diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo edizione 18 - 2022

Genere e differenza sessuale

Lo scarto tra definizioni, identificazioni, narrazioni di sé

[Traccia intervento per incontro organizzato da Il Circolo della Rosa a Verona, 14 gennaio 2022]

Ringrazio Il CDR per avermi invitata a intervenire a questi cicli di incontri che rappresentano un coraggioso e meritorio tentativo di mediazione e di confronto alti sui temi del genere e della differenza sessuale. La pessima figura fatta da quella che si autodefinisce sinistra istituzionale per quanto riguarda il processo di preparazione e discussione del ddl Zan ha reso necessaria e non più rinviabile un’analisi seria, non solo dell’affossamento politico, ma anche della mancata condivisione, per non dire della esasperata conflittualità, creatasi tra il movimento LGBTQ e una parte significativa dell’arcipelago femminista su questi temi.

Nel preparare la traccia del mio intervento ho tenuto conto del bellissimo titolo che è stato scelto per questo incontro: titolo che ci consente di introdurci, su un piano più superficiale, a un’analisi di che cosa non ha funzionato nel modo in cui è stato costruito questo ddl, e, su un piano più profondo, ci facilita l’analisi delle conflittualità di cui dicevo prima tra il movimento LGBTQ e una parte importante del femminismo.

Nel seguire la traccia suggeritami dal titolo ovviamente ho tenuto conto anche del mio bagaglio esistenziale ed esperienziale di donna transessuale che non si riconosce nel concetto di identità di genere, e che pertanto, a differenza di quanto succede nel movimento LGBTQ, non si riconosce come persona transgender. Tuttavia, visto che ho già ripetutamente parlato, in altri eventi e occasioni pubbliche a cui sono stata invitata, dei motivi per cui come donna transessuale non mi va il ddl Zan così come è stato scritto, pur essendo a favore di una legge contro l’omofobia e la transfobia, oggi cercherò di soffermarmi su un piano di analisi più generale che possa aiutare in definitiva a superare questa impasse politica e culturale, oserei dire anche antropologica, sui temi del genere e della differenza sessuale.

Questa impasse la possiamo cogliere già nel titolo assolutamente penetrante e acuto di questo incontro, in quanto evidenzia come tra queste due dimensioni: di definizione, di identificazione (e conseguentemente anche delle narrazioni di sé come struttura portante dell’identificazione), non vi sia mai, nella realtà, una piena corrispondenza ma anzi, tra di esse esiste un rapporto, come dice  il termine scarto, di scostamento, e dunque si tratta di un rapporto sempre irrisolto, necessariamente dialettico, a volte anzi conflittuale, dato che rispecchia la natura ambivalente e duplice, sia sociale sia psicologica, degli esseri umani.

Ciò che impedisce alle società umane di avere come destino inevitabile una dittatura sta proprio in questi scarti: la dimensione sociale definitoria non potrà mai annullare completamente la dimensione psicologica e personale dei processi di identificazione, così come le narrazioni di sé, struttura portante del processo identificativo, saranno sempre e solo in parte riconducibili ai condizionamenti sociali.

Tuttavia dire che è inevitabile che ci siano tra esse degli scarti, che non potrà mai esservi una piena corrispondenza, non deve significare che esse devono interagire tra loro come monadi autoreferenziali senza alcun tipo di rapporto tra loro, perché altrimenti sono guai, e dalla dittatura si potrebbe passare, all’opposto, a uno stato di caos sociale completamente fuori controllo.

Vediamo brevemente lo stato delle cose riguardanti i temi del genere e della differenza sessuale sotto la lente dei tre parametri della definizione, della identificazione e della narrazione di sé. Per arrivarci occorre fare un ripasso dei concetti di definizione e identificazione

Per definizione (dice la Treccani) si intende l’atto, il fatto, il modo di definire, di determinare cioè il significato di una parola o comunque di una espressione verbale mediante una frase (il più possibile concisa, e comunque completa) costituita da termini il cui significato si presume già noto, così da individuare di quella parola o espressione le qualità peculiari e distintive. Nell’uso comune la locuzione: “per definizione” è usata di frequente per sottolineare la verità e proprietà di un’asserzione, e più spesso la piena rispondenza della qualità attribuita a persona o cosa alla definizione che di quella è tradizionalmente data.

Il concetto di definizione, punto di riferimento in positivo o in negativo per qualsiasi processo psicologico di identificazione, rimanda pertanto a una condivisione trasversalmente sociale, collettiva del significato che è preesistente alla norma, e che non è generata per imposizione dalla norma stessa.

Per identificazione si intende il processo psicologico tale per cui una persona si sente o si considera, totalmente o parzialmente, uguale a un altro, assumendo come identità propria quella altrui, ovvero collocando parte più o meno larga dell’identità propria in altra persona.

Se applichiamo questi concetti di definizione e identificazione ai temi del sesso e del genere, una domanda che sorge è questa: se non si cerca di costruire in modo consensuale sul piano dell’esperienza relazionale concreta una condivisione sociale della definizione di sesso e genere, che effetti potrà mai avere un tentativo di imposizione normativa di processi identificatori che prescindono da essa?

