Mi manca e basta
Chiudo il Grande seminario dal titolo: L’irrinunciabile. Personalmente credo che quando si arriva alla fine di un percorso in cui abbiamo pensato insieme e condiviso le nostre inquietudini rispetto al momento presente, la conclusione non esiste, piuttosto davanti a noi si apre una porta e lo spazio si allarga. C’è un presente, quello che vorremmo vivere dopo aver scrutato insieme alcuni aspetti della nostra vita. Per cui quello che dirò questa sera spero che serva per aprire; spero che ci serva per vivere intensamente anche nella quotidianità più assoluta.
I fili che intessono la trama e il senso profondo del mio intervento sono molto esperienziali, ma per me eloquenti perché hanno ispirato il mio pensiero e la mia scrittura. Il primo filo è la memoria di tutti quegli eventi che sono per me “materni”, cioè che mi hanno concepito e mi hanno fatto nascere. Mi piace dire che sono nata tante volte e continuo a nascere. Uno di questi eventi è il femminismo, non come ideologia ma come relazione con altre donne, è uno degli eventi più preziosi. Ma tutte le volte che mi lascio nascere, imparo dei bisogni nuovi. Questo per me significa che la politica è vera solo in contesto, ma di questo dirò qualcosa in seguito.
Nella memoria di questi eventi che sono per me materni, ho ricordato ciò che mi aveva insegnato mia madre. Mia madre mi insegnò il bisogno della bellezza; non come paradigma da imitare ma come qualcosa da creare. Bellezza creata da noi: da me, da mia madre e mio padre, dalle mie sorelle e da mio fratello. Dunque, dentro di me, negli spazi dove dovevo vivere, nel mio modo di essere, nel modo di stare al mondo e anche nel modo di amare. La bellezza in casa mia era un bisogno primario, ripeto non si trattava della bellezza della moda, che altri ti impongono, ma della bellezza amata, voluta, da creare appunto.
Anche la mia pratica politica in questo senso è stata segnata dalla ricerca della bellezza. Mia madre mi insegnò questa pratica: tutto aveva bisogno di essere bello, ma non solo: mi insegnò anche che ciò che non era bello lo poteva diventare: questa era la sua fede. Detto con parole di Maestro Eckart, mi insegnò “l’eleganza dello spirito” e io dico: il bisogno dell’eleganza dello spirito. (la gentilezza amorevole si direbbe nelle tradizioni dell’Asia). Ma c’è un altro bisogno che imparai in casa mia: il bisogno di amare, cioè il bisogno che, nella vita, in tutto ciò che si faceva, ci doveva essere amore. Ultimamente ho letto delle lettere che mia madre e mio padre si scambiavano quando lui era prigioniero, siamo durante la Seconda guerra mondiale. Leggendole cercavo qualcosa di politico, sono tantissime, ma in nessuna si parla di politica. Si ricorda la situazione di sofferenza dell’Italia ma, il tema principale è l’amore tra loro due, in quel momento amore lontano. Giustificai questa assenza di politica pensando che certamente non si poteva. Ma penso anche che se ci fosse stata la possibilità e pur essendo tutti e due molto attenti a questo tema in quella situazione solo Amore (o come dice Margherita Porete: Dama Amore), poteva sopravvivere e aiutare a vivere. Questo aspetto mi ha fatto molto pensare e scoprire che Amore è uno degli irrinunciabili bisogni che tutti gli esseri creati percepiscono e che tutte le donne sentono. Io l’avevo sempre chiamato giustizia, ma compresi che Amore viene prima della giustizia e noi donne lo sappiamo, tutte le donne lo sanno, dalle più intellettuali, alle più ricche alle più semplici delle periferie del mondo.
