diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 11 - 2012

Senza Oneri per lo Stato

Marcando il cammino

 

 

Terremoti

 

Guardavo Annamaria Talone. Piangeva, piano, senza singhiozzi. Piangevamo tutte per la vita di Noemi Tiberio, finita sotto le macerie della casa da cui non era riuscita ad uscire in tempo durante il terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009. Leggevo nel dolore di Annamaria le aspettative andate in frantumi dopo anni dedicati a realizzare a Pescara l’incontro del Magdfest, un’attività del Magdalena Project, la rete internazionale di donne del teatro contemporaneo. Che senso aveva ora un incontro di donne e teatro, di fronte alla morte di un’amica, di una giovane studiosa; di fronte alla distruzione di un’intera città, di case, chiese, università, di fronte a morti e sfollati, alle tendopoli, all’emergenza dopo il terremoto. Di fronte al terrore di altre scosse fatali?

Per anni Annamaria mi aveva scritto delle sue intenzioni. Aveva un buon contatto con l’assessore alle pari opportunità della Provincia di Pescara e voleva che venissi nella sua città per dare un seminario e presentare spettacoli. Mi affannavo a trovare le date giuste tra i miei impegni con l’Odin Teatret e cercavo giorni nelle mie vacanze estive o pasquali. Poi Annamaria era stata al Festival Transit in Danimarca e aveva conosciuto altre donne che l’avevano affascinata. Il suo progetto era diventato sempre più ambizioso. Nel frattempo aveva messo su famiglia, aveva avuto un bambino, e continuava a lottare con le ostruzioni quotidiane per fare teatro nella sua città. Quando le sono state confermate le sovvenzioni, Annamaria ha scelto il tema della voce ed ha invitato Helen Chadwick, una cantante e compositrice inglese; Ana Woolf, un’attrice argentina di cui ho curato la regia di due spettacoli; Ermanna Montanari, la straordinaria attrice italiana del Teatro delle Albe; la compagna d’organizzazione che veniva da Torino, l’attrice Gabriella Sacco; varie compagnie locali fra cui il Rogo Teatro; e me.

Forse Annamaria immaginava che le difficoltà sarebbero finite con la conferma delle sovvenzioni, invece proprio in quel momento è scoppiata la battaglia con la burocrazia statale, con la caotica organizzazione degli enti locali e con le gelosie degli altri teatranti della regione. Doveva fare miracoli per trasformare promesse fatte a parole o sulla carta in contanti, sale, appoggio tecnico, annunci, letti e cibo. Non ha rinunciato e, con il figlio Enrico in braccio, ci ha portato tutte a Pescara e a Bolognano, un paesino delle montagne fra Pescara e L’Aquila.

Per proteggere l’intimità dell’atmosfera di lavoro, i seminari si svolgevano nell’atrio della scuola di Bolognano a cinque minuti da dove dormivamo e mangiavamo. L’albergo era gestito da un amico e i prezzi erano di favore. Usavamo l’unico computer agibile con internet nella sua casa di fronte alla chiesa nella piazzetta dell’albergo, giusto accanto ad altre tre villette con vasi di fiori colorati all’entrata. La piazzetta mi ha subito colpito per la sua armonia, l’albergo per la sua comoda austerità, il cibo e il vino per la sensazione di essere fatti in casa. La finestra della mia stanza dava su una valle; da lì potevo vedere gli anziani del paese seduti sulle panchine comunali al sole e il ruscello che scorreva nel sottobosco appena fuori del cerchio di case di roccia grigia.

Le lacrime scorrevano sul viso di Annamaria. Cosa potevo fare per arginare la sua sensazione che tutto le sfuggiva di mano? Come lottare contro la consapevolezza dell’insensatezza del teatro così evidente nel momento in cui la realtà si confronta con la tragedia ultima della morte? Eravamo tutte riunite nella sala da pranzo. Era la sera in cui avevamo cancellato lo spettacolo a Pescara, la prima dopo il terremoto. Rogo Teatro aveva deciso di presentare il suo spettacolo solo a noi in omaggio a Noemi in una versione incompleta, senza tecnica e senza uno degli attori, partito a piedi pur di raggiungere la sua famiglia nella città in rovina, L’Aquila. Alla fine dello spettacolo le tre attrici hanno acceso una candela e distribuito del vino. Cristiana Alfonsetti ha parlato della sua compagna di studi sepolta sotto le macerie e Helen Chadwick ha cantato una canzone di sua composizione. “Come si fa a vivere con tanti lutti che si susseguono?” mi ha chiesto Annamaria. Oltre a Noemi, pensava alla morte recente di Cristina Wistari Formaggia, la danzatrice italiana residente a Bali che si era dedicata a salvaguardare la tradizione centenaria del Gambuh, partecipante assidua ai Festival Transit. Annamaria mi aveva seguita a Bali nel 2006 per le prove di Ur-Hamlet, uno spettacolo interculturale dell’Odin Teatret. La morte di Cristina ci aveva colpito entrambe nell’intimo. (Avevo ricevuto la notizia al termine di un altro festival di Magdalena, in Brasile, il giorno prima del mio compleanno, e raccontai di Cristina alle donne riunite per festeggiare la fine dell’incontro.) Ho risposto ad Annamaria: “Dando voce a quelle che non ci sono più, perseverando nel nostro lavoro.” Dobbiamo continuare a fare teatro, a documentare e scrivere, per lasciare segni che indichino la strada percorsa e orientino chi cerca il suo cammino.

Dormivo in una stanza al primo piano dell’albergo, un vecchio convento dalle mura spesse. Mi ha svegliato il rumore assordante di una mitragliatrice. Non capivo come un sogno potesse fare tanto fracasso. Tutto nella stanza tremava; l’aria sbatteva da una parte all’altra. E continuava. Continuava anche il tempo di pensare: “Cosa sta succedendo? Cosa devo fare? Mi devo vestire? Prendere la borsa? Il computer? Mettermi gli stivali? La giacca? Correre giù per le scale?” Ho sperimentato altri terremoti in vita mia, ma sono sempre passati così velocemente da ritrovarmi in un altro posto senza capire cosa fosse successo. Le crepe nel muro e i mobili riversi davano la spiegazione dopo. Ora, invece, mi rendevo conto che era un terremoto allo stesso tempo che mettevo la giacca sopra la camicia da notte, con l’acuta consapevolezza che dovevo fare in fretta nonostante all’aperto avrebbe fatto molto freddo.

Fuori era buio pesto e non si vedeva nulla, sotto i piedi scricchiolava l’intonaco caduto dalla casa accanto. Sarà pericolante? Tutte si domandavano cosa fare. Bisognava uscire all’aperto? Andare via in macchina? Tornare a dormire? Telefonare? A chi? Erano le quattro del mattino. Le luci funzionavano ancora e anche il telefono, ma nessuno rispondeva, né la protezione civile, né i carabinieri. Mancavano Ana Woolf e Helen Chadwick all’appello. Ci chiedevamo come avevano fatto a non svegliarsi. Il giorno dopo venimmo a sapere che erano rimaste immobili sotto le coperte, una troppo impaurita per alzarsi e l’altra abbandonata a un senso di fatalità. Rimasi seduta fra le altre, avvolta in una coperta. La mia flemma inglese sembrava dare tranquillità, specialmente ai genitori di Annamaria che tenevano il piccolo Enrico in braccio coprendolo di vestiti, mentre Annamaria, preoccupata, parlava con l’una e con l’altra delle possibili decisioni da prendere. Alcune partecipanti volevano andarsene lontano, altre che erano della regione volevano raggiungere subito le loro case per stare vicine alle famiglie.

Detti l’esempio e tornai a dormire nella mia stanza al primo piano, mentre altre partecipanti trascinavano i loro materassi per i corridoi e le scale per dormire assieme nella sala da pranzo riparandosi sotto le volte che sembravano resistenti. Era meglio stare al pian terreno? “Sotto i tavoli, lontano da oggetti appesi alle pareti”, erano le istruzioni che avevo letto in certi alberghi in California e in Giappone, mentre in altre direttive c’è scritto di raggomitolarsi giusto accanto ai mobili alti, nel cosiddetto triangolo della vita. Soprattutto non prendere l’ascensore! Il teatro ci insegna a drammatizzare, a evidenziare le tensioni, a mettere in visione i conflitti per creare attrazioni e suscitare reazioni nello spettatore, ma anche a pensare con il corpo e a lasciarci guidare dall’intuizione, a fare ciò che è necessario senza esagerare inutilmente. Le varie tendenze erano evidenti in noi tutte: chi pensava alla propria incolumità, chi si preoccupava di come essere d’aiuto e chi era come stordita dalla forza indomabile della natura.

Nel descrivere la mia tecnica di attrice, ho sempre parlato della saldezza che viene dalla terra, del bisogno di appoggio nei piedi per poter proiettare energia in scena. Ora mi confrontavo con la sensazione di instabilità e insicurezza totale al sentire la terra che tremava, che si ribellava e decideva di scuotersi, distruggere e ristabilire un ordine diverso. Ho usato l’immagine della terra che sussulta sotto i piedi affrontando il tema di ‘periferia’ nel discorso di apertura del sesto Festival Transit nel 2009. Lo stare in periferia corrisponde a situarsi in una posizione di rischio, fuori equilibrio. Ma è molto diverso se siamo noi a scegliere l’equilibrio instabile come premessa di creatività o se siamo forzate a subire una posizione irremovibile e precaria che sembra senza vie d’uscita. Le metafore ci aiutano ad intuire, ma non sempre sono traducibili in esperienza reale.

Di nuovo a letto, con le calze ai piedi, cerco di dormire, pronta a saltare giù e correre via. Sento il letto sussultare. Sono io? Altre scosse? È la mia paura? Ora tutto è silenzioso. Mi sento sola, ma preferisco questo alle insistenti domande senza risposta delle persone che sono rimaste assieme al piano di sotto. Tremo. Mi giro. Il letto vibra. Mi alzo a metà, in attesa. Non è il letto a tremare; sono io. Mi sdraio ancora. Dormo – quasi. Mi siedo nel letto, poggio i piedi a terra. Aspetto. Il tremore è passato. Mi stendo di nuovo. Lascio la luce accesa: ho lo stesso bisogno di sicurezza di una bambina piccola lasciata sola in una stanza buia. Chiudo gli occhi. Non dormo. Passano le ore ed è mattino. La sensazione di tremore del letto (o del corpo) non mi lascerà per vari mesi.

È incredibile la persistenza della memoria fisica. Di ritorno in Danimarca per molto tempo ho avvertito le scosse che mi facevano sobbalzare e mi atterrivano, specie nelle prime ore del mattino. Mi chiedevo in continuazione: cosa sente, come vive, chi ha veramente subito le conseguenze del terremoto?

Poi è successo anche in Danimarca! Nel paese dove credevo di essere al sicuro da calamità naturali, dove al massimo è il rumore del vento che infuria a preoccuparmi, una sera, mentre guardavo la televisione, ho sentito un rombo e la mia poltrona ha vacillato. Pensavo di avere un’allucinazione, ma il mattino dopo la radio ha confermato questo evento raro: un terremoto il cui epicentro era a 100 chilometri da Holstebro, con case danneggiate e abitanti in panico per strada. Un paio di mesi dopo la stessa situazione si è ripetuta a Taipei, dove la popolazione è talmente abituata alle scosse che neanche se ne accorge. Ero nell’albergo per studenti che Ya-Ling Peng usa per ospitare le invitate agli incontri Magdalena che è riuscita ad organizzare ben due volte al National Theatre. Ero seduta al computer a scrivere e-mail, routine abituale durante le tournée, e la stanza ha ondeggiato. Al festival precedente, Brigitte Cirla aveva sentito le scosse sul palco, ma Ya-Ling l’aveva istruita che anche con il terremoto gli spettacoli continuano: da loro i palazzi sono costruiti per resistere.

A Bolognano, il mattino dopo il terremoto, eravamo tutte al telefono, camminando per strada dove prendevano i cellulari con la mano accanto all’orecchio e la voce che si perdeva nel nulla. L’Aquila è distrutta, gli abitanti hanno dormito in macchina, cominciano a sorgere le tendopoli, non possono tornare alle loro case, il centro è chiuso e le ruspe lavorano. Sono in ansia per Elena Floris, la violinista che lavora con Iben Nagel Rasmussen nello spettacolo Il libro di Ester e nel gruppo “Il ponte dei venti”. Fino a sera nessuna notizia, poi sappiamo che è scappata con la famiglia al mare e uscendo di casa ha preso con sé solo il suo prezioso violino. Rimandiamo l’inizio del seminario di un’ora, ma è importante lavorare, riprendere l’attività, fare. Al mattino Ana e Helen conducono le partecipanti, io al pomeriggio. All’ora di pranzo Cristiana Alfonsetti ci informa della morte di Noemi Tiberio. Ora è ancora più importante lavorare. Non serve andare all’Aquila per aggiungersi alla lista di persone che hanno bisogno di mangiare, dormire, di andare al gabinetto e farsi una doccia. Non serve camminare avanti e indietro facendosi domande sull’ingiustizia divina e sulla criminalità umana. Faccio un esercizio di riscaldamento vocale per stabilire un rapporto di fiducia fra i piedi e il suolo e trovare una buona base di appoggio. Siamo tutte a piedi nudi, nella piazzetta fuori l’albergo. Fra i ciottoli spostiamo escrementi di cane, tenendoci a distanza dal nastro rosso e bianco messo dal Comune per isolare la casa vicina da cui è caduto il cornicione. Qualcuna lavora al sole per riceverne il calore, altre all’ombra per ripararsi. L’essenziale è mantenere un livello alto di difficoltà degli esercizi per favorire la concentrazione.

Durante il festival Ana Woolf doveva riaprire il teatro di Tocco, un altro paesino di montagna della provincia di Pescara, con Semi di memoria, lo spettacolo sui desaparecidos in Argentina. Ma è crollato una parte del soffitto, il teatro è di nuovo inagibile e nel paese hanno subito un lutto. Non possiamo proporre di fare spettacoli lì, anche in cattive condizioni, senza l’invito specifico della comunità. Il sindaco del paesino preferisce rimandare. Per noi il teatro è un modo di stare insieme, di creare una struttura, un rituale, che permette di unirci per affrontare momenti difficili. Ma gli spettacoli sono concepiti anche per diversione, riflessione e celebrazione. Non sempre il teatro è accettabile e adeguato alla situazione. Lo spettacolo di Ana sarà presentato a Tocco due mesi dopo come parte delle attività nate durante il Magfest per aiutare gli abitanti della regione devastata.

La vita deve vincere e il Magfest continua, anche se i nervi sono a fior di pelle fra organizzatrici, partecipanti, artiste. Gabriella Sacco non sta bene e lotta per trovare l’energia per presentare il suo spettacolo. Annamaria Talone, esausta e preoccupata, avrebbe bisogno di più appoggio organizzativo. L’economista Barbara Chiavarino mi racconta spaventosi episodi della sua vita durante una pausa. Ermanna Montanari, partita dopo il nostro incontro pubblico e il suo spettacolo la stessa notte del terremoto, ci telefona per sapere come stiamo. Helen Chadwick, per il suo concerto, non sa se spiegare in un italiano che non conosce, con una traduzione simultanea dall’inglese o usare uno spagnolo approssimativo, e finisce con un miscuglio di tutte le soluzioni. I gruppi locali non si mettono d’accordo sulla loro riunione programmata; molte persone sono assenti, confuse da comunicazioni contraddittorie. La loro concentrazione è presa dalla riorganizzazione della vita di tutti i giorni dopo il terremoto. Propongo ad Annamaria Talone di pubblicare alcuni scritti di Noemi Tiberio fra il resoconto del Magfest. (Si erano conosciute a Caulonia durante una sessione dell’Università del Teatro Eurasiano organizzato da Claudio La Camera e Maria Ficara, una delle redattrici della rivista The Open Page del Magdalena Project. Noemi era felice perché la rivista Teatro e Storia aveva pubblicato un suo articolo ed era riuscita a terminare la regia del suo primo spettacolo.) Confermiamo gli spettacoli programmati a Pescara, la città che non ha sofferto danni diretti e che si è aperta per ospitare gli sfollati. Ana Woolf presenta Semi di memoria dopo Olga Sergeevna, lo spettacolo con la regia di Annamaria Talone. Sentiamo una scossa. Nessuno del pubblico si alza; solo qualche spettatore si guarda in giro scambiandosi occhiate preoccupate. È un tremito passeggero, non un susseguirsi di sussulti. L’attrice in scena è l’unica a non notare la terra che trema e l’oscillazione delle lampade nel capannone. Lo spettacolo continua e mentalmente comincio a preparare il giorno dopo in cui dovrò presentare il mio.

