diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 1 - 2003

La guerra dei mondi

Meglio un uovo oggi…

“L’uovo è una cosa che deve fare attenzione. Per questo la gallina è il travestimento dell’uovo. Per questo è madre. L’uovo vive esule per essere sempre troppo in anticipo per i suoi tempi: lui è più che attuale, lui è nel futuro. L’uovo pertanto sarà sempre rivoluzionario.”

(Clarice Lispector, Attualità dell’uovo e della gallina)

 

 

C’è un uovo sulla copertina di Approfittare dell’assenza: la scultura, di Mirella Bentivoglio, lo mostra tra le pagine di un libro aperto, si leggono le parole l’espace d’un matin.

Quell’immagine già mi aveva colpita nel momento in cui la abbiamo scelta, ma mi è parsa ancor più opportuna dopo le prime discussioni sul libro di Diotima, quando è venuto più in chiaro come il senso preminente che emergeva dalle pagine del libro era quello di un tempo della politica vissuto nell’esperienza femminile, nella sua intermittenza storica, come espressione di desiderio, forza sorgiva, di fecondità natale, capacità di fare mondo al presente, seme di libertà, felicità di esserci, leggerezza dell’impermanenza. Evento di tempo politico non subordinato alla progettualità che funzionalizza il presente al futuro, i mezzi al fine, la singolarità all’universale, l’essere al dover essere, senza aver sempre l’affanno e la preoccupazione di rendersi visibili, di durare, di fissarsi, codificarsi, di rappresentarsi, di istituzionalizzarsi.

Accade che quando si ha un’immagine o un pensiero per la mente improvvisamente questi vengano incontro da ogni dove. Senza contare che l’uovo come simbolo ha una quantità di manifestazioni e lo si trova ovunque, altre uova mi sono poi balzate fuori dalle pagine di un libro. Anzi di due libri che leggevo nello stesso tempo e che hanno preso a dialogare alle mie orecchie tra loro, catalizzandosi proprio attorno a delle uova.

I due libri sono le recenti traduzioni de Il soggetto scabroso di Slavoj Zizek[1], e il secondo volume dell’ Archivio Arendt che raccoglie scritti dal 1950 al 1954[2]. In quest’ultimo le uova hanno decisamente un ruolo da protagoniste, la raccolta comprende infatti un saggio famoso: Le uova alzano la voce. Nel volume di Zizek fanno invece una comparsa breve, ma a mio giudizio folgorante per la luce che gettano sull’intento del massiccio libro e dell’autore.

 

Arendt scrisse il saggio tra il 1950 e il 1951, un periodo che la vedeva impegnata soprattutto alla riflessione sul totalitarismo, ed anche qui esso costituisce il punto di partenza dello scritto che apre interrogandosi sullo strano e sospetto fenomeno della popolarità del termine in paesi niente affatto totalitari, ma dove c’è una grande insistenza, sovente propagandistica, sull’antitotalitarismo. Il fenomeno può avere una spiegazione, per Arendt, se si è convinti che il totalitarismo sia “la questione politica cruciale della nostra epoca”, il male maggiore della politica, convinzione per lei sacrosanta ma nella quale avverte un pericolo: “i problemi nascono quando si giunge alla conclusione che non vale la pena di combattere nessun altro “male minore”.”. Qui si innesta la sua argomentazione principale ovvero il nesso strettissimo, che la storia si è incaricata di dimostrare, tra male minore e male peggiore, al punto da farle affermare che se ne dovrebbe trarre la conclusione dell’opportunità di negare radicalmente in politica il concetto di male minore “poiché, lungi dal proteggerci dai mali maggiori, i mali minori ci hanno invariabilmente condotto ai primi”.