C’è un’altra nascita che mi insegnò un altro bisogno. Mi riferisco alla mia vita in Bolivia. Qui imparai che sono veri bisogni quelli che si assaporano, si gustano, non si consumano. Metto l’accento sul gustarli -anche perché nel nostro mondo si usa un altro termine, molto più povero e consumistico: soddisfarli – ma in Bolivia mi insegnarono a gustarli e questo moltiplica vita. In questo caso i bisogni non hanno niente a che vedere con quelli indotti dal sistema che, contrariamente ai primi, sono destinati ad appagarsi e per questo a moltiplicarsi all’infinito, obbedendo così al mondo della finanza mondiale che si regge sui nostri illimitati consumi. I bisogni gustati sono altri e sempre essenziali, ma questa loro essenzialità porta alla ricerca della bellezza e della festa. Qui imparai che i bisogni sono sempre in relazione con lo star bene, il Sumak Kawsay “el buen vivir”, il vivere buono, bello, che è stato il tema che ispirò il processo politico del popolo boliviano. Sentirsi bene, ma anche gustare, ma anche trovare bellezza e fare tutto questo con la Terra. Il Suma Kawsay, seguendo l’interpretazione letteraria, sarebbe la vita nella sua pienezza e abbondanza. Io direi: il sentire gioioso dell’anima corporea. In termini politici si riferisce alle relazioni: tra persone e con l’ambiente, è la vita stessa, una mescolanza di pratiche perché non manchi la vita.

Allora lì imparai che tutta la vita si dipana attorno a questo buen vivir. I bisogni essenziali sono intimamente uniti alla felicità, per esempio. Lì compresi che la separazione teorica tra i bisogni essenziali e quelli profondi, che perdurano, non esiste. La felicità è bisogno dell’anima corporea e per questo diventa bisogno politico. È tutto intrecciato. chi cerca acqua per dissetarsi quando la trova sta bene e fa festa e nella festa si consola, gioisce; con la festa si raggiunge la pienezza. E alla festa si partecipa prendendosi cura della bellezza: ci si veste bene, si prepara il luogo perché sia bello, ecc. In quei luoghi con quelle persone mi risuonarono molto vere le parole della poesia di Emily Dickinson: F93 (1859) / J135 (1859)
L’acqua è insegnata dalla sete.
La terra – dagli oceani traversati.
Il trasporto – dallo spasimo – (o dall’angustia come traduce Maria Milagros G.)
La pace – dai suoi racconti di battaglie –
L’amore, dalla memoria di un ritratto –
Gli uccelli, dalla neve.
Nel dire “è insegnata” ci trovo la forza del legame con la vita. Qui imparai il bisogno della festa, che veniva però dal bisogno dell’acqua che non c’era, dal bisogno di libertà per gestire quell’acqua che non c’era e, della vita tutta, nella sua interezza. Non penso dunque, che si possa intendere il bisogno disgiunto dalla festa che è sempre condivisa, ma anche dalla vita, appunto, tutta intera.
Dunque, se ripenso a tutto questo a queste nascite, e ad altro ancora, mi rendo conto che la mia vita è profondamente segnata dai bisogni. Mi rendo conto, per esempio, che tutta la mia vita, l’ho dedicata al bisogno dell’anima corporea. Questo bisogno si muove in me tra il sentire Presenza Divina e assenza. Ho bisogno di presenza e studio e mi dedico politicamente a pensare alla vita e a condividere il mio pensare che fa parte della mia stessa vita, ma nello stesso tempo sento forte l’assenza. Ho bisogno, dunque, di rendere reale questa Presenza e mi do da fare; da quando mi sveglio a quando mi addormento la mia domanda è: perché non ci sei? Perché non ci sei in queste situazioni di disperazione umana, perché non sei con me nell’ispirazione, perché come canta un Salmo: non fai ritornare i prigionieri (cfr. Sl 126). Questi sono bisogni dell’anima corporea. E tutta la mia vita in qualche modo è dedicata a questi bisogni. Ma ho imparato anche quanti inganni in questa pratica di vita, quante false e inutili mistificazioni da parte di chi pensa di comandare sulla nostalgia amorosa delle donne. Quanta violenza su questi bisogni dell’anima corporea, da parte della chiesa ufficiale per esempio che, appunto, ha cercato di mistificare tutto per cancellare ogni bisogno e rimandare tutto a quel “paradiso” che non è quello di Emily Dickinson che ha un gusto e un profumo dolcissimo di umanissima vita, ma un paradiso che sembra la negazione totale di questi miei bisogni. Per fortuna molte donne e alcuni uomini nel corso della storia hanno disobbedito a queste squallide visioni.
