diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 14 – 2016

Ho Letto

Lucia Bertell, Lavoro ecoautonomo. Dalla sostenibilità del lavoro alla praticabilità della vita

 

 

Lucia Bertell in questo testo (eléuthera ed., Milano 2016) sviluppa una critica alla concezione di sostenibilità, egemone oggi per quanto riguarda la qualità del lavoro e gli interventi sull’ambiente. Al suo posto propone e articola un’idea di lavoro e di rapporto con la natura incentrato sulla vita, quale luogo sorgivo di un altro modo di vivere il lavoro, la natura, in genere l’ecosistema. Il libro apre allo stesso tempo una costellazione di questioni politiche con le quali vorrei entrare in dibattito.

Ha già un preciso peso politico e conoscitivo il fatto che il libro inizi con una bella introduzione in forma di dialogo tra l’autrice e Cristina Cometti, medica che ha scelto una via di ricerca autonoma nell’ambito epistemologico delle scienze mediche. Ed è accompagnato da una altrettanto interessante postfazione in forma di dialogo tra Antonia De Vita, Federica De Cordova e Giorgio Gosetti, ricercatori dell’università di Verona, legati a Lucia Bertell dalla comune impresa di “Territori in libera transizione” (Tilt), che si propone di riflettere sulle esperienze soggettive in trasformazione nella società contemporanea e i contesti ad esse correlati. Infatti uno dei concetti chiave del passaggio a forme di lavoro in connessione con la vita è quello di relazioni istituenti, relazioni cioè tra persone che assumono il legame di fiducia tra loro come fondamento per la creazione di esperienze di lavoro autonome e indipendenti. Così Lucia Bertell, costruendo il libro con questa introduzione e postfazione, convoca le relazioni che per lei sono istituenti per la creazione di un campo di pensiero. Non solo dunque pone questo concetto al centro della filosofia che attraversa il libro, ma anche lo mostra in atto nella composizione del testo.

Quello che interessa all’autrice è mettere in evidenza come i lavori che intrecciano vita e impresa seguendo una “praticabilità della vita” – termine coniato a partire da questa ricerca – sono molto diversi dalla vasta area di lavori dell’ambito del così detto sociale, intendendo con questi il cooperativismo, l’associazionismo che, impegnandosi nel campo dei servizi alle persone, alle cose, si sono sostituiti nel tempo al welfare che lo Stato prima dell’attuale neoliberismo assumeva su di sé. Avendo lavorato per anni in modo tangente a questa area che qui critica, l’autrice individua come più valida e meno strumentalizzabile dalla ideologia neoliberale l’esperienza di piccole imprese legate al profitto e non al non profit sociale. Imprese però che hanno certe caratteristiche di grande valore simbolico.

Le istanze di libertà e autogestione, che inizialmente avevano nutrito l’area dell’economia sociale, sono state perse per strada, piegate ad altro dall’ideologia neoliberale. Questa stessa istanza è a suo modo di vedere ripresa oggi in modo diverso ma affine nella spinta libertaria da piccole aziende cooperative agricole, sulle quali in modo particolare si concentra la sua ricerca. Ma non si tratta solo di agricoltori. Lei intervista anche libraie, maestri, artigiani, e riporta i loro discorsi in forma di narrazione. Resta che il lavoro con la terra dà il tono al libro, la sua cifra. Perché in qualche modo, nella sua specificità che riguarda il corpo e i cicli delle stagioni, insegna uno stile di vita.

Il valore simbolico di queste imprese è che cercano un profitto sul mercato, creando però un tessuto di vita denso di significato. Quel che è prodotto viene preferibilmente venduto all’interno di reti dove chi compera riconosce la qualità del prodotto, la sa comunicare a chi produce, dando una misura, e si forma in questo modo uno stile di vita che nasce dallo scambio tra produttori e consumatori.

La flessibilità richiesta da un neocapitalismo che rende precarie le vite, esautorate di ogni autorità, è diversa dalla flessibilità agita come autodeterminazione dei tempi, dei campi di interesse. Una flessibilità che, all’interno di queste imprese, permette – soprattutto alle donne, come Bertell osserva – nuove forme di conciliazione tra vita e lavoro.

C’è una forte impronta del dibattito femminista sul lavoro degli ultimi decenni nell’affermazione di Lucia Bertell quando, parlando di praticabilità della vita, afferma che l’economia è solo uno degli elementi che riguardano la vita nel suo insieme, perché la vita è molto di più dell’economia (pag. 123).

