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per amore del mondo edizione 18 - 2022

l'invidia delle donne

L’invidia delle donne: come capirla, come guarirla

[La envidia de las mujeres: cómo entenderla y cómo curarla, è pubblicato in DUODA Estudis de la Diferència Sexual / Estudios de la Diferencia Sexual, N. 58/2019, pp.74-90. Traduzione dallo spagnolo di Luciana Tavernini, trascrizione di Doranna Lupi]

L’invidia

Parlando dell’invidia, entriamo in una delle questioni più oscure dell’anima. Probabilmente si tratta di un sentire tra i più temuti, perché ti avvolge e domina a tal punto che puoi perderti. Siamo davanti a un sentire che ha un grande potere di far danno, molto distruttivo e violento. È un sentire dell’anima oscurata, allontanata dalla luce dell’amore. La persona che sente invidia non può ammetterlo né come male verso quella per cui la sente, né come male di se stessa. È generatrice di una violenza che si vive in modo tanto avvolgente e sottile che resta nascosta sotto strati di altre emozioni e altro sentire che la sostengono.

Costa parlare dell’invidia se non come sostantivo. Ne parleremo come qualcosa di non desiderabile né da sentire né da provocare, però ci costerà di più dire a qualcuna «sei una persona invidiosa» o «stai mostrando invidia verso di me». Se parliamo dell’invidia da quel luogo teorico e sostantivato la coglieremo con la nostra mente razionale e lì abbiamo tutti i tipi di spiegazioni e giustificazioni che ci manterranno al sicuro dal connetterci col nostro sentire. A loro volta queste spiegazioni sostantivate oggettivano i loro contenuti e si situano osservando dall’esterno, in un’apparente neutralità, considerando il sentire come un ostacolo che impedisce di creare conoscenza.

La mia proposta è un’altra: consiste nel partire dal sentire presente, quello che si dà nel momento in cui presti attenzione, e da lì seguire il filo che ci porterà al sentire dell’origine che svelerà quello che ora pare confuso e inquietante, tirandoci fuori il vero.

Desidererei in questo testo porre lo sguardo interamente su noialtre, nell’avere il coraggio di essere signore della vita, padrone del nostro presente e del nostro sentire, capaci di assumere la responsabilità che ci corrisponde. Ti propongo di leggere partendo da te stessa, dal momento in cui nascesti, in cui cominciasti a respirare quando tua madre ti diede alla luce. Cerca di connetterti con la tua interiorità, di fare il percorso da lì.

A mo’ di introduzione

Donne e uomini nasciamo in un mondo già significato che porrà le condizioni alle quali dovremo adattarci per vivere la nostra vita.

Oggi sappiamo, grazie al sentire e al pensare delle donne che ci hanno preceduto e coetanee, che noi donne come umanità sessuata al femminile, siamo state relegate in un luogo secondario da una struttura di organizzazione umana patriarcale e androcentrica, stabilita con la forza della menzogna da un gruppo di uomini violenti che s’impose sul resto dell’umanità maschile e femminile. A forza di secoli di questa situazione si è costruita tutta una struttura psichica che ci può far dimenticare chi siamo e farci cadere in un disordine del sentire che ci porterà a non essere in contatto con il nostro sentire dell’origine, quello che ci permette di essere veramente.

La vita è sentire, è un fatto, si è viva o non si è viva, non è soggetta a regolazione, è invece soggetta agli ordini della natura e ai cicli che la definiscono. Viverla significa sperimentarla dal sentire del corpo vivo, cosciente.

È probabile che la tua esperienza abituale sia stata l’aver sentito che sei trattata secondo la tua posizione in una gerarchia di relazioni che ti inquadrano e che ti rendono molto difficile giungere a dialogare con te stessa, con la tua stessa anima, quel luogo che è solo tuo, un luogo di solitudine e silenzio ma non un luogo né solitario né separato. È la solitudine del dialogo con se stessa e la coscienza che facciamo parte di qualcosa di più grande essendo contemporaneamente un’individualità cosciente.

Entrare nella propria esperienza di vita è un percorso che si fa dal sentire, un sentire vero, non una narrazione teorica del sentire. Quando si è abbandonata la lingua materna e siamo state invase dal linguaggio, allora entra la narrativa di chi siamo, di cosa pensiamo e perfino di cosa sentiamo. Però non è questo il percorso di cui sto parlando. Il sentire dell’anima è un sentire del corpo vivo, delle viscere, il sentire dell’anima incarnata nel corpo. Da questo luogo, che è la tua anima incarnata, che è solamente tua, è il tuo territorio e il tuo percorso, non si può mentire né costruire narrative teoriche che non dicono il sentire vero.