Con queste premesse vi spiego il titolo che secondo me è la sintesi più bella del mio sentire, anche perché questa esclamazione nasce dall’esperienza di Assenza e di Presenza, allo stesso tempo. Con questa esclamazione o affermazione, spero possiate comprendere quello che io non riesco a spiegarvi. “Mi manca e basta” è una sintesi, che in qualche modo chiude, perché spiega con le parole un sentire. Percepisco in questo titolo una forza particolare, un’autorevolezza solenne. I bisogni passano per questa mancanza sentita, non si discutono e quando sono veri non si possono barattare con niente e nessuno.
Il titolo nasce dalla lettura del carteggio tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West, in una raccolta di lettere, curata da Elena Munafò con un saggio di Nadia Fusini. In una lettera appunto, d’amore e desiderio, scritta nel 1926 a Milano e spedita da Trieste, Vita scrive a Virginia: mi manchi e basta, in un modo piuttosto semplice, disperato, umano.[1] Leggendo queste parole non le ho comprese intellettualmente, ma le ho sentite profondamente e ho intuito che questa era la spiegazione più bella degli irrinunciabili bisogni. In queste parole c’è tutto: l’urgenza, perché il bisogno non è un sovrappiù, ma si sente nell’assenza, in modo -come scrive Vita a Virginia- semplice, ma anche disperato, cioè si percepisce nel limite più assoluto, quando non ce la fai più. Mi sollevò dalle grandi acque, […] mi portò al largo, mi liberò perché sente amore per me. (cfr. Sal 18, 17.20) dice un salmo ebraico. Uso questo testo non perché fa parte della mia tradizione e della mia vita, ma perché è una lingua poetica e solo la poetica può dire cosa si sente nell’assenza, nel vuoto. Il bisogno è umanissimo e per questo divino. L’irrinunciabile bisogno si dà nel delicato sentire amore: amore per altre, altri; amore per la vita, la propria vita e quella di altre e altri, amore per ciò che è irrinunciabile.
Questi “sentiri”, per usare l’espressione di Milagros Rivera Garretas, spiegano cos’è un vero bisogno: mi manchi in modo semplice, disperato, umano. Semplice significa essenziale, disperato significa sentire il limite più assoluto come se tutto dovesse finire e umano, cioè umanissimo, significa che è nostro non è inventato da altri, dalla cultura del momento con i suoi surrogati, dalla religione, dalle ideologie. È mio, è nostro e basta, lo posso sentire anche se forse non riesco a dirlo. Noi donne dobbiamo sentire e sapere questi bisogni, conoscerli nel senso del sapere latino, gustare questi bisogni, altrimenti la nostra politica è vana. Le donne nel corso della storia fino ad oggi, hanno saputo raccontare questi bisogni, non hanno vergogna e provano a dirli. Qui vedete che l’amore, il sentire amore-assenza si fonde insieme con il sentire politico, che può essere solo sentire.
E qui viene l’ultima parte: il sentire politico. Prima di tutto mantenere questa lingua plurale, perché è lingua della differenza. Mi riferisco a bisogni e non al bisogno e, preferisco il plurale, perché la vita ha infiniti interstizi nel suo sentire profondo e anche più in superfice e i bisogni si inseriscono in queste fenditure. Bisogno, al singolare, è invece quello della soddisfazione immediata, il surrogato, come alcune di voi l’hanno già definito nelle precedenti riflessioni. Il bisogno è quello che sostiene l’economia mondiale come ho detto sopra, e quindi ha bisogno di essere moltiplicato. È legato alla produzione e al consumo. Ma non mi soffermerò su un’analisi di questo aspetto. Piuttosto mi vorrei soffermare su quelli che chiamo “passi di danza libera nella politica delle donne”. Anche questo modo di chiamare le nostre pratiche politiche l’ho ricevuto come ispirazione da un libro che ho trovato, se così si può dire, dentro un altro libro. Ero in casa, durante il lock down, stavo cercando un libro nella biblioteca della casa; tardavo nel trovarlo e a un certo punto mentre scrutavo una delle librerie, in un angolo, proprio alla fine di una fila di libri, riuscii a leggere appena questo titolo: “Lettere dalla danza” di Isadora Duncan.[2] Dentro di me dissi: bello che cosa sarà e l’ho preso. Bene, questo libro mi ha fatto tanta compagnia, l’ho letto e riletto e studiato. Non sapevo ancora di dover chiudere il Grande Seminario e non sapevo del tema, ma questo libro mi ha ispirato.
