L’irrinunciabile di un evento
È una calda giornata di ottobre e mi trovo in un’aula universitaria in attesa. È il primo appuntamento del Grande Seminario di Diotima dal titolo L’irrinunciabile. Quando lo lessi sulla locandina pensai che fosse una curiosa coincidenza: era proprio irrinunciabile per me esserci dato che da tanto aspettavo di tornare in quelle aule universitarie dopo un così lungo periodo di assenza coatta, e dove ora non avevo più necessità di entrare dato che le mie lezioni da studentessa erano finite. È con il verso di una poesia di Emily Dikinson che si apre il primo incontro, che mi colpisce subito: «La sete l’insegna l’acqua, lo slancio l’angoscia»[1]. Ecco cosa mi aveva portata lì, ecco cosa ci aveva portate lì. Due anni di pandemia hanno fatto emergere in noi nuove consapevolezze e nuovi bisogni. Ciò che prima era abituale ora appare inusitato, extra ordinario. L’altro ci è apparso in un contraddittorio duplice senso. Colui o colei che, condividendo un presente comune, si presenta da una parte come oggetto del nostro bisogno di evasione dalla condizione di segregazione a cui eravamo costretti, dall’altra come una possibile fonte di contagio e per questo causa di timore. Sentimenti contrastanti si sono fatti strada nei nostri rapporti con l’alterità, ormai diventata simultaneamente contenitore di desideri e inquietudini.
Se da una parte la pandemia è un fenomeno tutt’ora in corso, è con un altro aspetto che ancora dobbiamo fare i conti. Un aspetto che non ha dilatazione temporale ma che nel suo presentarsi ha immediatamente creato una frattura, separando il corso degli accadimenti in un “prima” e un “dopo”. Il suo carattere di evento. L’esperienza istantanea di qualcosa di scioccante, la percezione che qualcosa di fuori posto si sia insinuato e abbia all’improvviso interrotto il flusso consueto degli avvenimenti. Slavoj Zizek ne espone le caratteristiche nel suo saggio “Evento” (2014), sostenendo che «anche se si andasse a ricercarne le cause, nessuna di queste potrebbe realmente spiegare la sinergia che ha dato vita a ciò che è accaduto» infatti, continua, «un evento è definibile come l’effetto che sembra eccedere le proprie cause. Lo spazio di un evento, invece, è ciò che si apre nello iato che separa un effetto dalle sue cause».[2] L’evento pandemico ha fatto irruzione nelle nostre vite e ha introdotto un mutamento nel modo in cui la realtà delle cose ci appariva, ha minato concezioni assodate, facendone emergere i caratteri sorprendenti e spaventosi. Ogni cornice interpretativa entro la quale guardare la realtà ha mancato, anche se solo per un istante, di far presa su qualcosa di mai visto prima sia per contenuto che per portata. Quando qualcosa va storto, quando uno schema viene distrutto da un puro accadimento, nuove cornici interpretative emergono e, agendo retroattivamente, cercano di dare spiegazione a ciò che è successo. Ciononostante, la spinta restaurativa della cosiddetta “normalità” precedente la pandemia ha mostrato quanto le vecchie strutture di significato e rappresentazione del reale abbiano desistito dallo scomparire in favore di quelle nuove. Il desiderio di tornare a vivere giorni in cui “sembra che nulla sia successo” rendendo la pandemia un brutto ricordo è l’auspicio che ci rincuorava leggendo lo speranzoso slogan “andrà tutto bene”. Eppure basta uscire di casa per capire come anche un semplice incontro abbia assunto oggi tutt’altro significato. Qualcosa continua a rimanere fuori portata e sfugge alle nostre rappresentazioni, rimanendo invisibile nella sua dimensione più vera. Occorre tornare indietro, alle radici dell’accadimento per ricostruire una nuova visione che tenga conto di ciò che è accaduto e ne faccia un punto di svolta fondamentale.