Nell’intervallo ci chiamano amici da Roma: “Dovete partire subito! Cosa fate ancora lì?” Dobbiamo partire per dove? Dov’è un posto al mondo d’oggi dove non si vive un qualche pericolo? Penso alle continue preoccupazioni di mia madre quando viaggio in America Latina, lei che è stata derubata a Parigi e a Londra, lei che vive a Napoli. Penso alle terribili immagini dello tsunami sulle spiagge soleggiate e vacanziere della Tailandia. Penso alla paura nelle società sotto dittatura e a tutte le riprese televisive di paesi in guerra. Penso all’equilibrio instabile fra sicurezza e rischio, fra necessità e protezione, fra coerenza e compromesso. Oggi, mentre scrivo, penso anche alle immagini del terremoto a Haiti e in Giappone, alle lettere di conoscenti dopo quello in Cile, alle montagne di neve che hanno seppellito la Danimarca dal giorno in cui si è concluso a Copenaghen il congresso sul riscaldamento globale del pianeta, e alla nuvola di cenere lanciata da Eiyafjalljökull, il vulcano islandese che ha bloccato il traffico aereo in nord Europa per vari giorni. Penso allo spettacolo che sto preparando con la cilena Carolina Pizarro che descrive i terremoti e gli tsunami della sua terra. Comparo il mio ricordo della notte a Bolognano con il rumore impressionante della sua carta da pacco che copre tutta la sala e si corruga e si arriccia sbraitando sotto i suoi piedi che danzano in un disequilibrio furioso e padroneggiato. Penso a tutte le mail che mi arrivano rassicurandomi che nel dicembre 2012, quando forse saremo riunite da Parvathy Baúl per un incontro Magdalena in India, non ci sarà la fine del mondo. Questa data annunciata dal calendario Maya marca solo un profondo e necessario cambiamento.

È necessario un cataclisma per cambiare? L’esperienza del terremoto è devastante, penetra nel sistema nervoso, nella memoria animale, rende isterico l’istinto di sopravvivenza. Eppure non posso fare a meno di pensare a tutti i terremoti metaforici che hanno scosso la cronistoria del Magdalena Project, obbligandoci ogni volta a dissotterrare nuove direzioni. Conosco bene i sismi deliberatamente provocati che hanno sferzato e rinvigorito l’Odin Teatret rinnovando e approfondendo i legami dello stesso gruppo di persone per quasi 50 anni. Scosse o addirittura terremoti come svolte fondamentali sono stati la decisione presa da Jill Greenhalgh di non dirigere lo spettacolo finale al primo Festival Magdalena nel 1986; l’interminabile maratona-staffetta che ho proposto alle partecipanti dell’incontro di Holstebro nel 1987; le discussioni sulla regia avvenute al festival organizzato da Geddy Aniksdal e Anne-Sophie Erichsen al Grenland Friteater nel 1989; la difficoltà di collaborazione riscontrata fra le cantanti che partecipavano ai festival di voce nel 1989 e 1991; il festival del 1994 a Cardiff in cui abbiamo celebrato i primi dieci anni di attività; la chiusura dell’ufficio Magdalena di Cardiff e il trasferimento di Jill Greenhalgh in una casa di campagna nel 1997; ancora nel 1997, la mia decisione di stampare The Open Page all’Odin Teatret e poi di non farlo più nel 2008; la controversia sulla produzione dello spettacolo Child e la dimissione di tutte le membri del consiglio di amministrazione gallese nel 1999; la creazione della pagina web di Magdalena nel 1999; l’impulso rinnovatore dato dai festival organizzati da Sally Rodwell e Madeleine McNamara in Aotearoa-Nuova Zelanda nel 1999 e poi da Dawn Albinger in Australia nel 2003; il primo festival Magdalena Sin Fronteras organizzato a Cuba nel 2005 da Roxana Pineda che non aveva mai partecipato a un evento prima; le discussioni sull’identità del progetto scaturite dopo il festival organizzato da Margarita Borja in Spagna nel 2005; riunire nella stessa sala di lavoro artiste con molta esperienza per un work in progress chiamato Donne dagli occhi grandi nel 2007; la maturità dimostrata dal primo festival Vértice organizzato in Brasile da Marisa Naspolini nel 2008.

I terremoti all’Odin Teatret fanno parte della strategia di rivitalizzazione di un gruppo di persone che si conoscono bene sia nel mestiere che nel personale. Quando è diventato subitamente famoso nel 1968, dopo il Festival delle Nazioni a Parigi, Eugenio Barba ha sciolto il gruppo ponendo condizioni più dure a quelli che volevano continuare; nel 1974, gli attori dell’Odin Teatret, abituati a presentare spettacoli fissati nei minimi dettagli a pochi spettatori in una sala chiusa e protetta, si sono trasferiti in un paesino del Salento in Sud Italia per lavorare all’aperto senza uno spettacolo; nel 1977 l’Odin fu chiuso per tre mesi e gli attori hanno viaggiato in vari angoli del mondo per conto loro, trovando al loro ritorno murata la porta che usavano abitualmente per entrare. Nel 1983 il regista ha lasciato il gruppo dando agli attori la responsabilità della conduzione artistica ed amministrativa dichiarando che i giovani dovevano rompere il vetro della teca da museo che li avvolgeva, e dopo un anno è tornato per riconfermare l’autorità dell’attore più anziano. L’instabilità provocata da costrizioni che obbligano a reazioni imprevedibili è ripristinata per ogni nuovo spettacolo: per Il vangelo secondo Oxyrhincus Eugenio Barba ha preso l’avvio da una frase, “Leoni impazziti nel deserto”; per Mythos ha preparato uno spazio di pietra che rigettava la presenza degli attori e ha dato l’istruzione di lavorare senza fissare partiture; per Il sogno di Andersen gli attori avevano il compito di fare un viaggio in Africa, una permanenza in un asilo di vecchi e preparare ognuno uno spettacolo di un’ora; La vita cronica è cominciato con un tema tabù e inaffrontabile.

Abbiamo vissuto terremoti anche storici. Nel 1989, quando è caduto il Muro di Berlino, alcuni hanno reagito suicidandosi, come altri avevano fatto nel 1956, dopo che i sovietici hanno invaso l’Ungheria. Come continuare a vivere quando sparisce la speranza in un mondo migliore o il senso della lotta per questo obiettivo? Come continuare il cammino quando le fondamenta si inabissano sotto i nostri piedi? Eppure per alcuni la caduta del Muro di Berlino ha rappresentato una promessa e una prospettiva. Dove sono oggi quelli che formavano le fila della protesta giovanile del ’68? Ne parlavo con Touria Hadraoui durante un mio viaggio nel suo paese. Touria è una cantante marocchina che ho conosciuto al Festival Voix de Femmes diretto da Brigitte Kaquet in Belgio e che è venuta in Danimarca al quarto Festival Transit. Oggi, in Marocco, o sono alcolizzati o sono partiti, mi ha risposto. Come mantenere viva la possibilità dell’utopia, mentre le democrazie eleggono i Bush, Sarkozy e Berlusconi di turno? Alcune di noi sono riuscite a custodire il senso di ribellione, la necessità di giustizia e l’esigenza di appartenere ad una comunità impegnandosi con passione e rigore nel teatro.

La rete di Magdalena Project ha centralizzato il nostro ruolo di donne nel tenere accesa questa fiamma, allargando il nostro campo d’azione con onde che raggiungono angoli del mondo dove non siamo state e dove forse non andremo mai. Dopo venticinque anni di storia, mi capita di ascoltare incuriosita donne che conosco appena che parlano della rete del Magdalena Project e di attività completamente indipendenti da noi che l’abbiamo fondata. Ogni giorno incontro donne di tutte le età, di diversa provenienza geografica e genere teatrale, che mi chiedono come possono entrare in contatto con Magdalena, come partecipare e portarci i loro spettacoli.

È certo che abbiamo fatto molto. Abbiamo lottato tanti anni, eppure l’isolamento e la solitudine, la difficoltà di vivere del proprio mestiere, la penuria di fondi, i pochi spazi dove mostrare il proprio lavoro sono problemi ancora ricorrenti. Nonostante ci siano giovani che sostengono che il femminismo non è più necessario grazie all’impegno delle nostre nonne, sono poche le donne che dirigono teatri, festival e istituzioni. Rimangono ancora molti obbiettivi da raggiungere, sebbene in genere come donne preferiamo concentrarci sulle relazioni personali, sulla famiglia, sui nostri gruppi e spettacoli, su tutto ciò che ci è vicino, invece di usare le nostre forze per imporci sulla storia, anche del teatro. Scegliamo un cammino fatto di azioni silenziose e anonime, piuttosto che sprecare energie per combattere battaglie su terreni che non sentiamo nostri.

Quelle di noi che hanno avviato i primi incontri e festival, si affacciano alla fase della vita in cui vecchiaia e morte fanno capolino. Genitori, amici e colleghi ci abbandonano lasciando un vuoto incolmabile nel cuore e preoccupazioni di gestione quotidiana. Vorremmo usare le nostre forze solo per l’essenziale. La saggezza vuole sostituirsi all’entusiasmo; il risparmio delle energie alla dispersione, un silenzio pregnante alle grida di protesta. Ma situazioni estreme – come lo sono stati i vari tipi di terremoto per me – e incontri in luoghi e tempi difficili fanno riaffiorare la motivazione in mezzo all’indifferenza e alla monotonia della routine. Il lusso di partecipare a festival e di scambiare esperienze rinnova in noi il desiderio di esserci anche in futuro. Così andiamo avanti orchestrando una valanga di attività, consapevoli del privilegio di appartenere a una rete di contatti professionali e di amicizie che ci piace ritrovare nonostante i mille impegni impellenti di ognuna di noi. Oggi, quando tutto si risolve per via virtuale, condividere lo stesso spazio e tempo non è più un diritto ovvio. I tempi sono cambiati, le mode teatrali anche, ma noi seguitiamo a camminare una accanto all’altra, con la stessa testardaggine il cui valore sottolineavo nel programma dello spettacolo Il gusto delle arance che Gabriella Sacco ha presentato al Magfest di Pescara dopo il terremoto.

Credere: presenze della memoria

Vestita di bianco, con un capello colorato in testa, Teresa Ralli del gruppo di teatro Yuyachkani, si addentra nel labirinto. La seguiamo. Ci accompagna il suono dei flauti e dei tamburi della musica andina. Siamo a Lima in Perù. I compagni del suo gruppo suonano dall’esterno, i loro visi coperti da enormi copricapo di piume. Ognuno di noi ha in mano dei rami di fiori che depositiamo man mano lungo il percorso. Siamo le partecipanti ad un incontro Magdalena organizzato dalle quattro attrici di Yuyachkani, Ana Correa, Débora Correa, Rebeca Ralli e Teresa Ralli con l’aiuto di Milagros Quintana e Socorro Naveda. Siamo una sessantina di donne e qualche uomo. Percorriamo un labirinto di pietre al cui centro si trova “L’occhio che piange”, una scultura di Lika Mutal a forma di occhio da cui sgorga un rivolo ininterrotto di acqua. Il labirinto si trova in un parco al centro di Lima. È una delle tante iniziative in onore alla memoria.

Entrando il mio sguardo si fissa verso il basso: accanto al tracciato dove cammino ci sono centinaia di migliaia di pietre appoggiate ordinatamente una accanto all’altra, leggermente sovrapposte. C’è una pietra per ogni morto vittima della guerra fra l’esercito peruviano e Sendero Luminoso, durata più di vent’anni e finita nel 2000. Alcune pietre hanno inciso il nome di una persona, l’età e l’anno in cui sono morti, altre pietre sono mute, in attesa di ricevere un nome. Con lo sguardo abbassato continuo a camminare attanagliata dall’angoscia e da un senso di impotenza. Penso al giorno in cui, qualche mese prima, camminavo per i campi vicino a Phnom Pen dove, assieme alle ossa umane, la terra fa riapparire i vestiti delle migliaia e migliaia di cambogiani eliminati dai Khmer Rouge. Che fare? Che dire? Sembra che non ci sia risposta alle perversioni della storia umana che sa solo ripetersi. Come combattere questo male comune che affratella paesi così distanti fra loro?

Davanti a me Teresa avanza, mi seguono le altre donne che partecipano all’incontro Magdalena “Mujeres creadoras”. La musica andina ci ispira una scansione comune. Il percorso è lungo e tortuoso. Lo percorriamo piano, in silenzio, con un ritmo dettato da pensieri pesanti. Dopo circa quaranta minuti arrivo alla scultura nel centro, all’occhio che piange. Lo scruto a lungo, cercando di capire. Per uscire rifacciamo lo stesso percorso. Ora le pietre lungo il tracciato sono sistemate all’inverso e non si possono più leggere le iscrizioni. Il mio sguardo si alza automaticamente verso l’alto, la testa si solleva, il mio corpo si raddrizza e riprende energia. Il ritmo dei miei passi aumenta. La distanza da percorrere e il semplice obbligo di mettere un piede davanti all’altro, di dover proseguire per raggiungere l’uscita, cambiano l’atteggiamento del mio corpo. Ricomincio a guardare intorno a me, a pensare al futuro. Ecco cosa possiamo e dobbiamo fare: persistere a camminare. È questa ininterrotta sequela di passi che decide.

Fare teatro con l’Odin Teatret mi ha permesso di sentire ancora viva in me la militanza politica della mia gioventù. Magdalena Project colora tutto questo di femminile, dando a noi donne il compito di guidare la marcia. Non credo nella necessità del teatro, ma nelle possibilità che offre. Il potenziale del teatro mi si rivela nell’obbligo della relazione sociale, nell’opportunità di sovvertire le norme senza andare contro le leggi, nell’unione di immaginazione e realtà, e nell’ostinazione a continuare lungo il proprio percorso segnato da necessità personali. Con lo spettacolo Il gusto delle arance, con Gabriella Sacco, di cui ho curato la regia, il teatro mi ha offerto un terreno d’incontro con poetesse mistiche, spesso menzionate da studiose femministe. Erano delle ribelli, rifiutavano l’ortodossia, inseguivano un cammino rischioso, quando, con disciplina e abbandonandosi in preghiera, realizzavano una relazione particolare con l’altro che era per loro il divino in terra. Mi riconosco in loro, anche se la mia ribellione stabilisce un incontro con l’altro che chiamo spettatore e con altre che sono le mie colleghe.