Considero la politica, per come la conosciamo oggi, una forzatura sulla natura e su tutti quegli esseri umani donne e uomini, che sono più vicini alla natura. Per cui, oggi come oggi, ritrovare fascino e ispirazione nell’ambito sociopolitico, è difficile e arduo, ma bello. Dunque, va cercata un’altra via e cercare è già pratica politica, mentre tradiamo la vita, quando non cerchiamo più e quando non aspettiamo più la visita dell’ispirazione. Considero che ogni grande seminario è una pratica politica, proprio perché ci mette nella situazione di ricercare, ma certamente non la politica che abbiamo sempre conosciuto e nemmeno quella che conosciamo oggi. La politica ad immagine e somiglianzadegli uomini e dunque la politica che ha pattato con il patriarcato e con tutte le istituzioni che lo difendono. Questo modello di politica inventa bisogni contrari alla natura: quello del potere, quello del sovrappiù e dell’accumulo che considero la cosa più deleteria per l’umanità e il Pianeta. In questo fare politico, ci sono bisogni che si soddisfiamo a scapito di altre e altri e anche, o forse soprattutto, a scapito della natura. Allora qui per me c’è stata l’ispirazione che riguarda i “passi di danza libera”.

La danza è per me una allegoria per dirvi un’altra cosa che, come ho detto, hoimparata da Isadora Duncan, la madre della danza moderna. Libera danza per me significa altre pratiche politiche, lontane da modelli ideologici che anche quando ci sono sembrati veri si rivelarono comunque patriarcali e noi donne lo sappiamo perché da sempre abbiamo dovuto cercare e inventare un’altra cosa. Il primo aspetto interessante che ho tratto da questo libro e chi mi serve per la forza metaforica che contiene è il seguente: non si danza sottomesse a schemi particolari, ma ci si deve muovere con un senso di piacere e bellezza. La politica attuale disattende la vita nelle sue più intime trame che, invece, secondo il pensiero e la pratica delle donne, sono quelle che ci hanno salvato e che ci interessano per vivere il presente e pensare il futuro. Ma questa lettura critica la voglio fare con le parole di Isadora Duncan: Ci rendiamo conto che il movimento proprio della sua natura rimane esternamente aderente ad essa. Il movimento degli animali in libertà e degli uccelli corrisponde sempre alla loro natura, ai bisogni e ai desideri di essa, e all’armonia che essa ha con la terra. Solo quando si impongono restrizioni artificiali a degli animali liberi, questi perdono la facoltà di muoversi in accordo con la natura e assumono movimenti che sono espressione delle limitazioni loro imposte.[3] Io tradurrei natura con il sentire profondo; la politica attuale non ha anima corporea e nemmeno la riconosce, per cui le sue pratiche rispecchiano questo tentativo di separarci dalla profondità per poterci istruire su come muoverci. Continua Isadora Duncan: L’odierna scuola di balletto, lottando inutilmente contro le leggi naturali della gravità o contro la volontà naturale dell’individuo, ed operando nel suo movimento e nella sua forma in disaccordo con la natura, produce un movimento sterile che non genera movimenti futuri, ma che muore appena compiuto. E ancora: […] a tutti coloro che, ciononostante, per ragioni storiche, coreografiche o altre, apprezzano questi movimenti, io dico che non sanno vedere al di là dei tutù e delle maglie. Guardate invece: sotto i tutù e le maglie danzano muscoli deformati. E guardate poi ancora più a fondo. Sotto i muscoli ci sono ossa deformate. […] Il balletto si condanna da solo perché impone la deformazione del corpo meraviglioso della donna! Nessuna ragione storica o coreografica può avere la meglio contro questo argomento![4]
Mi sembra che questa critica, si possa assumere e per questo la propongo come il primo passo di una possibile “danza nuova”.

