istruiti, in fatto di religione, dalle predicazioni che avvenivano un tempo nei dialetti locali, e avevano poi la consuetudine, come molte famiglie del tempo, della recita serale del rosario in latino.

[8] Si veda, su questo, Elvio Fachinelli, La mente estatica,  Adelphi, Milano 1989.