Creare Il gusto delle arance e dare corpo teatrale alle parole delle poetesse mistiche scelte da Gabriella, che si definisce devota, è stata una sfida. Tutta la mia esperienza è legata alla presenza della persona in quanto corpo, materia. Ho cominciato a fare teatro per sentirmi unita e intera, per essere – attraverso l’azione – un tutt’uno di pensiero e movimento, di muscoli e sentimenti, sensazioni e immaginazione. Cos’è, allora, per me la trascendenza? Alla fine dello spettacolo Gabriella, l’attrice, rimane sola. Seduta ad un tavolino, beve di fronte ad un seggio vuoto a cui rivolge un segno di saluto. Il fuoco che creava l’ombra di una persona si è dissipato. Torna il buio. Dopo l’intensità delle parole, della passione e del lavoro, rimane la solitudine. È così? Oppure questa solitudine è accompagnata da tutti gli altri incontrati o da incontrare, imbevuta del vissuto e del passato, pronta e disponibile? È una solitudine che, con tranquillità e pace della mente, quiete e saggezza, ci dà speranze per continuare a vivere? Oppure è il segno amaro, rinchiuso e spento della fine?

In un vecchio pulmino percorro le infinite pianure argentine in viaggio da Buenos Aires a Paysandú, in Uruguay. Per passare il tempo chiacchiero con gli organizzatori che mi hanno invitato. Chiedo: “Perché fate teatro? Come avete cominciato?” Sono curiosa di sapere quali sono le motivazioni che li spingono a continuare in condizioni così difficili. Ognuno di loro lavora di giorno per guadagnare da vivere per sé e le loro famiglie, eppure si ritrovano regolarmente ogni sera al teatro per provare e presentare spettacoli. Vivono in una cittadina di provincia: molti chilometri li separano dai centri della cultura e dell’arte, dalla possibilità di ricevere informazioni, dalle librerie, da altri gruppi come il loro. Marcelo mi risponde: “È una bella domanda… non so. Ho visto uno spettacolo e poi mi sono messo a fare teatro anch’io. È come innamorarsi. È la necessità di un rituale. Il teatro è magico.”

Rituale, magia… Sono cresciuta in Italia. Appena arrivata a tre anni, i miei genitori mi hanno mandato ad un asilo francese di suore, probabilmente per imparare la lingua. Mi tolsero di lì appena si accorsero che cominciavo a mettere fiori davanti all’immagine della Madonna. Non rammento cosa mi spingeva a questo tipo di dedizione. Mi chiedevo dove l’universo, se era infinito, trovasse lo spazio, e cosa c’era dall’altra parte del muro se, invece, l’universo aveva un limite. A dieci anni capitava che accompagnassi le mie amiche in chiesa la domenica. Mi sentivo imbarazzata: ignoravo il momento in cui dovevo mettermi in piedi o seduta, non conoscevo i testi delle preghiere, ero infastidita dalla pomposità dei vestiti e del latino. Assistetti anche a due funerali. Rimane in me la rabbia profonda che mi provocò il discorso del prete che incoraggiava ad essere felici – proprio così, essere felici! – perché Dio aveva chiamato a sé un bambino morto di polmonite e una mia compagna di classe morta in un incidente automobilistico. Al liceo ero esentata dall’ora di religione: mi consideravano protestante per la mia origine inglese. In realtà mio padre mi portò una volta sola alla chiesa anglicana a Milano, per il giorno dei papaveri e dei carols, i canti di Natale. All’uscita, il pastore ci dette fiori di carta da mettere all’asola dei vestiti e ci strinse la mano. Percepii l’imbarazzo di mio padre che dovette confessare di non essere un frequentatore abituale delle messe.

Il gusto delle arance mi ha presentato la sfida professionale di passare dalle poesie composte di parole in cui c’è un io che crede, ma senza dramma, a un’azione drammatica che potesse interessare lo spettatore con la stessa sostanza di una storia. Dovevo interpretare la tensione mistica verso l’altro che non ha corpo con le tensioni reali del corpo dell’attrice. L’impeto ideale di chi si sposa in sogno, di chi si rivolge al Signore invisibile come all’amante, doveva esistere in scena tramite tensioni, opposizioni e reazioni fisiche udibili e visibili in modo da provocare visioni allo spettatore. Dovevo conquistare lo spettatore con un corpo dell’altro che non c’è, con una storia che non c’è, con parole di poesie che si riferiscono a un amore ideale, in cui la carne non è vera carne.

Da adolescente, impegnata politicamente e con la sicurezza che solo la gioventù possiede, mi sembrava impossibile comunicare con qualcuno che credesse in Dio. Ancora oggi mi sorprendo nel vedere persone che si fanno il segno della croce entrando in chiesa, partendo in aereo, attraversando un ponte, ascoltando una notizia drammatica, facendo un gol, o che si inginocchiano su un tappetino in mezzo alla strada in una direzione precisa. Sono, per me, segni distanti. Mi sento straniera in chiesa, in una moschea, in un tempio. È lo stesso quando assisto a cerimonie del Candomblé, la religione afro brasiliana, anche se mi interessano le rappresentazioni dei loro Orixá come forze della natura che si manifestano in una varietà di danze ed energie, in pietre che crescono, in simboli che mi colpiscono. Capisco la necessità di rituali che ci uniscono attorno ai passaggi fondamentali della vita, sono consapevole della necessità sociale di avere un centro e un luogo d’incontro, conosco il bisogno di disciplina e di norme, intendo l’esigenza di sperare che qualcuno più forte di noi possa risolvere i nostri problemi. Ma non per questo credo.

Credere, in teatro, è una problematica tecnica e concreta. Lo spettatore dovrebbe percepire la realtà e la rappresentazione come un’esperienza che contiene una verità personale a cui può relazionarsi. Credere o non credere all’attrice è un modo per esprimere un giudizio essenziale sulla qualità o l’efficacia dell’interpretazione. L’attrice è totalmente presente in quello che fa ed ha la capacità di trasmetterlo in modo organico per lo spettatore: crea empatia. Nonostante la sua esperienza limitata come attrice, Gabriella crea empatia in me come regista. Le credo, in scena. Come regista, ho usato tutto quello che so per correggere ritmi, sincronizzazioni, impulsi, tonalità, spostamenti, per evocare immagini nelle sue azioni e montarle per provocare letture divergenti. Ma, in fondo, conta solo se accetto il suo modo di essere presente in scena, se diventa “bella e diversa” ai miei occhi, se si muta nel mio alter-ego che scopre la mia stessa vulnerabile intimità attraverso quello che lei mi dice della sua. È una realtà concreta, che tocco con mano attraverso gli occhi, l’udito, l’odorato, il senso cenestetico, e – quando l’attrice mi offre un succo d’arancio che ha spremuto durante lo spettacolo – il gusto. Il gusto delle arance mi fa assaporare la concretezza dell’esperienza mistica delle poetesse che Gabriella ha scelto.

La spremitura delle arance è apparsa perché cercavo un’attività pratica per accompagnare la recitazione delle poesie con azioni fisiche. Ho pensato al rituale del tè giapponese ed ho ricordato uno spettacolo del Festival Magdalena ’94 in cui dei limoni apparivano da un mucchio di terra marrone in un contrasto di colori e consistenza. Il rituale del tè, come quello delle arance, era un contenitore senza significati intrinseci che restaurava la ripetizione precisa, uguale e semplice di azioni necessarie. L’idea del rituale delle arance era casuale, se riferita al senso, eppure precisa e necessaria, se riferita alla concretezza delle azioni reali sulla scena.

Anni fa, un’amica mi fece un massaggio guaritore. Il mio collo rotolava fra le sue mani, mentre rispondevo alle sue domande. Ad un certo punto ricordai un incidente: una tavola non fissata del palco mi aveva colpito al petto. Era successo in un periodo piuttosto infelice della mia vita. Avevo completamente dimenticato l’episodio, ma le cellule del mio corpo si erano passate l’informazione del trauma. Le mie cellule ricordavano più di me. Rimasi ancora più convinta che dovevo avere fiducia nell’intelligenza del mio corpo che pensa da solo. Credo nella storia e nelle storie, nell’intuizione e in alcune persone. Credo nel senso che il lavoro che faccio ha per me. Credo nell’impegno per lo sviluppo della rete del Magdalena Project e nella qualità che l’Odin Teatret esige sempre da me. Credo nella necessità di continuare a camminare, lasciando segni lungo il cammino.

Ero seduta in un cerchio durante un incontro improvvisato nel tempo libero dal programma ufficiale di “Mujeres creadoras” in Perù. Una trentina di giovani attrici e attori ascoltavano le mie risposte alle loro domande. Mi chiedevano di tecnica, di politica, di senso, per immaginare quale cammino li attendesse. Abbiamo lavorato con la voce per cercare assieme alcune risposte. Mi hanno chiesto perché io continuo a fare teatro dopo tanti anni nello stesso gruppo, l’Odin Teatret. Dentro di me, in un angolino nascosto, ho ripensato a come, pochi giorni prima, leggendo un’introduzione ad un’edizione brasiliana di saggi di Bertolt Brecht, ho intuito che per salvaguardare la memoria del gruppo e del suo regista Eugenio Barba, ho bisogno di una presenza che garantisca autorevolezza a quello che faccio. Se Eugenio non fosse più all’Odin, per un motivo o per un altro, dove potrei rimanere accanto alla sua visione e assumere la sua eredità senza la sua presenza? Forse proprio in compagnia delle donne con cui ho condiviso l’inizio e il percorso del Magdalena Project. Ma non l’ho detto. Invece ho spiegato che all’inizio, volendo risolvere la mia divisione fra lo studio di storia e filosofia e la pratica dello sport, il mio ideale era raggiungere un’unità del mio essere. Per questo avevo scelto il teatro. Ma parlando e osservando i visi delle giovani attorno a me, vedendo le loro reazioni, ad un tratto ho capito che invece il mio ideale era essere divisa. Volevo che il mio essere potesse dividersi per esistere in questi altri che mi guardavano e mi ascoltavano.

Credo nell’energia, nella cenere che fertilizza la terra, nella conoscenza che passa di generazione in generazione trasformandosi, nella storia che trascina tutta l’esperienza umana, nelle storie che fanno vivere le persone e il loro operato nella nostra memoria, nei sentimenti che ci legano al di là della presenza fisica, nelle cellule del mio corpo che pensano e sognano, nelle donne che creano la loro storia di teatro, nella trascendenza del mio mestiere quando riesce ad avere un senso che permane dopo la fine dello spettacolo. Non credo nell’aldilà, ma nell’al di qua: essere unita e divisa al tempo stesso. Il mio al di qua sono le altre e gli altri: quelli venuti prima di me, quelli attorno a me, e quelli che seguiranno. Gli spettacoli e i festival continueranno a ripetere i loro rituali profani per dire qualcosa che ignoriamo perfino noi che l’abbiamo creati e fatti crescere. Sono presenze della memoria: segni lungo il cammino.

 

Semi di memoria

 

Durante gli anni ‘70 molti argentini in fuga dalla dittatura si rifugiarono in Italia, dove abitavo e facevo gli studi universitari. Condividevamo il linguaggio dell’attivismo politico tipico dei giovani militanti che volevano cambiare il mondo e che credevano nel diritto alla giustizia e alla felicità e in un nuovo essere umano. Ci erano familiari le infinite ore di riunione, la distribuzione di volantini e la vendita di giornali, i dibattiti sindacali e le occupazioni di scuole e fabbriche. Sentivamo che il nostro impegno politico era sommamente serio ed eravamo d’accordo che i problemi personali, la famiglia e l’amicizia venivano in secondo piano. Avremmo imparato con gli anni a valorizzare le persone sopra le idee, la generosità sopra le buone intenzioni; le azioni sopra le parole. Allora quelle fra noi – sia italiane che argentine – che lavoravano in teatro, arte e cultura, consideravano le proprie attività come parte integrante della lotta sociale e di classe. Parlavamo di teatro e politica, di solidarietà internazionale, di Stanislavski, Brecht e agit-prop. Non parlavamo tanto dei dettagli di quello che stava accadendo in Argentina. Sapevo solo che era molto pericoloso per alcuni tornare, e che rientrare a casa era il loro più grande e impossibile desiderio. A volte il loro teatro rifletteva la realtà dalla quale erano fuggiti e gli spettatori reagivano fino al punto di interrompere lo spettacolo se le scene di tortura erano presentate in un modo troppo diretto.

È stato duro poi negli anni ‘90, vivendo nell’agiata e bonaria Danimarca, fare la regia di Semi di memoria, con Ana Woolf. Lo spettacolo affronta la tragedia di persone scomparse durante la dittatura militare in Argentina. Era straziante dover leggere documenti e libri che rivelano i fatti e i numeri delle vittime. La realtà era troppo terribile: torture fisiche e psichiche erano subite da bambini, ragazzi, lavoratori, studenti, famigliari, amici e da persone prese a caso. Posso immaginare che per chi ha vissuto questo periodo di terrore è insopportabile raccontarlo.

Come potevo permettermi di presentare questa realtà in teatro? Come potevo parlare di questa esperienza che appartiene al dolore degli altri con un linguaggio di simboli e segni? Come si può mettere in scena e recitare il dolore senza mancare di rispetto e senza cadere nel cattivo gusto? Come può il teatro essere crudele come la vita? Queste domande mi tormentavano durante la prima fase di lavoro con Ana. Eppure le Madri di Plaza de Mayo di Buenos Aires ripetevano in continuazione di non parlare di morti e funerali, ma di vita e speranza per il futuro. Anche le Madri di Plaza de Mayo non hanno mai smesso di camminare. Ancora oggi, come ai tempi della dittatura, ogni giovedì procedono in circolo, con il fazzoletto bianco in testa, mostrando fotografie dei loro figli o nipoti desaparecidos, i loro cari fatti sparire con la forza. Durante le prove di Semi di memoria immaginavo che le Madri mi bisbigliassero che anche se si perdono le illusioni, rimangono gli ideali e con loro la necessità di lottare e di opporsi.

Ana Woolf è argentina. Era piccola durante gli anni dell’orrore che regnò nel suo paese e non ha dovuto emigrare. Ha vissuto e giudicato quegli eventi attraverso gli occhi di una bambina di nove anni. Non sapeva che le sue domande senza risposta e la sua confusione, che il suo stupore e la sua paura erano condivisi dagli adulti attorno a lei. Le parole autobiografiche di una bambina e il dolore reale causato dalla recente perdita del padre sono diventate la soluzione drammaturgica che ha permesso di raccontare la storia che aveva bisogno di essere raccontata, sebbene nessuna parola sarà mai sufficiente per compensare la sofferenza che ha marcato varie generazioni di argentini.

Stavo camminando per le strade di Buenos Aires nel 1986. Un amico mi spiegava che era strano essere fuori casa senza dover inventare una giustificazione su dove stava andando e perché, con un’agendina in tasca e senza guardare avanti e indietro per controllare che la strada fosse sicura. Ma la paura rimaneva egualmente: come è possibile? Com’è possibile per tante persone torturare ed assassinare altri esseri umani fra cui madri in cinta e bambini. Com’è possibile per tante persone avere collaborato e poi rinchiudersi nel silenzio? Guardi il tuo vicino di casa e ti domandi se è uno dei torturatori. Guardi i figli del tuo vicino senza sapere se appartengono veramente ai loro genitori. Guardi le acque scure del Rio de la Plata e vedi giovani visi apparire fra le onde.

In Ana ho trovato una persona di una generazione più giovane che ha scelto di lottare contro l’oblio, che vuole assumere la responsabilità del passato e sapere da dove viene. Uno dei modi di Ana di marcare il cammino è stato cominciare Magdalena Segunda Generación, consapevole che la sua generazione era diversa da quella delle fondatrici del Magdalena Project e che aveva altre domande da condividere. Uno dei motivi per cui ho accettato di fare la regia era per ridare ad Ana quello che lei aveva dato ad altre donne organizzando attività del Magdalena in Argentina. Ma anche per darle un altro senso e un’altra prospettiva trasformando protesta e dolore in rigoroso lavoro di azioni reali di teatro.