Il discorso va poi sull’esperienza sovietica e su Stalin, ed è che qui vengono introdotte le uova:

 

“Egli trasformò la vecchia convinzione politica, e in special modo rivoluzionaria, espressa dal detto popolare che “non si può fare una frittata senza rompere le uova” nel dogma vero e proprio: “non puoi rompere le uova senza fare una frittata”. Questo, di fatto, è il risultato pratico del solo contributo originale fornito da Stalin alla teoria socialista. Reinterpretando la dottrina marxista, egli proclamò che lo “stato socialista” deve anzitutto diventare sempre più forte per poi “scomparire” improvvisamente, in un lontano futuro – come se a furia di rompere uova su uova dovesse improvvisamente e automaticamente prodursi la frittata desiderata”[3]

 

Non si tratta di un esempio estemporaneo, non solo Arendt lo userà più e più volte, e in passaggi importanti, ma si preoccupa di giustificarne la pertinenza filosofica, arrivando a metterlo al centro di quella che sarà una delle tesi centrali di Vita activa e più in generale del suo pensiero politico: la fallace sostituzione del fare all’agire nel pensare la politica e l’inappropriatezza per quest’ultima del modello della strumentalità e della logica mezzi-fini:

 

“proverbi come “non si può fare una frittata senza rompere le uova” debbono il loro generale prestigio nel senso comune al fatto che rappresentano, quantunque in forma volgare, un distillato del pensiero filosofico occidentale. La loro saggezza, come il loro immaginario, discende dall’esperienza della fabbricazione tipica dell’umanità occidentale: non puoi fare un tavolo senza uccidere un albero. La loro saggezza è assai dubbia anche quando viene applicata in generale all’interazione tra uomo e natura; può sfociare, come molto spesso è accaduto, nell’erronea interpretazione di tutte le cose date in natura come mero materiale per l’artificio umano- come se gli alberi non fossero altro che legno potenziale, materiale per costruire tavoli. L’elemento di distruzione insito in ogni attività puramente tecnica diventa nondimeno preminente non appena le idee sottese e la sua mentalità vengono applicate all’attività politica, all’azione o agli eventi storici, o a qualsiasi altra interazione tra l’uomo e l’uomo. “[4]

 

Il proverbio “non si può fare una frittata senza rompere le uova” rappresenta, insomma, per Arendt quasi il motto implicito di una visione della politica che stigmatizza e che combatte lungo tutto il suo itinerario filosofico. Quella che vede la sfera della politica non come spazio aperto e pubblico dell’agire di concerto, dimensione della libertà, della pluralità, del senso, ma piuttosto come territorio dell’homo faber che immagina di fare la storia come Dio fa la natura, o come il vasaio il vaso, luogo del dominio e del governo, della strumentalità distruttiva della forza e financo della violenza giustificate da raggiungimento dello scopo.

Come dirà anni dopo in Vita activa, tornando ancora alle uova:

 

“Quanto  duraturo sia stato il successo del tentativo  di trasformare  l’agire in una modalità del “fare”, è agevolmente attestato dall’intera terminologia della teoria politica e del pensiero politico, che rendono quasi impossibile discutere tali questioni senza usare la categoria dei mezzi e dei fini e pensare in termini di strumentalità. Forse ancora più convincente è l’unanimità con cui i proverbi popolari in tutte le lingue moderne ci segnalano che “il fine giustifica i mezzi” e che “non si può fare una frittata senza rompere le uova” (…)  Fin quando crederemo che nella sfera politica si abbia a che fare con mezzi e fini, non riusciremo a impedire a nessuno di usare tutti i mezzi per perseguire dei fini riconosciuti.”[5]

 

E’ un modo di pensare diffuso sia nella tradizione sia nel senso comune, ma totalmente fuorviato e pericoloso, giudica Arendt che ne vede la radice in Platone, ma che riconosce dominante nella modernità e soprattutto nel pensiero rivoluzionario e poi marxista[6]. Lo stesso esempio ricompare infatti nel saggio Gli ex comunisti, nella stessa raccolta, dove il proverbio è apertamente considerato equivalente al principio che il fine giustifica i mezzi:

 

“Il fine, ci viene detto, giustifica i mezzi. Non si può fare una frittata senza rompere le uova. E’ il fine che determina i mezzi. Nonostante la sua evidente fallacia, la tesi che il fine giustifica i mezzi esercita un fascino pericoloso su di noi, perché è profondamente radicata in tutta la nostra tradizione di pensiero politico. (…) Se ci ostiniamo ad applicare la categoria di mezzi  e fine all’azione e alle relazioni umane non potremo che assistere a un capovolgimento generale.”[7]

