diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 9 - 2010

Grande Seminario

L’Onda e le istituzioni del comune

Nel testo che segue proverò a chiarire per quale motivo il movimento dell’Onda è stato a tutti gli effetti (e potrebbe esserlo di nuovo) un movimento per il «comune» o per il «bene comune».

Inizio subito con una chiarificazione terminologica: al concetto di «bene comune» preferisco quello di «comune», laddove con il secondo, con maggiore facilità e chiarezza, riesco ad intendere una pratica, un processo, una relazione. Niente più del sapere e la sua qualità ‒ posta in palio del movimento dell’Onda ‒ è definibile con il termine «comune»: si tratta sempre di una produzione collettiva, storica, situata; in più, si tratta di una risorsa abbondante che può essere sottoposta al regime di scarsità solo a mezzo di violenza, quella nuova «accumulazione originaria» che caratterizza la nostra epoca fatta di privatizzazione dell’università, brevetti e proprietà intellettuale.

In che modo l’Onda è stata un movimento per il comune? Prima di entrare nel merito delle pretese e degli aspetti programmatici dell’Onda proverò a fare degli accenni molto sintetici al tema della soggettività e delle tonalità emotive che hanno animato l’Onda.

L’Onda è stata una grande insorgenza generazionale. In un paese, come il nostro, ostile ai giovani, l’Onda ha determinato una rottura del silenzio, un urlo gioioso, ma nello stesso tempo radicale, contro la precarietà e l’assenza di futuro. «Se ci bloccano il futuro noi blocchiamo la città» questo slogan, assieme ad altri, restituisce a pieno la cifra di questa rottura: la precarietà sottrae libertà e mette la vita sotto ricatto; bloccare la città con i propri corpi («space invaders», i corpi fuori posto di Nirmal Puwar) significa ricominciare a scrivere il proprio futuro, significa riprendere a parlare, mentre la città va in tilt e la produzione, ormai diffusa sul territorio metropolitano, si ferma. Una nuova forma di sciopero, dunque, che porta con se l’affermazione di una voce collettiva, da troppo tempo destinata al silenzio. E in questa invasione dello spazio metropolitano, imprevedibile e singolare (dal blocco del traffico a quello delle stazioni, dalla contestazione dei grandi eventi culturali ‒ vedi Festa del Cinema ‒ alle lezioni in piazza), si fa esperienza del proprio corpo come corpo collettivo, si riprende a combinarsi, a contaminarsi, a giocare. Non è un caso che sono proprio i cortei spontanei, festosi e rumorosi, e i cori, urlati senza sosta, a definire la qualità collettiva del movimento nella sua fase aurorale, tra il settembre e il novembre del 2008.

Radicale, molto spesso illegale, ma non ideologica, piuttosto pragmatica e combattiva: queste sono le caratteristiche dell’Onda. Riscoperta della virtù collettiva della voce e del corpo si misurano quotidianamente con la necessità di ripensare la politica, oltre la rappresentanza. L’esplosione del movimento, infatti, si colloca in una fase incredibilmente singolare: da una parte la crisi economica che, con il crollo dei grandi colossi finanziari americani, comincia a presentarsi con tutta la sua forza; dall’altra la débâcle o la fine ‒ nell’ambito parlamentare italiano ‒ delle sinistre cosiddette «radicali». Entrambi questi fenomeni segnano gli slogan, le prese di posizione, i desideri dell’Onda: le studentesse e gli studenti non vogliono pagare la crisi e soprattutto non vogliono che la crisi debba pagarla chi non l’ha prodotta; altrettanto sanno di non poter contare su alcuna “rappresentanza buona”, sono consapevoli cioè che la politica va ricostruita nel conflitto, nel «fare società» proprio del conflitto, e che, più in generale, bisogna riprendere a parlare a nome proprio. Usando concetti cari al pensiero contemporaneo possiamo dire che l’Onda ha provato, con molti limiti e con un pieno di lacune, a sperimentare una politica dell’espressione: alla formalità democratica è stato spesso preferita la rumorosità (o la litigiosità) del consenso e la contingenza del patto. Le prime assemblee romane dell’Onda – parlo in particolare della Sapienza, l’esperienza che ho vissuto direttamente e con grande intensità ‒ sono stati momenti irripetibili di nuova espressione politica: in qualche modo una nuova invenzione del comune, se per comune intendiamo le pratiche della relazione, della politica e dell’organizzazione.