Ana ha reso Juan – il protagonista di Semi di memoria, presentato al Magfest di Pescara, a vari Festival Transit in Danimarca e in altri festival Magdalena nel mondo – un membro della mia famiglia. Il teatro può servire a mettere semi di memoria nella terra e far crescere nuova vita dall’assenza, e trasformare i vecchi ideali e le illusioni in fiori delicati che colorano il nostro presente. Anche se ogni giorno ci domandiamo se vale la pena, se ogni giorno abbiamo paura di svegliarci senza la motivazione per affrontare il lavoro che aspetta, dobbiamo continuare a camminare. Questo me l’ha insegnato, fra altre, Patricia Ariza.

Patricia, regista e attrice del Teatro La Candelaria di Bogotá, è promotrice di varie manifestazioni del Magdalena in Colombia. Durante una conferenza a Cuba in cui commentava il “Plan Colombia” (il piano degli Stati Uniti per combattere il traffico di droga), raccontava del suo lavoro con i festival, spettacoli e azioni di strada con giovani dei quartieri marginali, con sfollati, prostitute, disoccupati e tutte quelle persone dispregiatamene chiamate desechables (rifiuti). Nella sala della Casa de Las Americas all’Avana, sosteneva che oggi non abbiamo alcuna chance di combattere al livello della grande politica con le sue stesse armi, discorsi e organizzazioni. La nostra lotta deve essere fatta di piccole azioni che privilegiano i rapporti e le motivazioni personali e che al momento possono sembrare irrisorie, proprio come i passi in circolo delle Madri di Plaza de Mayo.

Le sue parole potevano sorprendere chi conosceva il suo passato di militante comunista miniacciata di morte e che per anni ha indossato un giubbotto antiproiettili. Abbiamo spesso discusso dei nostri percorsi comuni, del suo nel Teatro La Candelaria, del mio nell’Odin Teatret, del nostro nel Magdalena Project. Siamo cambiate? Sono mutati i nostri ideali giovanili e il nostro impegno? Non credo. Si è alterata la forma con cui cerchiamo di realizzarli senza soccombere ai tempi. Facciamo teatro e lì riversiamo il bisogno di cambiare. Per lei La Candelaria, come per me l’Odin Teatret, e per entrambe The Magdalena Project, sono ambienti – costituiti da un intreccio di contatti e attività che negli ultimi anni spesso sono confluiti in progetti impensabili. Troviamo in questi ambienti il terreno fertile in cui iniettare senso alle nostre piccole azioni che non sembrano influire sull’andamento della storia.

Qualche anno fa, ad uno dei Festival Voix de Femmes in Belgio, la direttrice artistica, Brigitte Kaquet, parlava di creare un ponte per unire le donne che aveva invitato: quelle che cantano e quelle che piangono. Brigitte è una delle donne che erano presenti al primo festival Magdalena nel 1986 a Cardiff e da allora ha dato seguito alla sua partecipazione concentrandosi su eventi dedicati alla voce. Le cantanti al Festival Voix de Femmes provenivano da molti paesi africani, del Medio Oriente e del continente americano; invece quelle che Brigitte chiamava donne che piangono erano sorelle, mogli e madri di desaparecidos che avevano formato una rete che si riunisce ad ogni Festival e a cui partecipa anche Ana Woolf con l’idea di fare con loro uno spettacolo. Allora pensavo che i desaparecidos fosse un fenomeno di paesi lontani dominati da dittature, e invece le madri belghe di bambine rapite da pedofili, le sorelle di ragazzi dell’ex Iugoslavia, le figlie di militanti curdi mi hanno fatto riconoscere una realtà ben vicina. Il tema di culture in resistenza del Festival era affrontato nei concerti e nelle assemblee, e Brigitte cercava dei modi per mettere in connessione i diversi aspetti del Festival.

Alcuni mesi prima ero stata a Mostar in Bosnia, dove avevo visto nel fiume Neretva i resti dello storico ponte da cui i giovani si tuffavano per esibire il loro coraggio. Fino ad alcuni anni prima, aveva allacciato gli ortodossi ai musulmani, i ricchi ai poveri, una parte all’altra della città. Il ponte era stato distrutto durante una delle guerre dell’ex Iugoslavia. L’ordine di bombardarlo era stato dato da un ufficiale croato che era stato regista e aveva messo in scena testi di Bertolt Brecht. Sentendo parlare Brigitte di un ponte come via di contatti e rapporti, ricordai Mostar e pensai che dovevamo costruire i nostri legami in un materiale che non si lasciasse bombardare: una sostanza fluida che quando si cerca di afferrare è già cambiata. Questo è quello che una rete di persone, un ambiente, come l’Odin Teatret e The Magdalena Project, è per me: relazioni che rimangono vive e che mi accompagnano lungo il cammino, anche se gli edifici, i ponti e i muri intorno a noi crollano.

Ho pensato di nuovo al ponte di Mostar durante la presentazione del sesto Festival Transit. Ero alla ricerca di un’immagine che racchiudesse in sé il senso della periferia, in cui molte donne del Magdalena lavorano e vivono, come zona di rischio. Non era più il ponte che univa due realtà a interessarmi, né l’acqua del Neretva che scorreva dalle montagne al mare lungo un percorso tortuoso, ma il tuffo tradizionale dei giovani che spiccavano il volo dal ponte per lottare nelle rapide del fiume in un rito di passaggio che li rendeva adulti. Era l’azione necessaria per continuare il proprio cammino lasciando un segno che non ha bisogno di spiegazioni, il salto che permette di volare per un attimo scoprendo in aria quello stesso nodo di energia dell’esercizio fuori equilibrio mostrato poco prima del mio discorso da Iben Nagel Rasmussen. Per appoggiarsi saldamente bisogna a volte lasciarsi andare al vento, facendo passi nell’aria.

La mia cronistoria

 

La prima data della cronistoria ufficiale del Magdalena Project è il 1983. Nei documenti c’è scritto: nascita dell’idea. Ci trovavamo con vari gruppi di teatro a un festival a Trevignano, in Italia, organizzato dal Teatro di Fortuna, per creare insieme uno spettacolo con la regia di Tage Larsen, attore dell’Odin Teatret. C’era il Grenland Friteater dalla Norvegia, il Cardiff Laboratory Theatre dal Galles, parte dell’Odin Teatret dalla Danimarca, Dominique Maurin dalla Francia, La Tartana dalla Spagna, ed altri.

“Ricordo” (scrivo questo verbo tra virgolette per sottolineare la versione personale di questa cronistoria, perché ognuna di noi che ha partecipato agli inizi del Magdalena Project rievoca questo e altri aneddoti in modo lievemente diverso, e la storia è ormai consapevolmente costruita su mitologie personali) che, durante un pranzo, entusiaste della collaborazione in atto, abbiamo cominciato a sognare un altro incontro. Ci siamo dette, però, che alla prossima occasione non avremmo invitato i gruppi interi, ma solo le persone dei singoli gruppi che ci piacevano. Subito ci siamo rese conto che stavamo pensando alle donne dei gruppi. Erano loro che esprimevano coraggio, bellezza, intraprendenza, curiosità; erano loro che sembravano avere qualcosa d’inespresso da dire, che cercavano, che erano pronte, decise e ostinate. Al tavolo che “ricordo” eravamo Geddy Aniksdal (Norvegia), Helen Chadwick (Inghilterra), Brigitte Cirla (Francia), Anne-Sophie Erichsen (Norvegia), Jill Greenhalgh (Galles), Silvia Ricciardelli (Italia), Siân Thomas (Galles) ed io (Danimarca): i nostri desideri, espressi a voce alta, a questo punto dovevano essere realizzati. Tutte queste donne, quasi trent’anni più tardi, sono ancora legate in un modo o nell’altro alla rete del Magdalena.

Avevamo intuito che erano soprattutto le attrici a covare l’entusiasmo e il bisogno di confronto che un decennio prima avevano caratterizzato i gruppi di teatro che si incontravano per scambiarsi training e tecniche di improvvisazione. Ora erano le donne che facevano il lavoro più interessante, che si ponevano domande, si davano compiti concreti e guardavano aldilà dell’orizzonte conosciuto. Spesso i registi – quasi tutti uomini – non erano all’altezza del ruolo dialettico richiesto, e non erano sufficientemente forti da incoraggiare le attrici a spiccare il volo. Ci chiedevamo cosa sarebbe successo se avessimo messo insieme queste donne, creando le condizioni di lavorare autonomamente staccate dal gruppo di origine.

Jill Greenhalgh, a quel tempo attrice del Cardiff Laboratory Theatre (oggi Centre for Performance Research e traslocato da Cardiff ad Aberystwyth, ospite dell’università), raccolse la sfida di realizzare il desiderio espresso al pranzo di Trevignano. Assistita fra altre da Gilly Adams, dopo varie iniziative locali, nel 1986 organizzò un Festival a Cardiff chiamato “Magdalena”. In quel periodo, infatti, stava lavorando come attrice al personaggio della Maddalena. Invitò trentasei donne da diversi gruppi di teatro provenienti dall’Europa, dal Nord e dal Sud America, per prendere parte ad una settimana di seminari e spettacoli, seguita da due settimane di lavoro comune su uno spettacolo da presentare alla fine. Jill è tuttora direttrice artistica del Magdalena Project e i suoi lavori più recenti includono Water[wars], sulle guerre per l’acqua, Las sin tierra, sull’immigrazione attraverso lo Stretto di Gibilterra, Vigia – The Acts, uno spettacolo che ha come tema l’omicidio di centinaia di giovani donne sul confine fra il Messico e gli USA, e ora, nel 2010, sta lavorando sul tema del silenzio e della quiete con The Threat of Silence.

A Cardiff, nel 1986, la maggior parte delle donne invitate erano attrici. Dalle sessioni di training mattutino in comune e guidate a turno emerse un forte sentimento di solidarietà e condivisione: c’era spazio per formulare domande senza necessariamente aspettarsi risposte o dover difendere opinioni già formulate in precedenza. La viscerale conoscenza intuitiva e la caratteristica complementarità delle azioni che ci guidavano nel nostro mestiere, ci aiutavano a incorporare creativamente i contrasti. Lo stimolo alla comunicazione era dato dall’esperienza teatrale e dal bisogno di crescita professionale.

Jill Greenhalgh si rifiutava fermamente di dirigere e prendere decisioni. Fin da allora lasciò alle difficoltà il compito di trovare il cammino da seguire. Furono altre a risolvere questioni come decidere, per esempio, se far pagare un biglietto per lo spettacolo finale, esito della collaborazione. Abbiamo lavorato in una vecchia fabbrica di lavorazione delle patate vicino al porto e nella sede del Cardiff Laboratory Theatre, il Chapter Arts Centre. Mangiavamo tutte assieme in un salone al secondo piano e dormivamo in stanze affittate per l’occasione. Già sapevamo quanto era importante creare le condizioni d’incontro anche al di fuori delle sale di lavoro in ambienti accoglienti. Durante il Festival si formò un gruppo attorno a Sofia Kalinska (attrice di La classe morta con la regia di Tadeusz Kantor), che qualche anno più tardi ha prodotto lo spettacolo Nominatae Filiae con un cast internazionale. Poco dopo il Festival Susan Bassnett, docente all’Università di Warwick, pubblicò il libro Magdalena Experiment (edito da Berg Publishers, 1992).

Alla fine del Festival del 1986 tenemmo il primo Round (ronda) che è diventato da allora una tradizione. Una alla volta, sedute in circolo, ogni donna diceva quello che sentiva necessario e nella forma che sceglieva, senza possibilità di ribattere o fare altri interventi. Molte donne espressero gratitudine perché si erano rese conto che non erano sole con i loro dubbi e incertezze. Sentivano che tornavano rafforzate ai loro gruppi e che ora appartenevano a un ambiente in cui condividere le loro aspirazioni professionali.

L’anno dopo, nel 1987, accogliendo il desiderio espresso da molte di volersi rincontrare, fu fondato ufficialmente il Magdalena come progetto. Ricordo Jill Greenhalgh e me, a Milano, durante una mia tournée, che improvvisavamo proposte di logo per la carta intestata, che poi fu disegnata professionalmente da un mio amico, Marco Donati, ex attore del collettivo politico di Santa Marta, con il quale avevo iniziato a fare teatro. Ricordo – sempre a Milano – un incontro con la giornalista Anna Bandettini per parlare di come creare nuovi contatti. Jill lasciò presto il Cardiff Laboratory Theatre per dedicarsi a tempo pieno al progetto che stava nascendo. Accanto all’organizzazione a Cardiff, con il suo consiglio di amministrazione, l’indirizzo e il telefono, fu stabilito un gruppo consigliere internazionale che si riuniva una volta all’anno per esaminare le attività realizzate e pianificarne altre per il futuro. La prima parte della riunione era dedicata ad una ‘ronda’ di informazione in cui ognuna parlava della propria situazione personale e professionale del momento. Poi rivedevamo la pagina che enunciava gli scopi e gli obbiettivi del Magdalena Project e passavamo a vagliare le attività.

Negli incontri successivi ci siamo chieste se esistesse un linguaggio “femminile” di teatro. Scambiavamo tecniche e cercavamo di riconoscere gli elementi comuni nei nostri spettacoli. Pensavamo alla pazienza, alla cura, all’intuizione, alla propensione all’emotività e ai rapporti personali come caratteristiche femminili, e alla competitività, alla decisione, all’atteggiamento razionale come requisiti maschili. Dopo aspre discussioni cominciammo a capire che “femminile” non era sinonimo di “donna” e che l’obbiettivo della rete era privilegiare l’aspetto dell’incontro fra donne nella professione. Era importante imparare da altre donne e scoprire nella pratica processi di lavoro che potevamo condividere. Il senso di solidarietà ci permetteva di partecipare a improvvisazioni seguendo principi diversi da quelli che conoscevamo e praticavamo nei nostri rispettivi gruppi, di fare concerti intrecciando le nostre diverse canzoni e di raggiungere risultati collaborando, senza aver bisogno di organizzatori, direttori, registi, consiglieri o coordinatori.

I primi veri conflitti sorsero alcuni anni più tardi, quando l’interesse delle donne attive nel Magdalena Project si rivolse alla regia. Per montare uno spettacolo, una regista deve lavorare con criteri obiettivi oltre che soggettivi, passare dalla conoscenza viscerale a una capacità narrativa e saper comunicare l’intuizione in modo che altre persone possano seguire un filo di coerenza spettacolare e interpretarlo. Inoltre, la regia implica un rapporto con il potere. Decidendo di fare regia, le attrici che erano a loro agio nel campo dell’azione scenica si traslocavano in un campo meno consono alla loro esperienza. Di questo scrissi in un articolo intitolato “Avventurandosi in terreno straniero” pubblicato sulla Newsletter di Magdalena nel 1990 e sulla rivista Lapis in Italia. Durante gli incontri intitolati A Room of One’s Own, organizzato da Geddy Aniksdal e Anne-Sophie Erichsen in Norvegia, e Unter Wasser Fliegen, organizzato da Kordula Lobeck in Germania, le diatribe furono considerevoli.

Regole prefissate non si adattavano alla pratica e al linguaggio che avevamo sviluppato fino a allora all’interno del Magdalena Project. Come registe, cercavamo di non dirigere e guidare in senso predeterminato. Volevamo accogliere le indicazioni che ci arrivavano dal lavoro e riconoscere le direzioni da seguire rispettando le necessità del mestiere. Volevamo scoprire un modo a sé stante e soprattutto nostro di fare regia, individuando le immagini che esprimevano quello che ancora non sapevamo di sapere. Diventammo ancora più consapevoli che “femminile” non ha lo stesso significato di “donna”; che uno degli obbiettivi principali del Magdalena Project era promuovere ed incoraggiare la produzione delle donne; e che queste possono manifestare caratteristiche sia femminili che maschili nel loro fare teatro. Nei festival organizzati a Cardiff, Boston, Holstebro, Liège, Wuppertal, Buenos Aires, Porsgrunn, le discussioni furono risolte presentando frammenti del processo di lavoro e mettendoli in rapporto con i risultati emersi negli spettacoli. In questo modo evitavamo il giudizio e incoraggiavamo la curiosità. Non era più questione di incolpare una regista di aver manipolato le sue attrici o di criticare il risultato secondo principi estetici o ideologici. Cercavamo di capire quando le intenzioni rimanevano senza sbocco nello spettacolo e in che modo cogliere dalla diversità delle tendenze artistiche linguaggi che potessero ispirarci.