 

Ciò che questa maniera di pensare, apparentemente verosimile, trascura è la differenza tra la sfera del “fare” inteso come fabbricazione di manufatti, attività strumentale volta a un fine, e la sfera del “fare” inteso come azione nelle relazioni umane, nel linguaggio e nel mondo del senso. Sfera intrinsecamente imprevedibile e fragile perché è mondo comune dove agisce la libertà, facoltà legata alla natalità, e perché è la dimensione della pluralità. Qui non è possibile avere il controllo delle conseguenze del nostro agire, che è sempre portare nel mondo un inizio che darà a origine a una storia agita con altri, e della quale non è possibile conoscere la fine: quindi la storia ha “molti inizi ma nessuna fine”. Non siamo artefici, o autori della storia, ma solo suoi attori, così che :

 

“L’idea di poter fare qualcosa di più che agire per e nel presente (l’idea cioè di poter fare il futuro) implica due errori fondamentali: che io conosca il fine, e che possa quindi decidere liberamente sui mezzi, e che io sappia che cosa sto facendo quando agisco, non diversamente da come so che cosa faccio quando fabbrico delle cose.”[8]

 

L’azione non ha fine, e in un duplice senso: da una parte essa si inserisce in una rete plurale di relazioni umane che la rende imprevedibile nel suo esito finale per chi la intraprende, dall’altra essa non ha un fine fuori di sé perché, proprio per questo suo carattere di imprevedibilità e pluralità, essa porta già sempre con sé il suo fine.

Fallace, quindi, e in un senso letterale legato alla strumentalità, scindere l’azione dal suo presunto fine esternalizzandolo e proiettandolo in un futuro altro luogo-tempo rispetto al quale l’azione stessa assumerebbe il carattere di mezzo da giudicare sulla misura della propria funzionalità al fine. Nell’azione il fine coincide con l’attività stessa, e in definitiva sarebbe opportuno ricordare l’avvertimento che:

 

“Nell’azione, rompere le uova non porta mai a nulla di più interessante che al semplice rompere le uova. Il risultato è identico all’attività stessa: uova rotte, non una frittata.”[9]

 

Arendt conclude lo scritto chiedendosi se esista un principio che esprima una visione opposta a quella del proverbio sulle uova. Niente con la stessa forza di un detto popolare, è costretta a evocare un “detto” singolare e ben poco popolare:

 

“In effetti c’è solo un principio che enuncia con la stessa implacabile chiarezza di quello secondo cui “non si può fare una frittata senza rompere le uova” la massima diametralmente opposta dell’azione politica. Venne formulato quasi per caso in un’unica frase da uno degli uomini più solitari della generazione, Georges Clemenceau, quando esclamò improvvisamente durante la sua battaglia nell’affare Dreyfus: “L’affaire d’un seul est l’affaire de tous” (“l’affare di uno è affare di tutti”).”

 

Dare voce alle ragioni delle uova è insomma atto massimamente politico di contro a chi vede come massima del politico le ragioni della frittata. Costoro dimenticano, o piuttosto vogliono dimenticare, che solo nell’interesse della produzione dell’umana colazione le uova servono come mezzi per fare una frittata, e che l’umana condizione non è riducibile ad una colazione né assimilabile a mezzo per alcuna superiore frittata.

Risuona sicuramente in questa posizione di Arendt l’eco del kantiano imperativo “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”[10], come pure pare kantiana l’insistenza a non confondere l’ordine della causalità che regge la fabbricazione e quello della libertà che informa l’azione. Ma al fondo del pensare che “non si può fare una frittata senza rompere le uova” possa essere applicato alle faccende umane, alla politica, alla storia sta anche un’altra confusione, la cui eco è piuttosto aristotelica: quella di assimilarle a un processo naturale. Se si può dire che le uova possono diventare una frittata, ciò non significa affatto che le uova siano potenziali frittate, né tantomeno frittate in potenza. In potenza sono casomai polli e galline, e se seguendo Aristotele ricordiamo che l’atto è prioritario rispetto alla potenza, cioè che perlomeno bisogna sapere della gallina per giudicare un uovo come una “gallina in potenza”, va detto che non sappiamo affatto se e quale gallina l’uovo della nostra azione genererà: non si tratta di un processo di generazione, l’atto, l’essere compiuto, non è conoscibile in anticipo come non lo è che fine avrà l’agire.