La L. 164/82, che riconosce la possibilità di cambiamento della propria identità sessuale ed anagrafica, si ancora alle caratteristiche sessuali, e non parla di genere. La transessualità, nell’unica legge italiana che ancora la regolamenta, è ancorata al sesso e non al genere, ed in questo recepisce una mentalità collettiva tradizionale che associa l’identità sessuale al corpo più che al genere. Non scordiamoci che alla base dell’approvazione di questa legge vi furono anche azioni di protesta che sollevarono scandalo, a livello politico e sui media, come quella del 4 luglio 1980 in cui una quindicina di donne transessuali sfoggiarono in topless alla piscina del Lido vicino a San Siro sostenendo di poterlo fare in quanto considerate uomini e non donne. Era quindi il corpo, e non il genere, al centro della lotta delle prime persone transessuali. E non ci fu bisogno di esplicitare, in una legge che riconosceva per la prima volta la transessualità, che cosa si intendeva per sesso.

Con il ddl Zan, e con il pretesto del contrasto all’omofobia e alla transfobia, si cerca invece di imporre, non attraverso un lavoro politico extra-normativo che costruisca consuetudine sociale e culturale, ma per legge, una definizione diversa della transessualità legandola all’identità di genere tanto da renderla indistinguibile da essa. Tutto questo come se la legge, (e qualunque legge cristallizza rapporti di forza e di potere) anziché essere l’esito finale di un processo anche faticoso di esperienza e di mediazione politica, sociale e culturale, ne fondasse illusoriamente la premessa.

Risulta allora inevitabile che le richieste psicologiche di natura identificativa riguardanti sesso e genere non ottengano un consenso sociale nel complesso della collettività in termini di una loro ridefinizione.

È ovvio che alla base di questa dissociazione tra definizione e identificazione vi siano narrazioni di sé completamente autoreferenziali che danno per scontato che la categoria di persone con le quali ci si identifica o, al contrario, ci si contrappone, dovrà adattarsi e riconoscerla come socialmente valida. E’ una narrazione di sé all’insegna di un delirio di onnipotenza, nel senso che l’altro (la categoria con la quale ci si identifica o ci si contrappone) viene riconosciuto non come portatore di una definizione propria ma puramente strumentale al soddisfacimento delle proprie richieste di identificazione personale.

In generale le attuali istanze in termini di diritti del movimento LGBTQ, per come esse vengono portate avanti (anche se magari giuste in sé) sono l’apoteosi di una visione individualista e liberista del sociale come puramente strumentale al singolo individuo.

Ovviamente le cose non possono funzionare così, e non si può pretendere di portare avanti un cambiamento antropologico riguardo la visione dell’identità sessuale e di genere partendo da una via normativa anziché attraverso esperienze e processi di confronto sociale, politico e culturale extra-normativi.

Le narrazioni di sé delle persone transgender, nonbinary, queer, genderfluid, ecc. non riescono a produrre richieste di identificazione che si traducono socialmente, politicamente e culturalmente in una ridefinizione condivisa dell’identità sessuale e di genere dato che pretendono di stabilire delle verità su di sé prescindendo dalla realtà oggettiva dei corpi, che costituiscono invece il punto di partenza nella definizione usuale e tradizionale del sesso. Se si prescinde dalla realtà materiale dei corpi e del sesso, su che basi si potrà mai costruire un’esperienza umana condivisa su questi temi?

Da originario elemento perturbatore della differenza sessuale, il movimento transessuale si è trasformato nell’avanguardia postmoderna di una cultura sessuofobica nella quale la realtà materiale del sesso, del possibile piacere sessuale, viene rimossa a favore di un approccio spiritualista, etereo, impalpabile, immateriale, che ovviamente non può competere alla pari, come esperienza nella realtà, con la definizione tradizionale, ma può solo essere imposto per legge, altrimenti chiunque sgretolerebbe queste identità avanguardistiche.

Perché il movimento transessuale, le sue associazioni più importanti si sono prestate a tutto questo? Fondamentalmente per rifarsi una verginità di immagine politica dopo decenni di una loro collusione con un sistema di servizi e consultori che ha patologizzato la transessualità con dei parametri, come quelli ONIG, derivati dall’APA. Per nascondere la loro complicità con queste metodologie e standard di assistenza sanitaria scadenti e inadeguati hanno tuttavia buttato via il bambino con l’acqua sporca rimuovendo la necessità di garantire una qualità diversa del presidio sanitario. Fare però una battaglia di questo tipo avrebbe però significato per le associazioni T entrare in conflitto con le istituzioni politiche che pagano le associazioni stesse affinché vi sia una sorta di presidio politico, sociale e culturale sui servizi dedicati alle persone transessuali. Si sarebbero quindi messi a rischio posti di lavoro e interessi economici; meglio quindi fare una battaglia che non sollevi la spinosa questione della qualità dell’assistenza sanitaria rivolta alle persone transessuali e indirizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su una visione dei percorsi di transizione in un’ottica di genere desessualizzata, anziché in un’ottica sessuale tradizionale. Per le associazioni trans, e di conseguenza per il movimento LGBTQ, si risolverebbe in un bel ritorno di immagine senza più doversi sobbarcare il lavoro difficilissimo di presidiare politicamente in modo adeguato e serio la qualità del servizio sanitario offerto dai consultori.

Come invece ho detto più volte, il vero e più importante problema vissuto dalle persone transessuali è quello di avere un presidio sociosanitario all’altezza dei loro percorsi: un presidio che segua in modo adeguato senza imbavagliare l’autonomia delle scelte personali. Le associazioni T invece diffondono ad arte una vulgata tale per cui occorre demedicalizzare per preservare l’autonomia: niente di più falso e in malafede, perché i nostri corpi e sessi, ancora di più rispetto a chi non è transessuale, hanno bisogno di attenzioni e cure.