Transit e la rete

 

Proprio per il desiderio di vedere tutti gli spettacoli che erano stati prodotti in quel periodo, organizzai nel 1992 il primo Festival Transit all’Odin Teatret a Holstebro. Un quadro di Dorthe Kærgaard intitolato “Transit” ne ispirò il nome: due donne che creavano un cerchio con i loro corpi, camminando eternamente in transito. Nel programma del primo Transit non parlai di regia, ma di “conduzione” nel senso dell’energia condotta in elettricità. Esempi di conduzione per arrivare alla produzione di uno spettacolo erano dati dal lavoro di registe, dalla motivazione trainante di attrici e dalle dinamiche di un gruppo. Da allora ogni due o tre anni organizzo a Holstebro una nuova edizione di Transit intorno a un tema specifico, con seminari, spettacoli, dimostrazioni, filmati e dibattiti invitando circa 150 donne fra artiste e partecipanti. I temi sono stati: 1. Registi e dinamiche di gruppo: cosa propongono le donne?; 2. Teatro – Donne – Politica; 3. Teatro – Donne – Generazioni; 4. Radici in Transito; 5. Storie da Raccontare; 6. Teatro – Donne – In periferia. Per un nuovo festival Transit aspetto che il tema d’interesse e la motivazione mi inducano a intraprendere il processo di preparazione. In questi giorni del settembre 2010, mentre mi sforzo di scrivere questo articolo come regalo per quelle che non c’erano agli inizi e come riflessione su un’esperienza che nel 2011 compie 25 anni, è in gestazione un tema che per il momento chiamo “Crisi e Invenzione”.

Già nel 1987 avevo ospitato due incontri del Magdalena Project a Holstebro, il primo per sviluppare un processo di regia collettiva che chiamai “maratona” riprendendo la guida a turni del training durante il primo Festival a Cardiff; e il secondo per approfondire uno scambio di tecniche vocali. Le partecipanti venivano da tutto il mondo: a questi incontri internazionali si abbina il bisogno di viaggiare. L’esperienza fatta lontana da casa mette radici più profonde e conseguenze più rilevanti.

La passione per il lavoro vocale e il canto sono stati presenti nel Magdalena Project fin dall’inizio. Alcuni festival furono dedicati specificamente a questo tema, attirando cantanti professionali e musiciste, fra cui Helen Chadwick, Brigitte Cirla e Stella Chiweshe, che collaboravano con concerti e composizioni a Cardiff, a Holstebro e soprattutto al Festival Voix de Femmes a Liège e Bruxelles in Belgio. Da questi eventi è nato uno dei sogni del Magdalena Project: mille donne che cantano insieme una sola canzone, come gesto politico, in un luogo preciso. Ricordo come un lavoro vocale condotto a Holstebro da Beatriz Camargo (Colombia) risultò in un mare di lacrime per le partecipanti, quasi quanto una sessione guidata da Gilly Adams e Helen Chadwick sul tema dei padri. La voce proveniva dall’intimo e risvegliava energie misteriose; il canto collettivo incanalava l’emotività piena di dolore per trasformarla in una forza dirompente da usare in scena.

Gradualmente, con gli anni, l’attenzione si è di nuovo spostata: dopo il training e la regia – ovvero il come fare spettacoli – ci siamo concentrate su cosa il nostro teatro dice e dove lo situiamo. Il bisogno di “prendere posizione” verso gli eventi del mondo ha, per noi, ridato senso alla parola “politica”. Per essere “politico”, il teatro non era più dipendente da ideologie o linee di partito come negli anni 1970, né era agit-prop, ma rifletteva le scelte di donne che facevano teatro in quartieri emarginati e poveri, fra i disoccupati, in paesi in guerra, in ospedali psichiatrici, in prigioni, nelle scuole. A Wuppertal, Kordula Lobeck riunì per un festival e lo spettacolo di chiusura con la mia regia, giovani disoccupati di Marsiglia (guidati da Marie-Josée Ordener), cantanti rap di Bogotá (guidati da Patricia Ariza), carcerati ed ex-carcerati di Milano (guidati da Donatella Massimilla), pazienti autisti dell’ospedale psichiatrico di Betel (che avevano partecipato a un seminario con Brigitte Cirla). La protagonista della scena finale era Melissa di Gotas de Rap, il gruppo colombiano. Aveva portato tutti gli spettatori dalle sale del municipio in piazza e lì era salita su una scala per lasciar andare una barca che è volata lontano portando messaggi scritti dai bambini di un quartiere di Wuppertal.

Melissa, nello spettacolo Opera Rap presentato al secondo Transit dedicato a “Politica” con la regia di Patricia Ariza e Carlos Setizabal, era la ragazza di un giovane ucciso del quartiere povero della Crucecita a Bogotá. Il giovane aveva sempre desiderato vedere il mare. Così, i suoi amici lo hanno dissotterrato e, dopo una notte passata nei bar sostenendo il cadavere come un ubriaco, lo hanno caricato su un autobus per portarlo alla costa. Melissa, diciassettenne e incinta di sette mesi, era venuta insieme al suo gruppo di giovani cantanti rap colombiani, mentendo a Patricia Ariza sui mesi della sua gravidanza. Con il suo pancione saltava più degli altri, cantava con più decisione, ballava senza sosta e insegnava con entusiasmo. Cantava contro i militari, contro il machismo, contro la violenza, vestita con una maglietta e pantaloni larghi che strascicavano per terra. Ho dedicato il terzo Transit sul tema “Generazioni” a lei. Era di nuovo incinta quando è morta nel 1999 assieme al suo primo bambino in un incidente automobilistico, andando al mare.

Per il secondo Transit dedicato a “Politica” avevo invitato donne di ogni età impegnate a rendere l’impossibile possibile. La complessità dell’intervento in situazioni e realtà estreme dove la comunità sociale sembra non essere più possibile, ci facevano riscoprire quella potenzialità del teatro che apre spiragli in cui possono accadere infimi miracoli che ridanno dignità agli individui. Un esempio di questo tipo di lavoro era fatto da Maria Canepa. Aveva più di ottant’anni quando ha risposato per la seconda volta il suo secondo marito, Juan, di trent’anni più giovane di lei. Era una nota e premiata attrice del teatro tradizionale cileno nata nel 1921 e morta il 27 ottobre 2006. Durante la dittatura di Augusto Pinochet insegnava dizione alle mogli dei pobladores arrestati. Sembrava un inconsueto esercizio di sterile tecnica, ma questa pratica ha dato alle donne la sicurezza, il tono e il volume di voce per parlare pubblicamente durante le riunioni al posto dei mariti. Mi raccontava della morte di Pablo Neruda e mi portò a visitare la tomba segreta di Salvador Allende. Su mio invito, Maria partecipò al terzo Transit dal tema “Generazioni”. Per prepararsi allo spettacolo, andò dal parrucchiere; poi, con la sua voce suggestiva e commovente, lesse poesie di autori cileni in Spagnolo, l’unica lingua che conosceva. Una giovane partecipante australiana dopo averla ascoltata, mi disse: “Ho capito perché mia nonna, ogni domenica, usava la tovaglia più bella. D’ora in poi cercherò di fare teatro in questo modo.” Ora vorrei fare uno spettacolo su di lei.

Ho usato il concetto della tradizione come qualcosa che germoglia guardando al futuro, invece che essere dissotterrata dal passato, per il quarto Transit dedicato al confronto delle radici professionali, individuali e culturali. Moltissimi sono stati gli eventi dedicati all’apprendistato. In particolare ricordo che durante varie edizioni di Raw Visions (Visioni crude) del Magdalena Project in Galles si succedevano incontri personalizzati di giovani con esperte di produzione, economia, legge e organizzazione, oltre ai seminari pratici da cui sono nati spettacoli presentati anche in altri paesi. Mentre raccoglievo dei testi sul tema delle generazioni per la rivista The Open Page, mi arrivò un articolo in cui il “maestro” era presentato come un uomo dalla lunga barba bianca seduto sotto un albero. Era un’ennesima conferma della necessità e di uno degli impulsi primari del Magdalena Project: dare alle giovani un’immagine di “maestra” generosa e autorevole, e la cui competenza fa fiorire le sue radici nell’aria. Il terzo Transit ha dato l’occasione a molte di incontrare maestre e il quarto di creare collegamenti sotterranei e aerei fra loro.

Avevo visto un contastorie a Damasco in Siria. Era seduto su una sedia e parlava in una lingua che non conoscevo, ma riusciva egualmente a tenere la mia attenzione. C’era qualcosa di essenziale nel semplice raccontare una storia che volevo ritrovare anche nei nostri spettacoli di teatro. Per questo riunii nel quinto Transit esempi molto diversi di come raccontiamo a teatro: da vere contastorie (fu il primo incontro con Parvathy Baul dall’India) a danze senza parole, da temi sviluppati con una drammaturgia lineare a performance improvvisate, da montaggi complessi di temi disparati alla ripetizione insistente di un solo verso, da storie conosciute in lingue sconosciute a eventi contemporanei da condividere con traduzioni simultanee: tutte storie con una necessità di essere raccontate. Anche la storia di vent’anni del Magdalena Project è stata al centro del programma del quinto Transit. Ci sono state molte proposte: scene in silenzio, fotografie, interi spettacoli, lettere in plastica su cui camminare, lettere proiettate che cadevano come pioggia, canti in lingue incomprensibili, ombre di pupazzi davanti al fuoco, danze di trampoli, una conferenza, feste notturne, cene su tappeti persiani, vestiti coperti di testi, un corpo denudato, gridi d’impazienza, sospiri, risate, fogli bruciati, i racconti seducenti di Shahrazad, film e nuovi progetti.

Durante il quinto Transit cominciammo anche l’esperimento performativo chiamato Donne dagli occhi grandi. Nasceva da un desiderio espresso dalle partecipanti al Magdalena Sin Fronteras di Cuba: vedere alcune delle fondatrici del Magdalena Project insieme sulla scena. Avevo molta paura che la collaborazione fra donne con esperienza e autorità da difendere non sarebbe riuscita. Così ho chiesto a ognuna di partecipare assieme a una loro allieva per evitare comportamenti automatici una verso l’altra. L’esperienza ha dato frutti, ma soprattutto ci ha regalato tempo in sala, un lusso non sempre a disposizione con tanti impegni amministrativi e organizzativi. Ora Geddy Aniksdal ed io, stanche di portare sempre i nostri soliti spettacoli ai festival, e volendo passare più tempo assieme, abbiamo messo in moto la nuova sfida di preparare uno spettacolo insieme per il terzo Magdalena Sin Fronteras nel gennaio 2011. Prenderemo spunto dall’uomo con birra che Parvathy ha improvvisato per ringraziare i tecnici al sesto Transit e da Mette Jensen, la responsabile della cucina sempre presente ai festival di Holstebro.

La “periferia” come tema per il sesto Transit emerse dalla mia domanda su perché tante donne scelgono di lavorare in villaggi, quartieri e situazioni lontani da quello che generalmente è considerato il centro politico, economico e culturale. Avevo bisogno di analizzare la relazione fra centro e periferia. Pensavo al mio lavoro di attrice: il centro, l’energia che proviene dal torso, è essenziale per avere presenza scenica, mentre la periferia con gli occhi, le mani e i piedi tendono a descrivere l’aneddoto. Qualcosa non tornava. Per capire cosa era la periferia dovetti ricorrere a un altro principio del lavoro d’attrice: l’andare fuori equilibrio che trasforma il peso in energia, il bisogno di rischiare per sentire fluire la vita in scena. Le parole assumono significati diversi messi in relazione all’esperienza che viene dalla pratica.

Dall’inizio abbiamo cercato che ogni evento del Magdalena Project fosse documentato per passare informazioni a chi non era stato presente, per costruire un riferimento per le giovani che si avvicinano al mestiere e per scoprire una terminologia che riflettesse più da vicino la nostra esperienza come donne che fanno teatro. Abbiamo cominciato con il Newsletter, un bollettino d’informazione, di stile casalingo e distribuito a una cerchia ristretta di donne. All’inizio le notizie potevano essere la nascita di un figlio, la descrizione di una tournée, l’annuncio di un festival. Ma con le attività crescenti in molti paesi, la creazione dell’International Advisory Board (gruppo consigliere internazionale) e lo stabilirsi di un ufficio centrale a Cardiff, il bollettino d’informazione fu presto stampato in un formato grafico professionale con editoriali, dibattiti, lettere, calendari di eventi e distribuito ad una lista sempre più estesa di abbonate. Dal 1999 il compito dell’informazione è passato alla pagina web (www.themagdalenaproject.org), seguita da Helen Varley Jamieson. Le notizie aumentano a dismisura e la sfida per il futuro è fare di questo strumento un luogo di incontro e riflessione invece di un cartellone pubblicitario. Questo richiede tempo, che nessuno di noi ha.

The Open Page, la rivista annuale del Magdalena, edito da Gilly Adams, Geddy Aniksdal, Maria Ficara, Maggie Gale e me, con la collaborazione di Jill Greenhalgh, prodotto prima da Rina Skeel e poi Luciana Bazzo, cominciò nel 1995. Raccoglie articoli di attrici, registe, studiose, produttrici, danzatrici e cantanti di diversi paesi, ambienti culturali e generazioni, su temi scelti in concomitanza con le questioni emergenti dalle attività e dalle componenti del Magdalena Project. Il titolo contiene nell’ordine sempre “teatro” e “donne”, seguito di volta in volta da “miti”, “vite”, “politica”, “trapasso”, “generazione”, “testo”, “viaggio”, “personaggio”, “lotta”, “pietra miliare”, “pratica”, “canto”, “lettere”. In cantiere il prossimo numero ha come tema la “risata”. Vorrei che questo prossimo numero sia fatto da un nuovo gruppo editoriale, per spingere la rivista in una nuova direzione. Sembra però che questo desiderio non si realizzerà e così siamo in pausa, mentre ci dedichiamo a dare un seguito di libri a The Way of Magdalena di Chris Fry con la casa editrice The Open Page Publications.

Evidentemente la motivazione insita nella storia della rivista non è sufficiente perché altre realizzino un lavoro che richiede molto impegno e tempo. In passato noi della vecchia redazione eravamo compensate dalla festa che era ogni incontro per noi. Il lavoro con gli scritti era anche un modo di stare insieme con amiche, di ridere a crepapelle, di prendersi cura l’una dell’altra, di passeggiare e mangiare bene, di bere champagne e vedere posti nuovi. In Magdalena, con la documentazione e la Newsletter, già era in atto la pratica di incoraggiare a scrivere, a riflettere e a condividere le proprie esperienze oltre il risultato artistico presentato sul palcoscenico. The Open Page ha seminato e continua a raccogliere i frutti dell’impegno di raccontare e spiegare, anche se a volte si è dovuto persuadere le donne che hanno poca confidenza con lo scrivere di ripescare le loro pagine dal cestino: quello che è scritto non appartiene più a te, ma a chi leggerà. La responsabilità della trasmissione richiede coraggio, assiduità, dedizione, ma anche una buona dose di umiltà.