Il guadagno che l’autrice ha avuto dall’attraversamento di queste forme di lavoro autogestito e dalle narrazioni dei loro protagonisti è la convinzione che esse sono alimentate e orientate dal desiderio di libertà. L’istanza della libertà è dunque quella primaria, profonda, che ha portato le diverse protagoniste e protagonisti di queste storie a lasciare lavori dipendenti per il bisogno di agire autonomamente, imparare facendo, creare contesti di fiducia da cui guadagnare non solo ciò che serve per vivere ma anche una stima di sé, una vita ricca di senso, un certo modo di abitare questo mondo comune. E in questa direzione l’autrice mette in evidenza come siano state le donne agli inizi degli anni Novanta a cercare di coniugare libertà e lavoro e come tale istanza, poi andata annacquata nel tempo, ritorni evidente in queste nuove forme che lei descrive.

Come dicevo, il testo è attraversato da punti di snodo politico-filosofici sui quali vorrei fermarmi.

Innanzitutto il nucleo portante di queste forme di lavoro autogestito è composto da una costellazione di pratiche, che Lucia Bertell così inanella: le relazioni istituenti, alcune nuove nominazioni, la cura del lavoro come autorealizzazione, la presa di distanza dalle istituzioni, il bisogno di informalità (pag. 154). Cerchiamo di capire questa costellazione. Perché il lavoro sia una forma di autorealizzazione c’è bisogno di relazioni istituenti, che ci offrano la forza sorgiva che va di pari passo con il sottrarsi alla forza delle istituzioni date. Le relazioni istituenti sono garantite dalla fiducia che lega a persone che si legano a noi per lo stesso vincolo libero. La fiducia apparentemente è solo un sentimento, ma in realtà è il primo e più importante ponte simbolico per creare spazi autonomi. Inoltre, affinché queste nuove realtà abbiano autonomia, è necessario offrire loro mediazioni che le significhino, che le portino al senso di un linguaggio che sia in sintonia con esse, che non le tradisca, sottraendosi alle mediazioni linguistiche suggerite dall’ideologia neocapitalista. Per questo Lucia Bertell insiste così tanto sulla nominazione di queste nuove realtà.

Il linguaggio è dunque uno dei campi di battaglia politici più importanti. Se le forme di lavoro autorganizzato rifiutano le mediazioni imposte dominanti e si pongono come un presente sorgivo, hanno bisogno di un legame altrettanto sorgivo tra le parole e l’esperienza. Per questo Lucia Bertell insiste sul mettersi in sintonia con la capacità di nominazione propria della lingua materna, attraverso la quale abbiamo imparato per la prima volta a legare le parole alle cose. Non si tratta di ripeterla, ma di riprenderne il gesto inaugurale.

Lucia Bertell ha molto presente l’importanza di questa scommessa sul linguaggio. E in questo, nella scrittura del suo libro, si fa aiutare dalla lettura di testi poetici, che più degli altri sanno creare un circolo tra la lingua e le cose. In particolare ha come guida il fare poesia di Mariangela Gualatieri.

Anche nell’ultimo libro di Diotima, Femminismo fuori sesto. Un movimento che non può fermarsi (Liguori, Napoli 2017), il testo di Lucia Bertell pone al centro il valore politico della lingua materna, che ha posto come fondamentale nel suo libro.

Vengo ora ad un altro tema fondamentale del testo. Oltre a sentirsi in sintonia con i movimenti ecologici, l’autrice riconosce una doppia genealogia: il femminismo e il movimento anarchico. Ne sente la radice vincolante e ne prende l’essenziale per interpretare le esperienze che le stanno a cuore e che va dispiegando nel libro. Mi sembra molto interessante l’accostamento tra queste due realtà a prima vista molto diverse, ma che considero vicine prima di tutto per il desiderio di libertà che è alla radice del movimento femminista e che è misura dell’azione anarchica. Tuttavia questo accostamento – reale, profondo nell’esperienza di Lucia Bertell – porta a dei paradossi che toccano questioni politiche tutt’ora aperte e che cercherò di affrontare in conclusione di questo testo.

Al femminismo viene riconosciuto molto: il gusto della libertà, l’attenzione alla radice della vita, la relazione come via prima di un tessuto politico, la fedeltà alla lingua materna, la pratica di partire da sé. Pure al movimento anarchico molto viene riconosciuto: il valore di un’autonomia autorganizzata, il passo indietro rispetto alle istituzioni, il sottrarsi alla visibilità pubblica per la creazione di percorsi politici nuovi e imprevisti che hanno bisogno di un tempo proprio.