L’evento pandemia si è posto al margine di un processo in corso da secoli, quello dell’isolamento umano. Il nostro processo di autocoscienza sembra essersi sviluppato attraverso il distanziamento: all’interno di questo misero spazio che chiamiamo “io” ricercavamo la pienezza di vita. All’apice di questo processo che agisce per separazione ed esclusione non abbiamo trovato altro che silenzio. Ci siamo rinchiusi nelle nostre case, ci siamo allontanati e siamo stati allontanati dagli altri e dal mondo. La pandemia ci ha oppresso, prosciugato, angosciato, ma ci ha posto in una condizione di riflessione e ascolto. I frastuoni dei nostri bisogni quotidiani si sono assordati e hanno lasciato il posto ad un silenzio che raramente avevamo udito, qualcosa si è fatto strada e ha il segno di un irrinunciabile. È in questi termini che ho inteso il “vuoto generativo” di cui ha parlato Annamaria Piussi nel suo intervento dal titolo Quando il desiderio si trasforma in bisogno radicale, per la quale l’evento pandemico assume i tratti di un «esperimento in vivo» che ha rivelato quanto quella presunta normalità di cui si auspica il ripristino fosse nemica di una «visione giusta». Le crepe prodotte dall’insorgere della pandemia ci fanno scorgere panorami alternativi, e con essi una grande occasione. Anche Maria José Gil Mendoza sembra averla colta quando nel suo intervento parla di “esperienze soglia” o “esperienze scintilla” che ci riportano ad un tempo diverso, più profondo e radicale, non scandito dai ritmi produttivi, che fa emergere qualcosa di nuovo. Attraverso la poesia di Rumi Non tornare a dormire sembra esortarci a saper cogliere questa occasione e ad attraversare la soglia dell’evento, a destarci dall’intorpidimento di un mondo dove il corpo è sempre pronto a produrre, a non distrarci dai bisogni surrogati e superflui che ci riportano alla quotidianità, ma a sostare in questo vuoto per intraprendere una politica di trasformazione di sé. Proprio come le onde del mare si ritirano dalla sabbia bagnata delle rive per rilanciarsi sulla sponda con nuova energia, anche Diotima, attraverso l’esperienza della singola e la sua ricerca di parole vere, ha fatto sua questa esortazione ritornando a riflettere retroattivamente su questo accadimento, al fine di trovare nuovo fervore in uno slancio collettivo.
Per iniziarsi a questo arduo compito occorre una pratica tanto spontanea quanto l’oggetto trattato. Deleuze scriveva «Non c’è parola giusta senza corpo, senza la verità di un’anima corporea»[3]. Lasciandosi trasportare dalle tante storie di donne, ciascuna con il suo vissuto, la sua esperienza di vita, il suo sentire, la comunità di Diotima ha creato uno spazio all’interno del quale il puro accadimento di una vita possa mostrarsi generando una dimensione nuova, individuale e politica simultaneamente, dove chi parla e chi ascolta sono presi in un rapporto di connessione e piacere in cerca della parola giusta. Mentre ci si racconta in questo spazio comune i vecchi e rigidi schemi interpretativi si mostrano inadeguati con sempre maggior vividezza nel loro compito di restituirci una visione della realtà. Queste cornici, o significanti padroni di cui parlo, sono quelli della narrazione capitalista che si serve di un sistema binario, categoriale che opera per ghettizzazione di opposti: umano, natura; padrone, servo; uomo, donna; lavoro produttivo, lavoro riproduttivo e di cura.
È il primo binomio ad essere preso in considerazione da Caterina Diotto il cui intervento dal titolo Orientarsi con l’eco trasforma i termini in gioco offrendo una percezione del tutto nuova. Le rappresentazioni culturali che vedevano un’umanità esclusa e opposta alla “natura” per una lotta di conquista, sono frutto di una cultura occidentale che ha spinto questa separazione alla sua radicalità. Durante la pandemia non sono mancate teorie interpretative che portavano avanti questa separazione, vedendo nell’avanzamento di elementi naturali in luoghi in cui prima regnava l’artificiosità urbana una rivincita dell’ambiente sull’uomo, colpevole di averlo sfruttato e usurpato a lungo con la sua ingordigia capitalista. Ancora una volta una questione di confini, separazione di territori. Eppure lo stupore e la meraviglia nel vedere animali selvatici attraversare timidamente le strade dei deserti paesaggi urbani ha mostrato qualcosa che da sempre è presente e che non ha i caratteri della conquista. Quella “natura” così rappresentata si è fatta improvvisamente più vicina, non spostando confini ma attraversandoli. La fauna e la flora hanno attraversato il limes delle città e anche noi malgrado fossimo lontani osservatori, siamo tornati a sentirne la viva presenza. L’esperienza pandemica nel suo carattere evenemenziale ci ha scioccati ma ha anche, come sottolinea Caterina Diotto, «scosso il nostro sentire atavico di essere separati dal mondo». Siamo permeabili, c’è uno strato di indivisibilità tra noi e il mondo, tra noi e gli altri, un tessuto di relazioni che espande il nostro “sé”. Al costrutto di “natura” viene sostituito il concetto di “Luogo” o “contesto” nel quale il singolo è da sempre immerso. Questo nuovo modo di stare ecologico proposto da Caterina Diotto attraverso il pensiero di Arne Naess e la sua Ecosofia T, mostra un “sé espanso” che non scinde più tra relazioni umane e non umane, ma che entra in dialogo con una “natura” intesa come un organismo con regole proprie. La relazione al contesto ambiente, secondo questo pensiero, rappresenta una componente indispensabile nel tessuto dei nostri bisogni e rende di nuovo visibile ciò che prima era stato offuscato e relegato ad un mero rapporto oppositivo. Non solo siamo all’interno di un contesto ambiente, ma «siamo l’aria che respiriamo». Attraverso un sentire conscio e inconscio che come l’ago di una bussola ci guida nelle nostre relazioni, il Luogo diventa parte costitutiva della persona e dell’identità di chi vi intreccia questo dialogo. Questo sentire è anteriore ai bisogni ed è vicino al «cuore selvaggio dell’esperienza». «L’ Ecosofia di Arne Naess ha come obiettivo l’integrazione dell’io, l’integrazione di tutte quelle relazioni con il contesto che normalmente sono rese invisibili dalla nostra cultura, solo quando avremo integrato tutte queste relazioni nella nostra visione allora, i nostri sistemi e valori si modificheranno e genereranno un nuovo modo di stare».