Il Festival Magdalena tenuto a Cardiff nel 1994, organizzato da Jill Greenhalgh, è stato una celebrazione di tutto ciò che avevamo realizzato. Marcò un passaggio netto dalle lamentele e frustrazioni espresse nei primi anni da donne che non riuscivano a conquistarsi spazi in teatri diretti da uomini, alla consapevolezza e vitalità di teatranti fiduciose delle proprie potenzialità. Non era più questione di guadagnarsi un posto più alto nella scala di un potere esistente, ma di riconoscere il valore diverso di una nostra organizzazione orizzontale che aspirava a una forza radicata nella vulnerabilità e nell’umanità. Durante quel festival le donne ridevano e ballavano, e alcuni magdalads (uomini accompagnatori) hanno pianto in pubblico. Ero orgogliosa che eravamo riuscite a creare un ambiente talmente sicuro da permettere ai nostri uomini di mostrare le lacrime.

Magdalena Aotearoa (Sally Rodwell e Madeleine McNamara, Nuova Zelanda) e Magdalena Pacifica (Lucy Bolaños e Pilar Retrepo, Colombia) ebbero origine da quel Festival del 1994. Magdalena Segunda Generación (Ana Woolf, Argentina) nacque dal secondo Festival Transit (Julia Varley, Danimarca). Magdalena Australia (Dawn Albinger e Margaret Cameron, Australia) è la conseguenza di Magdalena Aotearoa e di Transit. Magdalena Singapore (Verena Tay e Elizabeth de Roza, Singapore) è diventata una realtà al Festival organizzato a Brisbane. Magdalena Sin Fronteras (Roxana Pineda, Cuba), Magdalena USA (Vanessa Gilbert, USA), Magdalena Antigona e Mujeres Creadoras (Patricia Ariza, Colombia; e Ana Correa, Débora Correa, Teresa Ralli, Rebeca Ralli, e Lorena Peña, Perù), Magdalena Latina (Silvia Pritz e Graciela Rodriguez, Argentina), Magdalena Barcelona (Margarita Borja, Susana Egea e Teresa Urroz, Spagna), Magdalena Norway (Geddy Aniksdal e Grethe Knudsen, Norvegia), Vértice (Marisa Naspolini, Brasile), Magfest (Annamaria Talone e Gabriella Sacco, Italia), Solos Ferteis (Luciana Martuchelli, Brasile)… Lo chiamiamo effetto onda: donne che partecipano a un evento decidono che vogliono condividere l’esperienza con altre donne di teatro del loro paese. Da ogni incontro o festival ne nascono altri; gli anelli provocati dal primo sasso buttato in acqua si allargano e si incrociano con altre onde, creando una fluttuazione densa e fertile di relazioni professionali e personali che sorvolano confini, lingue, stili performativi, tradizioni, barriere economiche e abitudini culturali.

Venticinque anni dopo, i bisogni sono differenti. All’inizio il Magdalena Project ci coinvolgeva a livello personale e, cambiandoci, era intimamente importante per ognuna di noi. Solo più tardi ci siamo rese conto della rilevanza emotiva e professionale che la rete aveva per altre. Ora le giovani cominciano con una motivazione che ha già una visione politica. La conoscenza che abbiamo dovuto conquistare fa parte delle loro possibilità. Prendono l’avvio da dove noi siamo arrivate e sono pronte per nuove e diverse battaglie. Le donne che continuano a tirare sassi nel laghetto della routine e dell’indifferenza, provocando le onde di attività del Magdalena Project, oggi conoscono già quello che ha significato nel passato.

Durante il festival organizzato a Brisbane da Dawn Albinger, assistita da Scotia Monkivitch e Julie Robson, si parlò per la prima volta del Magdalena Project ‘internazionale’ per differenziarlo dalle organizzazioni Magdalena locali che avevano cominciato ad essere attive un po’ dappertutto nel mondo. Si parlò anche di ‘nonne’, per indicare quelle donne che erano state iniziatrici e avevano continuato a seguire l’andamento del Magdalena nei suoi vent’anni di esistenza. All’inizio mi piacque essere definita nonna: pensavo alla libertà di giocare e raccontare senza la responsabilità del genitore. Ma poi noi ‘nonne’ ci trovammo trasformate in monumenti su piedistalli inamovibili, incapaci di imprimere nuovi passi. Mi sembrò che la rete venisse trattata come un’industria multinazionale e l’esperienza diventava la scusa per immobilismo invece di essere di aiuto per intraprendere nuove avventure. Non mi piacque questa sensazione. Eravamo sempre state persone che per interessi professionali avevano formato una rete di contatti personali le cui conformazioni cambiavano continuamente secondo il contesto e le necessità di ognuna di noi. Non avevamo mai parlato in nome di un’organizzazione, come se questa potesse esistere in astratto, separata dall’insieme di individualità spesso in contrasto fra loro, provenienti da esperienze diverse e con ambizioni disparate.

La discussione sul nome come identità caratteristica era sorta dal tentativo di analizzare a fondo quello che fa di un evento, un incontro o un festival, un vero Magdalena Project, come se fosse possibile definirne una forma corretta o sbagliata. Non esistono regole, perché appena le facciamo (come aver partecipato ad almeno due eventi prima di poter organizzare qualcosa di proprio) per difendere il nome e la nomea conquistata con anni di pratica, noi stesse le rompiamo. Esiste l’esperienza e la volontà di condividerla. Suggeriamo alle donne che vogliono organizzare un evento di scegliere un nome autonomo, sebbene siamo consapevoli che molte donne vogliono avvalersi dell’eredità del nome perché dà loro un senso di appartenenza. Esiste poi la soluzione che è scelta volta per volta. Questa diventa parte della storia che portiamo con noi da festival a festival, da incontro a incontro. È una storia incorporata, che cerchiamo di comunicare attraverso il nostro modo di essere e la nostra presenza, per diventare informazione accumulata e disponibile.

Fu al Festival organizzato a Providence, USA, che reagii contro il fatto di essere chiamata “nonna” di Magdalena. Avevo sperato che questo ruolo mi avrebbe tolto il peso del dovere della “madre”, che dà vita a progetti e si prende cura dei dettagli quotidiani nella realizzazione di eventi. Ma – insieme a Jill Greenhalgh, Geddy Aniksdal e Gilly Adams – le più giovani mi guardavano in cerca di approvazione e giudizi, come se io stessa non fossi ancora piena di dubbi e domande, con voglia di trasformazione e rischio, ma rappresentassi solo passato, tracce e segni cementati lungo il cammino e conservati in un museo. Anche mentre scrivo questa cronistoria mi rendo conto che ogni parola è scelta pensando alle sfide del futuro, rifiutandomi di impacchettare l’eredità del passato in sicurezze assolute. Così, per creare rotture, ci è capitato successivamente di fare riunioni informali fra “vecchie” a cui si aggiungono di volta in volta delle “giovani” come Ana Woolf (Argentina), Deborah Hunt (Puerto Rico), Cristina Castrillo e Bruna Gusberti (Svizzera), Helen Varley Jamieson (Cyberspace), Maria Porter (USA), Luciana Martuchelli e Leticia Castilho (Brasile) … e altre “vere giovani” come Gabriella Sacco e Annamaria Talone (Italia), Parvathy Baúl (India), Vibeke Lie (Norvegia), Monica Siedler (Brasile), Eugenia Cano e Amaranta Osorio (Messico), Elizabeth de Roza (Singapore), Natalia Marcet (Argentina)…, per escogitare e reperire sbocchi e indicazioni stimolanti per nuovi incontri.

Il Magdalena Project ha sempre avuto una vocazione internazionale, per mettere sottosopra luoghi comuni e abitudini e imparare dai problemi di incomprensione dovuti alle differenze culturali. È stato il linguaggio professionale del teatro come mestiere in comune che ci ha permesso di comunicare. Ricordo come Atka Ambrova, attrice di Divadlo Na Provazku (Cecoslovacchia), mi guardò male quando mi vide arrivare improvvisamente per l’ultima settimana del festival del 1986. Apparteneva al blocco del regime socialista di allora, ed era convinta che fossi una spia della polizia. Ricordo anche come la coppia di New York che si presentava al festival del 1999 a Wellington in Nuova Zelanda era delusa dalla non prevalenza di lesbiche, e come Brigitte Cirla insorse contro una partecipante al seminario a Cardiff del 1987 che reclamava la presenza di operaie, di gallesi e di donne nere per avere un incontro giusto e corretto. Brigitte, francese del sud, bruna e scura, replicò con voce seria, severa: “Cosa vuoi dire?!” La ragazza, mentre io ridevo in soppiatto, si scusò desolata, convinta che Brigitte fosse africana.

Femminismo, parole e mestiere

 

Sally Rodwell ha camminato tante volte sulla spiaggia di Wellington in Aotearoa-Nuova Zelanda uscendo dal capannone dove lavorava assieme al marito Alan Brunton con un gruppo di giovani teatranti. Con lui aveva condiviso le prime avventure teatrali negli anni 1970, viaggiando in America e in Europa per imparare. Con lui era stata per la prima volta all’Odin Teatret, presentando uno spettacolo al Festival Transit assieme a Deborah Hunt, la collega con cui costruiva maschere in seminari in tutto il mondo. Il 15 ottobre 2006, il giorno dopo aver festeggiato il compleanno del marito morto improvvisamente quattro anni prima, Sally decise che non valeva più la pena di vivere. Sally Rodwell portava sempre una bombetta e calze a strisce. Aveva uno spiccato senso dell’umorismo e lottava come una tigre per i propri diritti e quelli altrui. Assieme a Madeline McNamara era la fondatrice e responsabile artistica di Magdalena Aotearoa, organizzava festival e incontri, redigeva riviste: era forte, ma senza il suo compagno non ha potuto continuare a camminare.

È uno dei tanti esempi di come essere maestra non elimina le contraddizioni insite del nostro vivere, di come ognuna di noi deve affrontare i propri fantasmi allo stesso tempo in cui accudisce i propri sogni, di come l’esperienza non ci toglie mai dall’occhio del ciclone in cui necessità personali e professionali si nutrono e si dilaniano a vicenda. Sally è morta suicida a cinquantasei anni. Le attività del gruppo di teatro e della rete di donne che ha forgiato, infondendoci valori di resistenza e creatività, continuano anche per tenere in vita la sua memoria.

Sono femminista? Certo. Nel senso che sto dalla parte delle donne. Ma non tutte le donne che partecipano al Magdalena Project acconsentirebbero ad essere definite così. Il femminismo acquisisce significati diversi a seconda del luogo e del periodo in cui si utilizza questa parola. Durante gli incontri del Magdalena in Sud America molte donne hanno espresso apprensione e dubbi nei confronti del femminismo: non vogliono combattere per la supremazia accettando le abitudini maschili della competizione. Gettare via il rossetto può essere un atto per liberarsi dalla commercializzazione del corpo femminile o l’esatto opposto: un’imposizione di regime. L’indipendenza, in alcune situazioni, è data dal lavoro, in altre dallo scegliere di essere una casalinga. Per alcune donne, la compagnia maschile può essere confortante, per altre oppressiva e per altre uno stimolo avvincente.

Nella ricerca della propria identità all’inizio è utile la separazione: si pongono limiti per riconoscere le differenze e per sentirsi sicure. Questo è successo in tutti i movimenti di rivendicazione sociale: neri, indigeni, studenti, lavoratori, omosessuali e donne. All’inizio c’è qualcosa da difendere, ma quando l’autonomia si rafforza, la separazione è prescindibile. Anche negli incontri e festival del Magdalena Project nei primi anni partecipavano quasi esclusivamente donne, ma una volta trovata la sicurezza è stato facile introdurre senza frizioni la presenza maschile. Ora fra i nostri sostenitori e ammiratori più accaniti ci sono vari compagni, mariti, tecnici, attori e registi.

All’inizio ci rendevamo conto che troppi spettacoli con attrici erano diretti da uomini, ora invece succede che ai festival partecipino spettacoli di tutti attori maschi diretti da donne. L’essere donna non è sufficiente come motivo per inserire uno spettacolo o un seminario nel programma di un incontro Magdalena, anche se molte che mandano proposte pensano che lo sia. Ogni volta che organizziamo un evento restano fuori un’enorme quantità di spettacoli in cerca di occasioni per essere visti. Le scelte sono dettate dal tema del festival ma anche da motivazioni personali di chi è responsabile dell’evento. Molte volte ho dovuto dire a chi si lamenta della mancanza di questo o quello: organizza tu un festival e invita quello che ti interessa! Spesso coloro che protestano sono quelle che non hanno intenzione di fare lo sforzo di organizzare e che non sapranno mai quanta preparazione, riflessione e lavoro c’è dietro un programma: abbinare persone, spettacoli, seminari, dibattiti, nazionalità, generazioni, personalità, esperienza, estetiche, stanze, cucine, sale, annunci, articoli, lingue per creare una chimica che funziona.

Il “femminismo” del Magdalena Project è legato all’obbiettivo di dare alle donne più occasioni possibili di mostrare il proprio lavoro e condividere esperienze in un’atmosfera di intimità, con scambi e spazi individuali e collettivi; creare riferimenti di maestre donne; incoraggiare donne a scrivere e documentare creando un linguaggio che sia più rispondente alla nostra storia. Nel nostro piccolo non vogliano creare un’ideologia, ma interazioni, legami, attività, stimoli per progetti futuri e collaborazioni impensate; non crediamo in una linea di partito del Magdalena, ma nel dare spazio alle diversità che ognuno di noi rappresenta. Vogliamo essere un ambiente in cui la comunicazione e la crescita possano rafforzarsi.

Oggi quando leggo delle rappresentazioni in Tailandia, Cambogia e Vietnam di Monologhi della vagina organizzati da PETA, un’importante organizzazione culturale di donne delle Filippine con cui ci siamo incontrate in varie occasioni, mi chiedo perché non ho mai invitato uno spettacolo simile a Transit. E quando ripenso al Festival del 2007 a Barcellona e all’amalgama difficile fra le donne che provenivano da esperienze del Magdalena Project e donne che appartenevano ad ambienti teatralmente e politicamente più tradizionali basati sull’interpretazione di testi e sul femminismo degli anni ’60 – un incontro tanto voluto da Margarita Borja – mi chiedo in cosa consista la nostra diversità di percezione.

A Barcellona, assieme a Patricia Ariza guardavo sconcertata alcuni spettacoli che riscuotevano successo unicamente perché affrontavano il tema dell’oppressione femminile. Per le donne presenti, l’applauso era un modo di confermare la loro solidarietà con le problematiche, senza preoccuparsi del fatto che l’interpretazione, i costumi, gli oggetti e lo spazio riproponevano estetiche televisive, attrici senza presenza e personaggi stereotipati. Osservavo, altrettanto sconcertata, come di fronte ad altri spettacoli alcune spettatrici si arroccassero sulla letteralità dei significati invece di lasciarsi trascinare dalla forza delle metafore delle immagini teatrali che funzionavano per me. Penso in particolare all’azione di intenso impatto dello spettacolo Vigia – The Acts, con la regia di Jill Greenhalgh sul tema delle giovani donne stuprate e assassinate nella regione di Ciudad Juarez in Messico, in cui le ragazze in scena si toglievano a turno le mutande con un’azione lenta, ripetuta e senza espressione. L’atto mi faceva riflettere in silenzio sui molteplici aspetti delle problematiche presentate nello spettacolo.

Ho insistito spesso durante i dibattiti sul fatto che non possiamo accontentarci di un nostro prodotto solo perché il tema che trattiamo è importante, perché parliamo di violenza su donne o bambini, di guerra o ingiustizia sociale. Più rilevante è il tema e più dobbiamo trattarlo con professionalità, attenzione e cura, e soprattutto poesia, forza creatrice e rigore. Più abbiamo urgenza di comunicare un messaggio e più dobbiamo concentrarci sul come lo presentiamo, sulla sua efficacia nel colpire in profondità, sconvolgendo le buone intenzioni e i luoghi comuni della nostra indignazione. Non abbiamo il diritto di ridurre la complessità di questioni vitali a un teatro senza spessore, né di rinunciare a catturare l’attenzione degli spettatori solo perché sentiamo un peso dentro di noi.