Giustamente Lucia Bertell riconosce ad entrambi il fatto di sottrarsi ad un riconoscimento da parte del potere. Non solo, ma di avere nei confronti del potere dominante una posizione che non è né contro né a favore. Piuttosto viene indicata una posizione terza, altra. Giustamente viene notato che la dialettica di inclusione ed esclusione non appartiene a questi due movimenti.

A questo proposito l’autrice introduce il concetto di carsismo per indicare una pratica politica di scelta della invisibilità pubblica e di rifiuto di ogni riconoscimento sociale. Questo con lo scopo di non essere fagocitata dai meccanismi di inclusione sociale. Un’invisibilità che non è nulla, niente, perché in essa vengono tessute relazioni istituenti di cui gli effetti trasformativi possono essere colti solo nel lungo periodo. Bertell riprende una figura marxiana presente nella politica degli anni Settanta, quella della vecchia talpa che scava cunicoli che portano là dove non ci si aspettava, dato che non la vediamo. Certo questa figura, che le permette di interpretare le scelte dei lavoratori ecoautonomi che sono al centro della sua ricerca, è più vicina alle pratiche anarchiche che a quelle femministe.

Infatti è proprio su questo carsismo e sull’invisibilità come scelta politica che vedo una differenza con il movimento femminista.

Si è parlato più volte di movimento carsico per il femminismo. Ma lo si è inteso in un altro modo. Si tratta del fatto che in certi periodi, dopo una grande visibilità, il movimento femminista si inabissa, per un tempo imprevedibile, per poi ricomparire in forme altre, diverse, ma con una sostanziale fedeltà al suo nucleo portante. I momenti di inabissamento non sono negativi, preservano trasformazioni che richiedono riservatezza, tempo. Ma non sono certo una scelta politica intenzionale. Capitano. Sono contingenti.

Il carsismo di cui parla Lucia Bertell presuppone relazioni che costruiscano contesti e una esposizione di sé solo in luoghi di fiducia reciproca, restando sostanzialmente invisibili come scelta intenzionale, voluta. Progettata.

Le donne del movimento hanno scelto e tuttora in circostanze particolari scelgono di separarsi dallo sguardo maschile. È una scelta che preserva il sorgere di un desiderio e di un discorso autonomi. La cura di luoghi separati dallo sguardo maschile ha una precisa impronta sessuata. Ma per lo più la tendenza politica delle donne è di stare tra visibile e invisibile e a trovare una misura tra la presenza nella dimensione pubblica e spazi più velati allo sguardo pubblico.

Tuttavia con la questione del carsismo, dell’invisibilità e della visibilità, Lucia Bertell pone una questione essenziale di ordine politico. Volere la totale visibilità delle invenzioni creative di un movimento politico significa sottovalutare o peggio non dare spazio simbolico a quel crescere che avviene attraverso quelle che Lucia Bertell chiama relazioni istituenti. D’altra parte il senso primo della politica è portare nel conflitto simbolico visibile qualcosa di essenziale e vero dei guadagni simbolici che si sono avuti nel lavoro dei gruppi, delle imprese autonome. Più volte nel movimento delle donne è stato sottolineato come sia gesto delicato e allo stesso tempo estremamente politico sapere ogni volta dire quello che si considera essenziale dire nel conflitto simbolico. Delicato perché, se non si ha la misura giusta, si rischia di bruciare il meglio dell’elaborazione di pratiche e pensiero per troppa luce, troppa visibilità. D’altra parte, se la misura manca, si rischia di non farsi capire, di preservare troppo oppure di tenere troppo serbato, uscendo pari pari dal rendere visibile l’essenziale.

Sappiamo come la ricerca anarchica mantenga carsico, serbato il percorso. Puntando su azioni anonime. Al limite allora della politicità, che ha bisogno di esposizione singolare, di un manifestarsi agli altri, se si vuole trasformare il mondo.

Lucia Bertell si differenzia dall’anarchismo proponendo un occultamento morbido, per il quale si è presenti e rintracciabili solo per chi ha occhi per guardare con attenzione e orecchi per ascoltare ciò che è vivo, intonato alla propria ricerca e affine politicamente. Ma in questo modo si va verso un collegarsi per iniziative affini – cosa giusta in sé -, evitando il conflitto nel simbolico che a me sembra le interessi quando parla della necessità di un ordine simbolico nuovo e vivente. Tanto è vero che in conclusione del libro è lei stessa a scrivere: «Anche se forse, a ben vedere, la politicità delle pratiche l’abbiamo nel momento in cui il fiume carsico emerge alla luce, e con esso le parole vive per nutrire un nuovo ordine simbolico» (pag. 165).