Il sistema patriarcale però, non ha colonizzato soltanto l’esterno, ma si è spinto anche nell’interiorità dell’essere umano, ancora una volta attraverso dicotomie. Opposizioni e dualità che non ci hanno solo separato dai luoghi in cui siamo, ma che ci hanno sezionato dall’interno. Così si è pensato di poter opporre anima e corpo, fabbricando un’arte della misura che ne guidasse i rispettivi bisogni. Ma nonostante queste divisioni qualcosa non passa nell’una o nell’altra estremità del piano, rimane intatto dal taglio del confine e ha in sé capacità rivelative e trasformatrici. Si tratta sempre di un sentire che ancora una volta ci orienta ed emerge con maggior vividezza durante eventi soglia. È durante il primo incontro del seminario che Wanda Tommasi propone di non scindere più i bisogni del corpo da quelli dell’anima, mostrando la verità dell’espressione “anime corporee”. Eloquente è stata l’immagine da lei proposta legata alla sua esperienza pandemica. Anche un semplice gesto ripetitivo come il farsi da mangiare acquista tutt’altro significato se fatto per qualcuno. Condividere del cibo non è più soltanto l’appagamento di un bisogno corporeo ma esprime anche un bisogno più profondo che dona al cibo e al momento un gusto e un piacere differente. Questo, come altri bisogni legati ad una ripetizione, non sprofonda in una mera meccanicità mortifera, ma rilancia e orienta il nostro desiderio dando all’esistenza un gusto e un valore differente. L’appagamento di questi bisogni inaugura un nuovo modo di stare, dove anima e corpo, singolo e molteplice, individuo e politico permangono in un simultaneo rapporto che non è nell’ordine di un’opposizione dialettica.
A mostrarci come la soddisfazione di un bisogno simile a quello citato possa avere in sé anche una valenza politica è lo stesso Marx e nei Manoscritti economico filosofici ce ne offre un esempio. Un gruppo di operai socialisti francesi si riunisce al fine di organizzare un’azione politica. Che si tratti di sciopero, di fare propaganda, o di diffondere una dottrina, durante la riunione politica accade qualcosa: «Fumare, bere, mangiare, ecc., non sono più puri mezzi per stare uniti, mezzi di unione. A loro basta la società, l’unione che questa società ha a sua volta per iscopo; la fratellanza degli uomini non è presso di loro una frase ma una verità»[4]. Accade l’inaspettato. Ciò che appaga il corpo appaga anche un bisogno dell’anima attraverso un particolare godimento che pur rimanendo proprio di ogni singolo individuo non può che sopravvenire in comunione con gli altri. Il godimento di ciascuno non esclude quello altrui, ma anzi lo necessita come compartecipe. Ciò che prima era un mezzo si scopre essere in realtà il vero scopo, la fratellanza, l’evento di comunismo.
Facendo riferimento ad Agnes Heller e alla sua teoria dei bisogni radicali in La teoria dei bisogni in Marx, Wanda Tommasi cita in particolare due bisogni radicali che, seppur nati in seno al capitalismo, hanno il potenziale di farlo collassare: il bisogno di libertà e lo sviluppo integrale dell’individuo. Sono proprio questi che mi rimandano al pensiero di Hanna Arendt e alla sua opera “Sulla rivoluzione” (1963), dove descrive la differenza tra il bisogno di libertà e il bisogno di liberazione attraverso il racconto di masse che si riuniscono nei luoghi pubblici delle piazze per protestare. Gli uomini e le donne rivoluzionarie appaiono sulla scena pubblica mossi dalla volontà di liberarsi dal sopruso dei potenti, ma proprio nell’atto stesso di liberazione scoprono uno spazio dove questa esperienza inizia ad assumere una dimensione comune che ha in sé un gusto e un piacere: la libertà di partecipazione. Un godimento aldilà del dovere, che prescinde dalle finalità per cui quell’azione politica aveva avuto luogo.