Abbiamo scelto di fare teatro. Il modo efficace di lottare è fare bene il nostro lavoro, esigendo da noi stesse un’attenzione estrema per ogni dettaglio, per ogni cellula dei nostri spettacoli. L’essere vittime, sfruttate, oppresse, non può essere una scusa per presentare un lavoro al di sotto delle nostre possibilità. Se aspiriamo a un cambiamento, dobbiamo impegnarci e abituarci a dare sempre il meglio. È evidente che uno spettacolo presentato a un festival ufficiale in una metropoli moderna ha un effetto diverso se presentato in una scuola di campagna dove nessuno ha mai visto teatro. Il contesto decide se il nostro lavoro funziona o meno, e influenza la ricezione dagli spettatori. Ma non per questo dobbiamo rinunciare a prepararci al massimo per ogni occasione.

Negli incontri di Magdalena ci è sempre stato difficile parlare degli spettacoli. Le parole possono fare male, i giudizi possono non tenere in considerazione le condizioni in cui il lavoro è venuto alla luce, i gusti personali possono essere esternati con poca comprensione per scelte diverse dalle nostre. Una frase equivoca, un aggettivo inappropriato, un certo tono di voce, invece di incoraggiare e stimolare, conseguono il risultato contrario. Così, per evitare discussioni poco fertili e situazioni da banco di accusa che provocano reazioni di difesa e chiusura, cerchiamo di non criticare in pubblico, lasciando alle conversazioni personali il compito di commentare. Questa pratica però è accompagnata da un senso di frustrazione nel vedere troppi spettacoli che non ci convincono. Dobbiamo imparare a parlare degli spettacoli in modo che sia utile a chi vede, a chi ha fatto, fa e farà.

Durante il primo Festival Transit nel 1992, ho chiesto ad ogni gruppo, regista, o attrice di parlare del processo creativo il giorno dopo aver mostrato lo spettacolo. Evitavamo così opinioni a caldo e la distanza fra le intenzioni e i risultati messa in evidenza dalle spiegazioni dava alle partecipanti un metro di giudizio inequivocabile, rendendo possibile uno scambio di reazioni e commenti. Con gli anni, gli spettacoli nei festival Magdalena hanno assunto il tocco distintivo di chi li crea con scelte che dipendono anche da gusti ed estetiche personali. Durante il festival Magdalena Sin Fronteras a Cuba nel 2008 parlavo con Jill Greenhalgh delle mie reazioni a uno spettacolo che avevo visto, chiedendomi se era giusto parlarne apertamente. Jill mi rispose: “No, la regista è un’artista matura; sa molto bene quello che vuole, conosce i limiti entro i quali lavora e la realtà che deve accettare. La tua opinione non cambierà niente.” Lo stesso valeva per i miei commenti al suo spettacolo: Jill mi ha spiegato i suoi motivi e perché voleva rimanere fedele ai suoi presupposti nonostante io non fossi convinta.

Durante la presentazione del sesto Festival Transit, affrontando la difficoltà e la necessità di parlare degli spettacoli, ho raccontato come Jill Greenhalgh si spiegava il fatto che preferisce vedere una partita di tennis a Wimbledon invece che uno spettacolo di teatro: chi gioca lo fa molto bene e c’è l’eccitazione di non sapere come andrà a finire. A teatro purtroppo molte volte chi presenta non è allenato nel mestiere e gli spettacoli sono prevedibili. Gli spettacoli programmati al sesto Transit erano molto diversi fra loro, testimonianze delle periferie a cui si rifacevano. A parte un paio, tutti gli spettacoli avevano una buona base professionale; artigianalmente erano fatti bene e con cura. Ma mancava ancora qualcosa. Era come se la necessità dello spettacolo non arrivasse a chi guardava, e il lavoro rimaneva un buon esercizio teatrale. Pur adorando le donne che presentano i loro spettacoli, spesso siamo annoiate e intristite come spettatrici. Per questo ho incoraggiato caldamente l’esternazione di commenti in incontri personali. Eppure in un festival è l’intreccio delle varie attività che decide la qualità, esattamente come in un numero di Open Page non sono i singoli articoli, ma la loro contiguità e il loro modo di dialogare reciprocamente che crea una voce forte.

Ho capito l’importanza della contiguità dei nostri punti di vista soggettivi dopo aver inviato un articolo a una conosciuta rivista di teatro. L’articolo trattava di Sanjukta Panigrahi, la danzatrice indiana fondatrice dell’ISTA (International School of Theatre Anthropology), deceduta improvvisamente nel 1997 a cinquantatre anni. Aveva contribuito a fondare una danza classica indiana, l’Odissi. Danzava sulla scena e nella vita come una bambina e un guerriero. Sapeva passare, con una sola piroetta, dalla rappresentazione di un serpente alle gesta di un dio, dall’elefante inferocito a una fanciulla che si adorna con ghirlande di fiori. Negli spettacoli del Theatrum Mundi, l’ensemble dell’ISTA, condividevamo la rara esperienza e la susseguente meraviglia del dialogo fra generi spettacolari diversi e fra logiche artigianali simili. Avevo scritto l’articolo poco dopo la sua morte introducendovi anche sue parole. Non potevo accettare che tutta la sua bellezza non ci toccasse più. Il direttore della rivista mi fece sapere che l’articolo era bello, che lasciava trasparire il mio forte legame con Sanjukta, ma che non lo poteva pubblicare: era troppo personale.

Ho raccontato questa storia varie volte. In quel momento mi resi conto che, come donne che vogliono creare una storia del teatro che riflette le nostre esperienze più direttamente, non dovremmo ambire a raggiungere un livello teorico o accademico obbiettivo, ma imparare a scrivere senza paura con un linguaggio soggettivo capace di informare e affrontare temi di interesse comune. Nella mia pratica di attrice lo sapevo: devo proteggere la mia verità personale composta da contrasti ed opposizioni. In questo si rivela anche la mia ribellione femminista.

Durante il Festival a Cardiff del 1994 organizzai un seminario sulla “teoria”. Ero curiosa di scoprire i motivi dietro la poca dimestichezza delle donne di teatro con i criteri teorici applicabili allo studio e alla storia della propria esperienza. Nella danza le donne hanno elaborato e incarnato molte teorie, ma non in teatro. Le partecipanti al seminario si sono divise velocemente in due gruppi: da una parte quelle che si dedicavano alla pratica e venivano dall’America Latina e dall’Europa continentale, e dall’altra quelle che insegnavano nelle università, per lo più inglesi e nordamericane. La bibliografia di riferimento delle prime includeva soprattutto i riformatori del teatro del Novecento, per le seconde invece lo studio della teoria del genere era il rimando principale.

Jill Greenhalgh mi parla spesso di libri essenziali nella sua formazione che appartengono alla cultura nordamericana del femminismo. Io le parlo invece di romanzi e poesia latinoamericana, o delle filosofe del gruppo Diotima dell’Università di Verona in Italia. Le donne sono spesso al centro della mia attenzione, ma non lo studio del genere. Pur provenendo dalla pratica di un gruppo di teatro, la rabbia è stata il motore di Jill per cominciare il Magdalena Project, prima come attrice e poi come regista. L’ingiustizia che vedeva e viveva sulla sua persona rispetto alla posizione sociale delle donne in teatro e l’indignazione per come è trattato il corpo delle donne, ha dovuto trovare uno sbocco di protesta nella pratica. È stata questa miscela a farle iniziare Magdalena. Il mio riferimento principale invece è sempre la mia pratica di attrice, il pensiero immerso nel corpo, la teoria fatta con i piedi. Magdalena è stato il primo progetto a cui ho partecipato alla ricerca della mia autonomia dall’Odin Teatret. Ora con i festival Transit, con The Open Page, con gli stretti contatti fra la rete e le nostre tournée di gruppo, posso affermare che Magdalena costituisce anche una parte importante dell’identità dell’Odin Teatret e viceversa. In questo sono molto vicina a Geddy Aniksdal e al suo percorso con il Grenland Friteater.

All’inizio il cammino è stato divergente, poi parallelo e ora i cammini s’intersecano lasciando segni che non so più distinguere fra una realtà e l’altra. Nei primi tempi non sentivo rabbia, solo il bisogno di risolvere in modo propositivo la frustrazione nata nell’ascoltare le conferenze di Eugenio Barba in cui menziona i riformatori – solo uomini – della storia del teatro del Novecento. Il Magdalena Project ha offerto spazio a me, a Jill, a Geddy, a Gilly per un nostro confronto/scontro senza lasciarci vincolare dalle nostre opinioni, ma aiutandoci a apprendere avanzando assieme. C’è posto per le rivendicazioni politiche e per imparare a parlare e scrivere. Forse questo è successo perché prima siamo diventate amiche.

Il Magdalena Project dà l’occasione di coltivare amicizie longeve, rinvigorendole con scambi di pratica, progetti e sogni comuni. Questo è uno dei motivi della durata della rete. Molte di noi si sono legate con dei nodi affettivi che sono il risultato di una curiosità artistica e di un impegno nel mestiere. Ci siamo messe a confronto su questo terreno per ampliare i nostri orizzonti e per intrecciare i fili della nostra creatività individuale, rispettando e nutrendoci delle nostre diversità. Non abbiamo mai cominciato da idee o opinioni, ma da compiti concreti. Abbiamo potuto facilmente essere in disaccordo perché questo faceva parte della partecipazione e del fervore dell’incontro. L’esperienza e la storia del Magdalena Project non si lasciano racchiudere in una serie di regole e teorie: appartengono alla presenza e alle azioni, all’energia e ai temperamenti.

Nodi, fili e spazi

 

Ho scritto molte pagine cercando di spiegare la mia motivazione personale nel partecipare alla creazione della rete di Magdalena e il mio modo di spiegarne le conseguenze politiche specifiche, ma le parole non sembrano mai bastare. Ho bisogno di un’immagine parallela per raggiungere il nocciolo di quello che cerco di dire. Devo descrivere un’esperienza che in apparenza non ha nulla a che vedere con Magdalena e che pertanto è per me un esempio dell’essenza che cerco di comunicare. Quello che segue è questo tentativo.

Ho un nuovo braccialetto. Mi è stato regalato a Paucartambo, una cittadina a 3000 sulle Ande, in Perù, a quattro ore di viaggio da Cusco per una strada di terra che sfida burroni, tornanti, cascate, frane, lama, neve, fiumi, camion e massi. Pochi turisti si avventurano per questa strada, mentre lo fanno molti pellegrini e giovani di Lima e Cusco alla ricerca di prove vitali, esperienze intense, balli e alcool per strada, gioia di stare assieme e il privilegio di assistere a uno spettacolo unico che probabilmente durerà solo il tempo che i politici esiteranno prima di far arrivare l’asfalto fino a lì.

Il braccialetto è di legno, con immagini di sante, vergini e cristi per ogni pallina tenuta assieme da un elastico. Una delle immagini è della Virgen del Carmen, la Mamacha Carmen, la vergine che si festeggia per tre giorni in questa cittadina. Mi è stato dato il giorno della processione, il secondo della festa. Ormai facevo parte del popolo che seguiva con partecipazione accanita ogni momento della festa senza farsi domande, ma percependo il nodo di energia che ognuno contribuiva a creare.

Durante la processione ero proprio dietro la Vergine e giusto davanti a una banda di ottoni che suonavano direttamente nelle mie orecchie. Vedevo come i vari gruppi di uomini lottavano per avere il diritto di rovinarsi la spalla portando il peso della Vergine innalzata su una portantina di legno massiccio. Miguel Rubio, il regista del gruppo Yuyachkani che mi accompagnava, per anni aveva fatto lo stesso. Ora non può perché la sua spalla non regge più. Le donne invece lottano a spintoni per portare l’immagine sacra poco prima di tornare in chiesa, perché in quel momento è permesso loro, grazie alla rivendicazione che afferma che anche la Vergine è una donna. Milagros Quintana, una delle produttrici di Yuyachkani che era con me in questo viaggio, ha dato spinte e urti assieme ad un’amica per infilare la sua spalla sotto le sbarre della portantina.

Davanti a me una minuscola nonna indigena avanzava protetta da un giovane nipote che la recintava con il suo corpo. Credo che l’unica cosa che la nonna vedesse fosse la schiena di chi era davanti a lei, una delle migliaia di persone della processione strette in un abbraccio collettivo senza possibilità di una qualsiasi decisione individuale. Rispetto ai Peruviani a Paucartambo, sia indigeni che meticci, sono alta. Potevo dominare il percorso da sopra le loro teste ed evitare di sentire claustrofobia quando la processione entrava in una parte della strada ancora più stretta, quando frotte di spettatori volevano infilarsi nella fiumana umana, o quando la Vergine doveva girare un angolo di strada, abbassarsi sotto i fili elettrici, evitare un cartellone pubblicitario e ricevere i petali di fiori che piovevano dalle finestre. Pensavo ai trampoli delle parate dell’Odin Teatret e all’avanzare degli elementi scenici che portavamo con noi: le tecniche erano così incredibilmente simili.

Vedevo davanti alla Vergine i gruppi di comparsas, le confraternite che ballavano avanzando all’indietro per non dare le spalle alla figura sacra preceduta dal prete locale e il Re dei chunchos, il gruppo di danzatori che scorta da ambi lati la statua portata originariamente sulle Ande dagli Spagnoli. I chunchos danzano con piccoli passi balzellanti con cappelli a lunghe piume e un piccolo ciondolo appeso al naso pitturato sulla maschera di rete metallica per indicare che il loro naso cola in montagna perché sono originari delle zone della giungla al livello del mare. Ogni maschera, dalla bocca triste, esprime la desolazione per aver perso la Vergine in un fiume dopo che era stata rubata alla chiesa. Durante la festa devono proteggere la Vergine e combattere con un altro gruppo, i qollas, che vogliono conquistarla. Miguel mi racconta quello che può, dicendomi anche che a molte delle sue domande dei primi anni sul significato di questo o quello gli abitanti del luogo rispondevano: “Ma si stanno solo divertendo, fallo anche tu!”

I danzatori sono centinaia, tutti mascherati, raggruppati in comparsas con maschere e costumi diversi che permettono di riconoscerne la provenienza e funzione nella festa. Ero particolarmente impressionata dalla rifinitura delle maschere nere che raffiguravano gli schiavi negri (qhapac), e dal carattere grottesco di quelle dei commercianti vestiti con larghi pantaloni, giacche e lunghi stivali di pelle, sempre con una bottiglia di birra in mano che si muovevano con grandi passi oscillanti. Le maschere delle donne panettiere sorridevano mentre le maschere dei dottori laureati – maschi e femmine – ammiccavano nascondendo nei quaderni fotografie pornografiche che esibivano di sorpresa. Altre maschere danzanti portavano grandi cappelli ispirati agli sciamani di un’altra regione delle Ande e un gruppo con borse di stoffa gialla picchiava la folla che non lasciava spazio alle comparsas.

Ogni danzatore cuce il proprio vestito e ogni anno deve aggiungerci un nuovo dettaglio, così i costumi diventano sempre più pesanti, variopinti, luccicanti e ricchi di rifiniture. Sono persone del posto: maestri di scuola, contadini, poliziotti, studenti, commercianti, ubriaconi, fedeli, pastori, proprietari di case e di terre, custodi, dipendenti del municipio, pensionati, casalinghe, bambini… Rimango stupita dai bambini che danzano per ore con una disciplina, tecnica e concentrazione esemplare. Ammiro gli adulti, i vecchi e i giovani di tutte le età per la loro capacità di modellare il ritmo e dominare lo spazio con una professionalità che farebbe invidia a tanti attori. Mi sembra che non esista nessun altro mondo così serio come quello determinato dalla tradizione della festa.