E’ riuscita fino in fondo la sfida di una nuova politica? Sicuramente no, anzi, sono stati proprio i fantasmi del vecchio a prendere in ostaggio l’Onda quando più matura si è fatta la sua estensione e la sua forza. Nella scena straordinaria dell’assemblea nazionale del novembre del 2008 fanno la loro apparizione, con ostinazione parassitaria, le piccole conventicole di sempre, quelle che «gli studenti devono pensare agli operai», quelle che desiderano ovunque deleghe e delegati. Il modello espressivo e consensuale è stato in grado di dare una risposta adeguata alle piccole patrie novecentesche? In parte si, tanto che il movimento si mantenuto attivo per un intero anno accademico (basta pensare alle scadenze di sciopero della primavera del 2009), in parte no, perché la polemica gruppettara ha preso il sopravvento sul desiderio di nuova politica. Nel dire questo riconosco i limiti miei e di molti altri che assieme a me, con fatica, si sono battuti per proteggere il movimento dall’involuzione identitaria e politicista.

Quali sono state le pretese dell’Onda? In che modo i claims dell’Onda parlano del tema del comune?

In primo luogo l’Onda ha provato a rompere il rapporto tradizionale tra lotte e riforme e tra movimenti e istituzioni. Il discorso sull’«autoriforma», per quanto in larga parte ancora da realizzare, ha posto in primo piano il desiderio costituente del conflitto: oltre e contro la schema o la dicotomia modernizzazione/conservatorismo l’Onda non ha nostalgicamente difeso il vecchio, ma ha preteso di poter decidere i tratti distintivi del nuovo. Diffusione delle pratiche seminariali e di autoformazione, critica della retorica meritocratica, rottura delle discipline e decisione comune sulla e della ricerca: sono queste le domande che con insistenza animano le discussioni dell’assemblea nazionale e motivano le pratiche politiche quotidiane dell’Onda. In questo senso l’Onda ha proposto una «riappropriazione democratica del welfare» e delle sue istituzioni, più in particolare dell’università e della formazione. Fare dell’università un’istituzione del comune significa tentare di piegarne verso il basso i processi di governance, restituire al sapere il suo carattere sperimentale e cooperativo, respingere i fenomeni di aziendalizzazione (così presenti nel recente DDL presentato dalla ministra Gelmini e approvato dal Cdm). Tra movimenti e istituzioni solitamente non corre buon sangue, ma le istituzione, al contrario delle leggi, costituiscono dei modelli positivi di azione e sostituiscono alla privatezza dei bisogni la pienezza della cooperazione e della sua intelligenza: l’istituzione appartiene ad una politica costruttiva e si discosta dalla negazione normativa e contrattuale. Molte istituzioni e poche leggi, come se non così ripensare la democrazia e i suoi processi di partecipazione. A maggior ragione in una fase in cui le tradizionali istituzioni del welfare sono diventate terreno di conquista del mercato e della sua rapacità.

A sostegno di una nuova invenzione istituzionale l’Onda ha introdotto il tema del basic income o, seguendo le traduzione politiche italiane, del reddito garantito. Un reddito incondizionato e cumulativo, in grado di svincolare dall’obbligo lavorativo o dall’incertezza della precarietà. Il dibattito teorico-politico e giuridico su questo tema è assai ampio, ma, in questa occasione, mi piace sottolineare che è Carol Pateman in Democratizing Citizenship: Some Advantages of a Basic Income (Politics & Society, Vol 32, No. 1, pp 89-105. 2004) che ci ricorda l’importanza del basic income come strumento essenziale per ripensare la democrazia e per sgretolare l’istituzione matrimoniale e la divisione sessuale del lavoro: per un verso, infatti, il reddito produce una libertà sostanziale («the freedom not to be employed») che significa possibilità di autogoverno e nuova politicizzazione della vita; dall’altra, attraverso un reddito svincolato dalla prestazione lavorativa, viene meno il nesso tra matrimonio, lavoro, cittadinanza. Seppur in modo parziale l’Onda ha introdotto con forza nel dibattito politico italiano il problema del welfare e dei diritti oltre il lavoro subordinato e la tradizionale separazione tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo (cura, affetti, relazioni), tra lavoro e formazione. Non è un caso che Brunetta – oltre ai tanti insulti ‒ ha risposto all’Onda dicendo che «l’Italia è il paese con i migliori ammortizzatori sociali del mondo», che Sacconi ha chiesto agli studenti di tornare a fare «lavori umili e manuali», che Tremonti ha ricordato a tutti che «il posto fisso è l’unica garanzia per la famiglia».

Reddito garantito, incondizionato e cumulativo, e accesso ad un sapere di qualità, sono queste le lotte per il comune che l’Onda ha fatto emergere negli scorsi mesi, da qui si riparte, mentre la crisi economica e politica stenta a fermarsi.