Era insito nella natura stessa della loro impresa che scoprissero la loro capacità e il loro desiderio di gustare il “fascino della libertà” […] solo nell’atto stesso di liberazione. Infatti gli atti e i gesti che la liberazione esigeva da loro li spingevano nella vita pubblica, dove più spesso inaspettatamente, cominciavano a costruire quello spazio del fenomenico in cui la libertà può dispiegare il suo fascino e divenire una realtà visibile e tangibile.[5]
Gli episodi descritti da Marx e da Arendt hanno diversi denominatori comuni. Gli uomini e le donne rivoluzionarie, proprio come gli ouvriers francesi, hanno sperimentato la potenza di un evento politico sorgivo che inaspettatamente trasforma le frontiere tra l’individuo e i molti. Aumenta il tessuto relazionale tra i partecipanti e ciascuno gode di un piacere proprio e al tempo stesso comune, scoprendo una dimensione politica diversa. Del semplice cibo condiviso, una piazza affollata da una moltitudine, acquistano un significato differente. Uomini e donne sono testimoni e fautori di nuove pratiche di vita, esperienze partecipative che diventano terreni fertili su cui costruire una politica del quotidiano. Una politica che mi sembra la stessa di cui le donne di Diotima si fanno prosecutrici.
Se la politica del patriarcato genera bisogni contrari alla vita, che quando ci soddisfano lo fanno sempre a scapito di altre e altri, la politica del quotidiano nasce dalla e nella vita stessa per mezzo di quegli uomini e quelle donne che la riscoprono mentre la sperimentano. Questi eventi di politica sono fugaci e contingenti, e per Arendt necessitano di essere costituzionalizzati per non scomparire: la capacità di farlo è ciò che per l’autrice determina il successo o l’insuccesso di una rivoluzione. Trattenere ciò che di un evento c’è di irrinunciabile, che per un momento si è mostrato in tutta la sua verità, per riportarlo dov’è sempre stato, nel grembo della vita, è una sfida che le donne conoscono bene. Noi donne, infatti, intratteniamo da sempre un rapporto privilegiato con la vita, il suo senso e i suoi sentieri. Siamo noi infatti, ad attraversare la soglia dell’evento in quanto tale: la messa al mondo di una vita. In noi è vivace l’eco di un sentire che ci orienta e affonda le sue radici nel cuore pulsante dell’esistenza. Come scriveva Carla Lonzi «per la donna, vita e senso della vita si sovrappongono continuamente»[6], eppure mai come nelle donne i tagli e le cesure del patriarcato si sono spinti così a fondo. Maria Milagros Rivera Garretas decide di affrontare la questione mostrando non solo come il contratto sessuale abbia separato la donna dal suo corpo, facendo di esso merce venduta e prestata, ma anche come a queste ultime sia stato precluso un bisogno radicale: il bisogno di sentir piacere che è «un irrinunciabile del vivere umanamente». Anche noi donne abbiamo rinunciato a sentire questo piacere e ne abbiamo delegato la cittadinanza alla mistica, fuori dalla conoscenza universitaria. Citando un passo di Marìa Zambrano in “Filosofia e poesia” (1939), Maria Milagros Rivera Garretas approfondisce il problema:
La prima idea che si crea dell’amore è già mistica, per questo è un grande errore ciò che molte volte si è detto. Che l’amore mistico è una coppia tale quale dell’amore carnale. È tutto il contrario. L’amore carnale, l’amore trai i sessi ha vissuto culturalmente, cioè nel suo modo di esprimersi, sotto l’idea dell’amore platonico, che è già mistica. Grazie al platonismo l’amore ha avuto un prestigio intellettuale e sociale. Si è potuto amare senza che questo sia un fatto scandaloso. Questo è, crediamo, il fondamento di ogni mistica: che l’amore che nasce nella carne, deve per riuscirci, sottrarsi alla vita, deve anche convertirsi. Come diceva Platone, si doveva realizzare con la conoscenza.