Quell’altro proverbio che dice “meglio un uovo oggi che una gallina domani” non è meno improntato all’umana colazione, ma almeno registra una circostanza che vale ancor più per il mondo dell’agire umano che per quello del destino dei polli: tra il passato, il presente e il futuro c’è sempre, a impedire che l’uno passi nell’altro in tranquilla e prevedibile continuità, un salto che può essere del caso in natura, ma nel mondo umano è l’abisso della libertà, e l’imprevedibilità dell’agire plurale. Da ciò la preoccupazione arendtiana circa l’idea che in politica si creda di “poter fare qualcosa di più che agire per e nel presente”, immaginando di “fare il futuro” come se si trattasse di qualcosa che sta solo nelle nostre mani.

Era convinzione di Hannah Arendt che la tradizione marxista fosse, per ciò che riguarda questa concezione strumentale della politica, del tutto congruente con il modello della moderna sostituzione del fare all’agire, e che anzi portasse a questa pericolosa visione un ulteriore aggravamento carico di responsabilità. In ciò uno dei motivi della scarsa simpatia, quando non ostilità, di chi a quella tradizione si richiama per l’idea che della politica ha Arendt. La stessa nota critica che le mosse Habermas di sottovalutare nel guardare alla politica “l’agire strategico” altro non è, in fondo, se non la difesa del valore della chiave della strumentalità per la comprensione dei fenomeni politici[11].

Nei saggi citati a incarnare il vizio e il pericolo di questa visione nel marxismo è Stalin, alla cui esperienza sono legati gli ex-comunisti di cui parla, ma è trasparente come il suo discorso si estenda oltre, o meglio prima. L’allusione che “in un senso in gran parte morale, ma non solo morale, si potrebbe dire che è ancora il fantasma di Rosa Luxemburg ad assillare le coscienze degli ex-comunisti della generazione più vecchia”[12]  fa balenare piuttosto la figura di Lenin, vero antagonista della Luxemburg, della quale ricordo ebbe a dire in occasione della tragica morte, tanto per restare in campo avicolo: “un’aquila può spesso volare più basso di una gallina, ma questa non potrà mai volare più in alto di un’aquila. Rosa Luxemburg, nonostante i suoi errori (..) era e rimane un’aquila”.

E con Lenin arriviamo finalmente alle uova di Zizek.

 

Il suo Soggetto scabroso si presenta come un ponderoso Trattato di ontologia politica, ed effettivamente si tratta di un lavoro filosoficamente impegnativo, volto ad evocare “lo spettro del soggetto cartesiano” liberandolo dagli esorcismi che contro di lui ha scatenato la “santa alleanza” di “tutti i poteri accademici”, fatta, a detta di Zizek di oscurantisti New Age, decostruzionisti postmoderni, teorici habermasiani, heideggeriani, scienziati cognitivi, ecologisti radicali, critici (post)marxisti e, buone ultime, le femministe.

La battaglia è decisamente lunga e faticosa ma, bisogna ammettere, ben condotta. Non si può negare che Zizek meriti la fama di cui gode, guadagnata con libri e interventi brillanti[13], e non intendo certo cimentarmi qui nella disanima del testo. Mi limito ad approcciarlo dalla prospettiva delle uova.

Non è una prospettiva che possa sembrare molto promettente per affrontare un campo di battaglia così ampio e affollato come quello in cui combatte Zizek, ma insomma prenderla dal verso delle uova e della frittata può almeno metonimicamente consentire di cominciare a mettere i piedi nel piatto. Non è, comunque, che a prendere questa via di accesso si arrivi ai margini della battaglia, o magari solo alle cucine, tutt’altro, perché le uova per la frittata questa volta sono rotte da Lenin. E la figura di Lenin ricopre un ruolo del tutto centrale per Zizek, come dimostra il suo recente Tredici volte Lenin. Per sovvertire il fallimento del presente, come pure sua comparsa in snodi cruciali dei suoi scritti.