Ma quali sono per me altri passi? Solo la mistica ce li possa suggerire. So benissimo che darò un esempio che suona quasi come un paradosso, ma in questo momento storico non ne vedo altri e ho fiducia, perché questi consigli ci vengono dalle nostre madri nella speranza. Mi servo del testo “La luce fluente della divinità” di Matilde di Magdeburgo: … devi stare sola, non devi andare da nessuno.[5] Questo mi sembra l’irrinunciabile nella pratica politica delle donne. per poter abbandonare ciò che non serve, perché non è essenziale e non ha profondità. Il femminismo ci ha fatto stare in piedi da sole e allo stesso tempo ci ha messo insieme, ma nessuna di noi ha tradito se stessa e ciò che aveva imparato da altre donne “sole”.
C’è un altro aspetto mistico irrinunciabile: uscire da sé. Uscire da sé è l’antico adagio di Teresa d’Avila: il vivere fuori di sé è condizione necessaria per una pratica politica delle relazioni e -come direbbe Maria Zambrano – per prendere il volo. Non possiamo continuare a vivere senza uscire da noi stesse e, insieme a questo irrinunciabile c’è anche il sentire profondo che ispira pensiero e parola e, su questo, resteremo radicate, ferme: non andremo da nessuno!

Irrinunciabile sono per noi le relazioni senza uccidere solitudini, l’irrinunciabile è il corpo e la sua cura così da restare sole se qualche ideologia vuole venderlo. Irrinunciabile sono le altre, tutte, tutte coloro che sono nostre contemporanee, fuori e dentro l’università, quelle donne da cui impariamo a stare sole e a non andare da nessuno. E questa è la nostra irrinunciabile libertà femminile.
Irrinunciabile è diventare capaci di rispondere per altre e altri: diventare capaci di articolare una risposta accanto a chi, della nostra specie, è troppo sicuro di sé e del mondo. Questi tempi confusi e inquieti traboccano di dolore e di gioia, hanno degli schemi assai ingiusti di dolore e di gioia, in cui assistiamo non solo alla morte cruenta e superflua dell’esistere e del progredire, ma anche a una necessaria rinascita. L’obiettivo è generare parentele – fare kin – attraverso delle connessioni inventive, pratica necessaria per imparare a vivere e morire bene, l’uno con l’altro, in un presente così denso.[6]
L’irrinunciabile è la compagnia di altre donne, metterci insieme non per essere forti, non perché dobbiamo contrastare chissà quale potere, ma solo per il gusto di stare insieme, un gusto che l’umanità purtroppo ha perso o, quando ci sta’, lo fa sempre con uno scopo: per affari, per contratti anche matrimoniali, per trovare chissà quali estasi o guadagni. La nostra politica non è questa.Noi ci stiamo perché: Mi manchi e basta; è un sentire semplice e umanissimo. Concludo con le parole che Cristiana Campo scriveva a Maria Zambrano: Se tu fossi qui diremmo l’angelus. Questo è l’irrinunciabile per una vera passione politica: se tu fossi qui! Forse a molte non interessa dire l’angelus, ma sì: che tu sia qui. E, tutte le volte che diciamo mi manchi o se tu fossi qui viviamo e pensiamo gli irrinunciabili bisogni.
[1] Virginia Woolf-Vita Sackville-West, Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio. A cura di Elena Munafò, Donzelli Editore, Roma 2019, p. 63.
[2] Isadora Duncan, Lettere dalla danza, a cura di Chiara Bertotti, La casa Usher cooperativa editoriale, Firenze 1980.
[3] Isadora Duncan, Ibid. p. 18.
[4] Isadora Duncan, Ibid. pp. 20-21
[5] Mechthild von Magdeburg, La luce fluente della Divinità, Giunti, Firenze 1981, libro I, I,35, p. 48.
[6] Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Produzioni Nero Editore, Roma 2019, p. 84.