Provocatoriamente l’autrice si domanda perché l’amore dovrebbe sottrarsi alla vita e convertirla in qualcos’altro. Il passo della Zambrano sembra soffrire di un problema culturale che molte volte ancora ci convince traendoci in inganno. La narrazione patriarcale ci presenta un’altra coppia dicotomica che vede separati amore mistico e carnale, una separazione che svuota la vita dalla sua essenza femminile. Alla mistica della separazione, Rivera Garretas sostituisce quella dell’unione. All’amore platonico, mediatore tra déi e uomini, precede un amore che viene prima di déi e uomini, un amore che è origine e presenza. Per le donne il piacere è sempre dell’anima e del corpo insieme, in questo senso la donna è custode di un mistero che porta in sé la verità dell’espressione anima corporea. «Io non sono femminista, sono femminile», queste parole di Maria Milagros Rivera Garretas scuotono le fondamenta su cui da tempo si sono innalzate le barriere patriarcali di separazione ed opposizione, ponendosi sulla soglia di una logica a-dialettica in cui la donna ritorna in sé stessa, nella sua integrità. L’Immacolata concezione diventa emblema di colei che non cede il suo piacere di concepire corpi e concetti, un piacere del mercato originario, quello femminile, in cui i corpi non si vendono e non si prestano, un piacere della vita vissuta senza cesure nella sua pienezza.
Restare sole e lontane dalle ideologie che vogliono ledere la vita nella sua integrità è ciò che intende Antonientta Potente quando nel suo intervento Mi manchi e basta afferma: «Devi stare sola, non devi andare da nessuno». Irrinunciabile per lei, sono quelle donne da cui impariamo “a stare sole”, che sono testimonianza della nostra libertà femminile, della nostra mistica e del nostro sentire profondo. Questa solitudine è la forza di chi non vende mai la propria vita e non la converte in altro. Restare in piedi con altre donne che hanno imparato a fare lo stesso, significa imparare a stare sole per stare insieme. Antonietta ci parla di una solitudine capace di generare legami e parentele con altre e altri. Relazioni vere che danno un gusto e un piacere allo stare insieme. Attraverso questa solitudine saremo in grado di rispondere ad altre e ad altri, rendendo possibile una trasformazione. Irrinunciabile sono le relazioni che senza separarci dagli altri, dal nostro corpo, dai nostri luoghi, ci fanno sentire l’ancestrale appartenenza a una vita che rompe gli argini di questi confini. Questa è un’urgenza che parte da una semplicità, un semplice e umanissimo “sentire” di cui Diotima ha colto il richiamo.
Mentre ascolto i racconti di vita vissuta di tante donne che hanno imparato a “stare da sole”, mi rendo conto che quest’urgenza è stata colta da coloro che hanno partecipato al seminario, e forse era proprio il motivo per cui erano presenti. Il concetto di sentire è quello che ha destato più interesse nelle e nei partecipanti ma è anche stato il più difficoltoso da trattare. Ogni volta che si provava a definirlo sfuggiva sempre alla presa del linguaggio che ne rincorreva il significato mancandolo in continuazione. Eppure tutti concordavano sulla sua presenza e ne intendevano il senso quando veniva richiamato durante gli interventi. Riflettendoci a posteriori, se penso che definire nella sua etimologia significa limitare, tracciare confini in modo da distinguere nettamente una cosa da un’altra, trovo perfettamente logico che l’impresa non riesca quando si ha a che fare con un concetto la cui natura ha più a che vedere con un richiamo alla vita, contraria ad ogni scissione. Mentre penso a come Diotima abbia connesso ogni singolo sentire dei partecipanti e li abbia messi in moto in un dialogo impetuoso, mi domando se tutto questo avrebbe avuto lo stesso effetto rivelativo senza l’evento pandemico. Cercando una risposta a questa domanda rievoco involontariamente alla memoria il ricordo di una poesia di Montale, dove un uomo sorpreso da un evento miracoloso si volta e con le gambe colte da un terrore d’ubriaco, assiste alla falsità di una realtà che ora gli appare artificiosamente proiettata su uno schermo. Per l’uomo è troppo tardi, se ne andrà zitto tra quelli che non si voltano portando con sé il suo segreto.
Anche le donne di Diotima, come quell’uomo, si sono voltate, ma non intendono custodire nessun segreto.
[1] Emily Dikinson, L’acqua la insegna la sete, dalla raccolta Silenzi (postuma),1859.
[2] Slavoj Zizek, EVENTO, Utet, Padova 2014, p.10.
[3] Gilles Deleuze, Immanenza una vita, Mimesis, Milano, 2010, p. 10.
[4] Karl Marx, Manoscritti economico filosofici del 1844, a cura di Norberto Bobbio, Einaudi, Torino 2004, p.130.
[5] Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, Einaudi, Torino 2009, p. 30.
[6] Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, p. 59