Per quanto concerne il Soggetto scabroso si potrebbe anche dire che il suo sforzo di evocare il fantasma del soggetto cartesiano sortisce, per la verità, l’effetto di convocare ancor più che lo spettro del comunismo, proprio quello di Lenin.

Come ci si arriva non è agevole riassumere. Una prima parte dedicata alla “notte del mondo” attraversa Kant (letto da Heidegger), ed Hegel, il tutto letto comunque attraverso l’impostazione lacaniana propria di Zizek. Segue un confronto con quattro esponenti della filosofia politica post-althusseriana protagonisti del dibattito contemporaneo: Laclau, Badiou, Balibar e Ranciere. A testimone della postmoderna difesa della proliferazione delle forme di soggettività viene poi considerata Judith Butler. A questo punto, essendo a p.391, Zizek si pone la questione “Quale futuro per Edipo?” in un’ultima parte fortemente politica dove le fila delle polemiche teoriche e politiche delle raffinate pagine precedenti, e del panorama delle posizioni dell’odierna sinistra e delle sue teste d’uovo, vengono tirate in una condanna di vacuità e inefficacia politica (“Si tratta di economia politica, stupido che non sei altro!” è il titolo di un capitolo) il cui analogo più prossimo potrebbe essere il leniniano L’estremismo, malattia infantile del comunismo. E in effetti il novello eroe cartesiano politicamente capace di assumere su di sè il il fardello dell’Atto politico, di contro agli scrupoli da anima bella, al fatuo utopismo, all’irenismo, all’inetto ribellismo movimentista, al complice multiculturalismo, e insomma, vien da sospettare, alla svirilizzazione della soggettività post-politica, post-moderna e femminista, è per l’appunto Lenin.

Il nucleo dell’eroica politica e filosofica grandezza di Lenin sta, comunque ancora una volta, nel saper fare la frittata. Denominata in francese come per ogni omelette che si rispetti passage à l’acte.

Conviene tornare indietro per capire di che cosa si tratti:

 

“Un autentico leninista e un conservatore hanno in comune il fatto di rifiutare ciò che si potrebbe definire l'”irresponsabilità” liberale di sinistra (sostenere grandi progetti di solidarietà, libertà e via dicendo, ma, al tempo stesso, sparire di colpo quando si deve pagarne il prezzo nella forma di misure politiche concrete e spesso “crudeli”): al pari di un conservatore autentico, un vero leninista non ha paura del passage à l’acte, non ha paura di accettare tutte le conseguenze, anche spiacevoli, derivanti dalla realizzazione del suo progetto. (…) un leninista, al pari di un conservatore, è autentico nel senso che accetta pienamente le conseguenze della sua scelta, ed è pienamente consapevole di ciò che significa realmente prendere il potere ed esercitarlo.”[14]

 

In altri termini un vero leninista sa assumere la responsabilità, anche in tempo di “caduta dell’efficacia simbolica” e proprio in nome della rivoluzione, simbolica e non, la posizione simbolica (e non?) del Padrone, il che è a dire in buona sostanza che sa che “non si può fare una frittata senza rompere le uova”:

 

“E’ questo l’altro aspetto cruciale della posizione del Padrone: egli non sfugge alla responsabilità di rompere le uova quando il popolo chiede una frittata, d’imporre misure impopolari ma necessarie. In breve, il Padrone è colui che rinuncia per sempre al diritto di reclamare “ma non lo volevo fare!” quando le cose vanno storte. Senza dubbio, questa posizione è in definitiva quella di un impostore: la sua padronanza è un’illusione; ciononostante, il fatto stesso che qualcuno sia pronto a occupare questo posto indifendibile/insostenibile ha un effetto pacificante sui suoi soggetti; possiamo indulgere nelle nostre futili richieste narcisistiche, ben consapevoli che il Padrone sta qui per garantire che l’intera struttura non crolli. L’eroismo di un Padrone autentico consiste proprio nella sua volontà di assumere questa posizione impossibile di responsabilità somma, e di prendere sulle proprie spalle l’adempimento di misure impopolari che prevengano la disintegrazione del sistema. Questa fu la grandezza di Lenin dopo che i bolscevichi presero il potere: a differenza del fervore rivoluzionario isterico intrappolato in un circolo vizioso, il fervore di quelli che preferiscono rimanere all’opposizione e (pubblicamente o segretamente) evitano il peso del prendere il controllo, del compiere il passaggio dall’attività sovversiva alla responsabilità del pacifico funzionamento dell’edificio sociale, egli accettò eroicamente il compito oneroso di guidare lo stato, di attuare tutti i compromessi necessari, per assicurarsi che il potere bolscevico non si disintegrasse.”[15]