Improvvisamente, da sopra ai tetti, sono spuntati i saqras, diavoli dai costumi a colori vivaci, maschere furiose, corna di animale e una lunga chioma bionda. Si nascondevano il viso per non farsi vedere dalla Vergine, scuotevano il loro bastone in segno di minaccia, si spostavano lenti, ondeggiando fra le tegole sugli orli dei tetti. Erano capitanati da una donna-diavolo accompagnata da un diavolo bambino di quattro o cinque anni. Ho pensato: sono pazzi! Tenevo la mano sulla bocca con la stessa meraviglia che ho sentito davanti ai dipinti di Nefertari nella sua tomba sotterranea della Valle delle Regine a Luxor. Penso anche: l’Odin Teatret con le sue parate non ha inventato niente! Il teatro (rappresentazione, racconto, costumi, maschere, musica, festa, rituale, comunità) ha completamente preso possesso della cittadina.

Perché Milagros, Miguel ed io, vecchi militanti politici che da decenni rifiutano il potere della chiesa, e che non crediamo al mea culpa professato dai cattolici, siamo lì a seguire ogni passo della processione come altri che forse sono fedeli e che ad ogni modo si fanno spesso il segno della croce? I tre giorni della festa nelle Ande mi hanno regalato una sensazione che il teatro, con il suo eccesso e capovolgimento delle norme quotidiane, ha ancora senso. Ho vissuto da dentro il tempo dell’incantesimo, quel nodo di energia che si crea solo in situazioni molto particolari, quello stesso nodo che avvolge alcune donne negli incontri di Magdalena e che lo vogliono rivivere e condividere con altre, quel nodo che lega alcuni spettatori al destino dell’Odin Teatret.

Ognuno partecipa al senso della festa, anche suo malgrado, con scene tramandate dalla tradizione e inventate di nuovo ogni anno per i motivi più svariati: uno straniero che vuole unirsi a una comparsa per danzare, un morto che deve essere accompagnato al cimitero, la compagnia di telefoni che paga pubblicità, la voglia di farsi fotografare assieme ad una maschera divertente, il desiderio di sopraffare gli altri per la partecipazione intensa a tutte le ore del giorno e della notte, la bellezza dei costumi, l’espressività delle maschere, la complessità dei passi di danza, la quantità di musicisti e la pericolosità o l’ironia delle scene.

Il primo giorno è l’arrivo: alcuni gruppi entrano in città a bordo di camion addobbati, altri a cavallo, invadendo le strade al galoppo per poi visitare la Vergine già ornata in chiesa. Ogni comparsa ha il suo tempo prestabilito con la Vergine, la sua messa e benedizione. La piccola statua e l’enorme tulle azzurro su cui è appoggiata si coprono sempre più di fiori e bambole. È un via vai di pellegrini che toccano il vestito, si infilano sotto la gonna, pregano, parlano, accendono candele e si raccolgono a gruppi per discutere nella chiesa. Un bambino è caduto da cavallo e piange. L’arrivo in chiesa è rimandato di qualche minuto e ne approfitto per vedere la bacheca in sagrestia con i vestiti coperti d’oro della Vergine. Tanta ricchezza in mezzo a tanta povertà: sono testimone di un filo di contrasti annodati che potrei chiamare potlach, rivincita e dedizione.

Nel pomeriggio i qollas (quelli che vogliono appropriarsi della Vergine), con le maschere di lana e pezzi di pelliccia di lama appesi al vestito, lanciano oggetti di ogni tipo dall’alto di una struttura di legno per conquistare il popolo della città. Volano arance, pane, scolapasta, sgabelli, pentole… La folla deve fare attenzione a non ricevere qualcosa in testa mentre grida e chiama per ricevere qualche dono. Più tardi, quando cala il buio, la città deve essere incendiata. Ora lo stesso gruppo è armato di fuochi d’artificio. Danzano con petardi e razzi fiammeggianti che partono da strutture attaccate al corpo, buttandosi in mezzo alla folla e sparando da vicino e lontano in tutte le direzioni. Mi chino e mi proteggo il viso in continuazione per paura di prendere particole infuocate negli occhi. I fuochi d’artificio culminano in un arcobaleno di spari da tre grandi strutture di legno agli angoli della piazzetta principale assieme al volo di roghi di paglia imbevuta di peperoncino per irritare gli occhi. Che libertà totale e assoluta! Niente di questo sarebbe possibile non solo in Europa con le sue ferree regole di sicurezza, ma neanche nella non troppo lontana Lima.

Si consumano litri e litri di birra, mentre un gruppo di donne con pazienza pulisce in continuazione le strade. Gli ubriachi dimenticano di usare i gabinetti situati in punti strategici e bisogna fare attenzione dove mettiamo i piedi. Per fortuna nella casa con una stanza dove dormiamo in quattro, il proprietario ci ha permesso di usare il gabinetto sotto chiave. Pentole che emanano odori indescrivibili e bidoni con quello che immagino siano maialini bolliti – e che sono porcellini d’India – sono esposti dappertutto per invogliare compratori. È difficile trovare qualcosa che abbia voglia di mangiare; vivo a pane, pizza, frutta secca e biscotti portati con noi da Cusco.

Il secondo giorno di mattino c’è la messa ufficiale sul sagrato della chiesa. Le panche di legno per i danzatori e i fedeli occupano tutta la strada con le case in pietra chiara e porte e finestre dipinte in azzurro. La Vergine è all’aperto protetta dalla comparsa mascherata con i copricapo di piume. Il Re e suo figlio di quattro anni, vestiti uguali di blu, con la parrucca, la corona e la spada in mano, sono accanto al prete e partecipano al rituale della comunione con pane vero e uva. Le autorità sedute in prima fila sono contornate da gruppi di persone mascherate che sembrano terroristi burloni. Le preghiere sono interrotte regolarmente dai canti e dalla musica del gruppo degli schiavi negri che stringono in mano la scultura di un braccio con il pugno chiuso e hanno catene legate al polso o ai piedi. Il violino andino si mischia alla voce del prete che officia e del chierichetto che aiuta. A turno tre capitani di gruppi di danzatori vengono a leggere parti del Vangelo. Il prete si irrita un po’ e chiede silenzio al sentire la musica di un’altra comparsa in arrivo. Parla sottovoce al poliziotto locale accanto a me che si allontana in fretta. Qui non ci sono radio e i telefoni prendono solo a tratti. Davanti all’altare vi sono scatoloni di cartone pieni di offerte. Fra gli spettatori ascolto i commenti di quelli che riconoscono il ministro del turismo e l’ex-ministro del lavoro, un uomo del posto. Sono arrivati in elicottero. Rimango in piedi sotto il sole tutto il tempo della messa. Mi affascina il miscuglio inestricabile di realtà e teatro, di rito cattolico e rituale pagano, di rappresentazione di una storia mitica e della necessità reale di un intervento divino per migliorare le condizioni di vita, dell’obbedienza totale alle figure mascherate che fanno posto per il passaggio del prete e delle proteste che si sollevano violente per esigere una strada asfaltata nel momento in cui prende la parola il ministro del turismo.

Nel pomeriggio la processione dura solo quattro ore, anche perché comincia a piovere, cosa stranissima in questa stagione. Dicono che la Vergine è scontenta per la quantità di birra che si beve. La coprono con un velo di plastica perché non si rovini il vestito sotto la pioggia. Sotto i nostri piedi, fango. Anche il mercato estemporaneo attorno alla festa diventa un campo di pozzanghere, una palude che attraversiamo con attenzione alla ricerca di pezzi di plastica da trasformare in impermeabili. Miracolo! Appaiono venditori di ombrelli!

La sera le comparsas si fanno visita nelle loro sedi o dove sono alloggiate per la festa. In tutte le case si balla accompagnati dalle diverse orchestre delle comparsas: quella dei commercianti, dei panettieri, dei giudici, delle danzanti… Sono diciannove in tutto, ognuna con i suoi costumi, passi di danza, ritmi, maschere, stili di ironia, tradizioni, storie e canti. Miguel, come padrino dei chunchos (i protettori della Vergine), offre loro quaranta casse di birra che saranno scolate in una sera. Il gruppo visitante deve mostrare le loro danze e all’entrata si formano code di giovani che vogliono ballare anche loro. Per strada si incontrano amici, visitatori e i piccolissimi indigeni che sono venuti dalle montagne vicine e lontane. Una famiglia di due donne e due uomini di cui non riesco a capire l’età e la relazione, con le guance rosse e la pelle rovinata dal sole, dall’altitudine e dal lavoro, con i piedi scuri in sandali fatti di gomma di pneumatici, le tipiche gonne ampie e rotonde e i pantaloni troppo corti, le sacche di stoffa lavorata al telaio, guarda affascinata un gruppo di giovani di città che beve.

Il terzo giorno comincia al cimitero. Se è morto qualcuno in una comparsa, vanno a visitarlo, depositano le maschere sulla tomba o le appendono alle croci, si inchinano davanti alle fotografie, fanno discorsi, cantano, suonano, ballano, e ancora una volta scorre la birra. Qualcuno piange. C’è rispetto, ma di tipo sostanzialmente diverso da quello che siamo abituati a vedere in un luogo simile. È impressionante vedere il cimitero riempirsi lentamente di figure teatrali, con un’audacia di appropriazione di uno spazio considerato sacro. Anche i morti devono partecipare alla festa, anche i morti devono continuare a vivere. È al cimitero che si battezzano i nuovi membri delle comparsas al suono di vere frustate. Di fronte all’autorità degli anziani e dei morti – nel cimitero – comincia la nuova vita con i privilegi e i doveri che implica partecipare attivamente alla festa. Da quel momento ogni nuovo battezzato deve lavorare, provare, ballare per molte ore nonostante le ferite provocate dalla frusta.

Poi arriva il momento del punto cruciale di tutta la festa: la guerriglia. Fortunatamente mi è stato trovato un posto su un balcone che dà sulla piazza, a pagamento. Molti spettatori in strada si sono armati di coperte e teli per proteggersi da tutto quello che è lanciato loro addosso durante la scena finale che dura molte ore. Volano di nuovo le arance come palle di cannone, ma anche farina, pane, fuoco, e soprattutto birra, che ora non serve più per bere ma per un battesimo collettivo. Passa di nuovo la processione con la Vergine dirigendosi al ponte sul fiume Mapocho. Questa volta sono le figure mascherate di una comparsa che portano la Vergine. Le guardo dal mio balcone, tra la ressa dei fedeli che ondeggiano da una parte all’altra cercando spazio nella piazza strapiena. Alcuni danzatori avanzano all’indietro, il prete fa dondolare l’incensiere al ritmo della musica della banda, a distanza le musiche delle orchestre si mischiano in una cacofonia mentre i danzatori seguono il ritmo di una melodia che non sento le cui note abbinano composizioni moderne con strumenti suonati allo stile dei contadini. Qualche lama impedisce di procedere. I personaggi clown attraggono alcuni spettatori subito respinti a colpi da altre maschere. La folla degli spettatori gioca a pigiare e farsi pigiare, mentre da dietro si aggiungono sempre più persone. La processione ritorna. Le comparsas fanno il giro della piazza; un gruppo di toreri mascherati insegue un uomo-toro che è catturato dalle corde di donne mascherate che ballano con brio. Da un portone esce una morte-sposa con un lunghissimo strascico bianco, accompagnata dallo sposo, da un prete in maschera e un’orchestra che li segue con un inno nuziale; fanno il giro della piazza, il prete dà la sua benedizione, lo sposo mette l’anello alla sposa-morte, lei lo bacia con passione e nello stesso momento un bambolotto è lanciato in aria. In un angolo, per terra, un gruppo dei qollas legge le foglie di coca per sapere l’esito della battaglia, prima di cominciare la guerriglia con i chunchos. Si rincorreranno a lungo; il capo dei qollas sarà sconfitto e portato all’inferno in un carro di fuoco.

Non vedo questa fine. La festa è durata molto più del solito e devo partire. Da Cusco un aereo mi porterà a Lima e poi in Brasile per il secondo incontro Magdalena Vértice. Mi sono permessa di arrivare al festival di Florianópolis due giorni in ritardo, di più non posso. Parto con la sensazione di aver subito un bombardamento di immagini che voglio condividere con altre teatranti, per di più giovani brasiliane, parlando di “Eredità e sfida: il Magdalena Project”.

Quando mi si chiede cosa è il Magdalena Project, e come ci si può partecipare, uso spesso l’immagine della rete come una rete da pesca. I fili creano intersezioni visibili, ma l’identità elusiva del Magdalena Project è rappresentato dagli spazi fra le linee. I fili sono gli eventi, le donne, gli spettacoli, i seminari, gli incontri; ma quello che conta è lo spazio vuoto tra le loro intersecazioni. È lì che trapela il senso personale che ognuna ci immette, quello che dà una direzione ai nostri passi, alle piccole azioni che sembrano non influire sull’andamento del mondo. Nel Magdalena Project, donne si conoscono, fanno amicizia, condividono, lavorano insieme, imparano ed insegnano. Quelle con esperienza professionale diventano modelli da emulare per quelle che iniziano; attrici trovano registe; donne solitarie trovano gruppi. Si creano spettacoli, progetti, festival e riviste. Si stabiliscono contatti attraverso i continenti e si organizzano tournée. Ogni incontro ne ispira un altro trasmettendo la fiamma dell’entusiasmo e l’audacia dell’iniziativa. Ma è nello spazio vuoto, grazie all’incontro dei fili, che si sprigiona il nodo di energia, il tempo dell’incantesimo, che mantiene il nostro progetto in vita perché ci è ancora necessario.

L’identità della rete con i suoi fili e i suoi vuoti non si lascia ingabbiare da parole dotte o teorie originali; non è stata edificata con mattoni che possono essere bombardati. È cresciuta da profondi e contraddittori legami le cui motivazioni ad agire lasciano un segno sulla piccola parte di storia e società di cui ognuna di noi fa parte.

Spesso ci domandano perché il Magdalena Project, questa rete di contatti e di eventi, ha resistito così a lungo, e continua a svilupparsi malgrado i cambiamenti storici, generazionali e di estetica teatrale. Al Vértice in Brasile ho risposto per vie traverse. Ho descritto la festa di Paucartambo, parlando del bisogno di appartenenza, rituale, festa, trascendenza, impegno, ironia, massima presenza, teatralità, metafora, azione, politica, cambiamento, coerenza, comunità, condivisione, contiguità di opposti, come quello a cui ognuno di noi anela. Ognuna di noi, attraverso il teatro, può occupare a suo modo la città, istaurare altre regole, rovesciare la quotidianità in eccezionalità, esigere da se stessa un eccesso, uno sforzo anormale per festeggiare il tempo passato assieme e rianimarci per un futuro incerto.

Se l’eredità del Magdalena Project è lo spazio aperto in mezzo ai fili che si incontrano, allora la sfida che ci presenta la nostra storia è perenne e giornaliera. Ognuna di noi – da quella appena battezzata con la frusta del cimento alla fondatrice stanca e battagliera, dalla giovane entusiasta a quella che riposa nel cimitero dei ricordi, da quella che grida la sua protesta a quella che aspetta in silenzio – ognuna di noi è consapevole di dover popolare gli spazi con azioni, riempiendoli con un proprio senso politico e personale e allo stesso tempo lasciandoli vuoti. L’impossibile continuerà a succedere solo se infondiamo al nostro teatro un valore personale che incide in modo subliminale su noi stesse e sulla comunità. Così lo stato d’incantesimo persisterà nel tessere nodi, facendo dell’eredità una sfida, e noi potremo continuare a lasciare segni lungo il cammino.