 

E’ questo il nucleo che le varie posizioni della sinistra di tipo, per ricordare la lista di Zizek, post-althusseriane, post-politiche, movimentiste, femministe etc., non capiscono condannandosi alla tentazione impolitica:

 

“Contro tutte queste tentazioni, si dovrebbe insistere sul bisogno incondizionato di appoggiare pienamente l’atto con tutte le sue conseguenze. La fedeltà non può essere fedeltà ai principi traditi dalla fatticità contingente della loro realizzazione dei principi (rivoluzionari). All’interno dell’orizzonte di ciò che precede l’atto, l’atto appare sempre, e per definizione, come un cambiamento “dal Male al Peggio” (..) Il vero e proprio eroismo dell’atto sta nell’assumere pienamente questo Peggio.”[16]

 

Si è iniziato con il proverbio citato da Arendt come espressione della fallacia politica dell’eroismo dell’assunzione del “male minore”, si conclude con l’eroismo dell’assunzione della scelta dal Male al Peggio.

A questo punto non Che fare? ma Che dire?

Intanto che non nutro particolare simpatia politica e teorica, al pari di Zizek, per le suddette posizioni della sinistra, e che nemmeno sono propensa a fare una difesa femminista di Butler dal momento che simpatia politica non la provo poi tanto neanche per lei. Tuttavia che le conclusioni che Zizek finisce per tirare nella volontà di criticarle e di prenderne le distanze mi sembrano non tanto assumere la suddetta eroica scelta dal Male al Peggio, quanto più ordinariamente finire di male in peggio.

Si può anche concordare sul porre dalla parte del Male quelle posizioni teoriche e politiche che si trattengono nella posizione reattiva di una critica complementare e/o collusa, vuoi per inanità politica, vuoi per ribellismo, utopismo, sindrome da anima bella o simili, insomma proprio per un leniniano infantilismo politico che rifiuta di misurarsi con la realtà per salvaguardare un’immagine di sé grandiosa e integra tutta dalla parte del Bene. Resta, comunque, da vedere se imputazioni di tal fatta colpiscono effettivamente il cuore della “sinistra post-politica” accusata da Zizek, o se questi non manchi di cogliere proprio il cuore di un interrogarsi su un senso di politica tanto radicale e attuale da sollevare il sospetto che le obiezioni di Zizek possano persino risultare ormai pre-politiche. La difesa, insomma, di un’accezione di politica che è stata indubbiamente praticamente e simbolicamente dominante, ma che sta al presente proprio nel pieno di un conflitto simbolico e politico rispetto al quale tali obiezioni giocano, per così dire, in realtà una parte di resistenza conservativa che lungi dall’essere, come Zizek pretende, realmente rivoluzionaria, non riconosce neppure la possibilità di una rivoluzione simbolica, tantomeno di una in corso.

E posso anche concordare, lo ho visto in quella politica delle donne che non a caso si è detta politica del simbolico, sul fatto che un agire politico che realmente rompa la gabbia d’acciaio dell’ordine simbolico vigente, che abbia i tratti dell’Atto simbolico di cui parla Zizek, possa apparire, nell’incastro della sua logica, un passaggio dal Male in Peggio, ma solo sulla misura dell’ordine esistente che rivoluziona, ponendosi come a questo incommensurabile. Ma esattamente per questo motivo sono in completo disaccordo sul fatto che ciò equivalga al passaggio all’atto della solita assunzione che “non si può fare una frittata senza rompere le uova”.

Sta qui il pelo nell’uovo di Zizek: l’equivalenza che pone rivela come la scelta che caldeggia come eroica opzione del Peggio sul Male altro non sia che la ben nota scelta del Male Minore. Accettare l’atto che rompe le uova e fare la frittata non mi pare davvero l’Atto del Peggio, ma solo il consolidato meno peggio. Il tutto, comunque, calcolato su di un ordine di prevedibilità che trascura bellamente il carattere di discontinuità e imprevedibilità che contraddistingue proprio l’Atto simbolico e politico.

In buona sostanza l’argomentazione di Zizek incappa in una sorta di errore logico che lo conduce nel consueto incastro del Politico, ma non della politica se la vogliamo fare, di vedere solo due posizioni speculari: la posizione isterica e l’assunzione della posizione del padrone-master. Qui, poi, la virile assunzione del posto del Padrone come scelta rivoluzionaria si rovescia nella ri-assunzione della posizione isterica sulla Rivoluzione che spinge a negare che quel che c’è di realmente rivoluzionario sia davvero rivoluzione.

Si capisce infine come mai torni così insistente lo spettro di Lenin, peccato che l’evocazione del fantasma non equivalga affatto all’attraversamento del fantasma che tanto piace alla politica di ispirazione lacaniana[17]. E se proprio si tratta di fare i conti con i fantasmi, allora a fronte di quello di Lenin conviene ancora ricordare quello di Luxemburg.

La storia magari non insegna granché, ma le storie, le vite egli esempi sì: Rosa Luxemburg mi è sempre piaciuta più di Lenin. Anche Hannah Arendt la preferiva, e poi, chissà, …sarà perché mi piacciono le uova.

[1]              Slavoj Zizek, Il soggetto scabroso, Cortina, Milano 2003.

[2]              Archivio Arendt  2. 1950-1954, a cura di Simona Forti, Feltrinelli, Milano 2003.

[3]              Hannah Arendt, Le uova alzano la voce, in Archivio Arendt 2, cit., p. 49.

[4]              Hannah Arendt, Le uova alzano la voce, cit., pp. 56-7.

[5]              Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1989, p.169.

[6]              Nel saggio Che cos’è l’autorità, ad esempio è il modo di pensare che attribuisce a Machiavelli e a Robespierre: “Come non si può fare un tavolo senza uccidere gli alberi, o non si può fare una frittata senza rompere le uova, neppure si può fare una repubblica senza uccidere qualcuno” (Hannah Arendt, Che cos’è l’autorità, in Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991, p.189).

[7]              Hannah Arendt, Gli ex comunisti, in Archivio Arendt 2, cit., p.167.

[8]              Hannah Arendt, Gli ex comunisti, cit., p.169. Sul senso dell’avvertimento arendtiano che siamo solo attori della storia mi permetto di rimandare al mio Nessuno è autore della propria storia: identità e azione, in Diotima, La sapienza di partire da , Liguori, Napoli 1996.

[9]              Hannah Arendt, Gli ex comunisti, cit., p.168.

[10]            I.Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Utet, Torino 1970, p.88.

[11]            J.Habermas, La concezione comunicativa del potere in Hannah Arendt, “Comunità”, n.183 (1981), pp 56-73.

[12]            Hannah Arendt, Le uova alzano la voce, cit., p.49.

[13]            Oltre a Il soggetto scabroso sono tradotti: Il grande altro, Feltrinelli, Milano 1999; Il godimento come fattore politico, Cortina, Milano 2001; Difesa dell’intolleranza, Città aperta, Troina 2003; Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, Roma 2002; L’ isterico sublime: psicanalisi e filosofia, Mimesis, Milano 2003; Tredici volte Lenin. Per sovvertire il fallimento del presente, Feltrinelli, Milano 2003.

 

 

 

 

[14]            Slavoj Zizek, Il soggetto scabroso, cit. p.299.

[15]            Slavoj Zizek, Il soggetto scabroso, cit. pp.300-301.

[16]            Slavoj Zizek, Il soggetto scabroso, cit. p.481.

[17]            Sul significato politico dell’attraversamento del fantasma in questa prospettiva utile è Yannis Stavrakakis, Lacan and the Political, Routledge, London 1999.