Nonostante tutti questi secoli di patriarcato e di pensiero androcentrico, ogni donna è una possibilità da quando nasce e questa violenza maschile non ha mai occupato né tutta la vita di una donna né tutte le donne.

Dunque, ci centreremo nella nostra interiorità, vissuta dal proprio sentire della coscienza, oseremo riconoscerci l’autorità per vivere la vita a partire da quello che la vita è, sentire proprio.

Il titolo ci permette di dirigere l’attenzione a: Chi ha invidia delle donne? Chi o cosa invidiano le donne? Desidero centrare l’attenzione innanzi tutto su:

Chi ha invidia delle donne?

L’evidenza della differenza sessuale, che si dà in natura, è stata significata dall’imposizione di un modello teorico e di pensiero che ha situato la differenza sessuale femminile in un luogo secondario rispetto al valore principale e protagonista, investito di potere, che si è dato alla differenza sessuale maschile. In questo contesto di significato si sono inquadrate le distinte teorie della conoscenza.

Non dimentichiamo che, se la differenza sessuale femminile non appare nominata esplicitamente, segnalata come produttrice di senso proprio e generatrice di Mondo[1], di certo non c’è o è vista dalla prospettiva maschile, presentata come neutra e generica, che nasconde l’imposizione della sua visione come valida per donne e uomini.

Non è tanto che non siamo state nominate e siamo state nascoste ma che ci hanno nominate in maniera distorta e sotto la lente del pensare e sentire maschile: ci hanno detto che siamo inferiori e che dobbiamo assumere la nostra posizione “naturale” di occupare un luogo secondario rispetto all’uomo nella creazione di significati.

In base a ciò che finora abbiamo affermato, dobbiamo domandarci se quello che abbiamo come esperienza dell’invidia delle donne non sia sotto la lente di quello che ci hanno dichiarato la religione e la teoria del pensiero di ciò che siamo noi donne. Rispetto alla psicologia, che è ciò che mi compete, è la teoria psicoanalitica, molto influente nel pensiero medico e filosofico, quella che parlò dell’invidia del pene e del suo referente simbolico, il fallo, nella prima metà del XX secolo. Questa teoria include di nuovo una visione deviata dallo sguardo dell’uomo e sostenuta in tutta una pratica di osservazione e di interpretazione sotto questo sguardo e in tutta una storia precedente di pensiero filosofico e antropologico con lo stesso pregiudizio.

La teoria psicoanalitica costruisce alcune spiegazioni sulla costituzione psichica e sessuale di donne e uomini che ebbe grande influenza nel modo di vedere la differenza sessuale, rafforzò la visione patriarcale e androcentrica con un nuovo termine: il fallocentrismo.

È il primato del fallo, se hai o non hai un pene, così si classificano gli esseri umani a partire da questa presenza anatomica “visibile” nell’uomo e dalla sua assenza nella donna. L’evidenza della differenza sessuale, riconosciuta nel corpo come significante, è ridotta mediante l’assegnazione di valore al pene come simbolo di potere. Questo criterio di valore superiore assegnato al nascere con pene sarà il modello umano da sviluppare, così che nascere con “assenza” di pene, ossia nascere bambina, suppone tutto un processo di negazione del corpo della bambina come significante proprio, al quale assegnare significati specifici.

In questa spiegazione del processo di sviluppo psicosessuale, bambine e bambini vivranno alcune esperienze affettive e corporali che saranno significate dal modello teorico che le spiega ed entreranno in un disordine di senso, dato che il loro sentire proprio non è recepito dal significato già costruito precedentemente. Così si creerà una distanza, un vuoto di senso, in cui sarà contenuta ogni tipo di possibilità, di disaccordo tra chi sento che sono e chi dicono che devo essere.

È naturale che in bambine e bambini appaia un disordine del sentire in relazione a come far combaciare le proprie esperienze in corpi sessuati, dato che a entrambi si sta imponendo un significato prescritto da uno sguardo fallocentrico. Nei bambini si incentra in un organo e sembrerebbe che tutto lui è un pene e che tutto il suo sviluppo dovrà girare intorno a questo pene, trasformato in fallo, che lo obbliga a essere un uomo continuamente disposto a mostrare la sua superiorità. Nelle bambine nega la loro realtà corporale generatrice di senso e significato proprio.

La bambina dovrà vivere l’esperienza del suo corpo con la difficoltà di incontrare ascolto al femminile e dovrà preservare questo sentire che non riceve accoglienza, per potersi adattare a un ambiente relazionale che la reprime nella sua libertà di essere, e per cercare di essere amata. Dovrà custodire il suo dolore e la sua paura in questo silenzio, che le si è imposto, per non soccombere alla violenza sessuale maschile, nel proprio focolare a causa dell’incesto, o negli altri contesti dove si relaziona, in cui pure è esposta a violenza sessuale da parte di altri bambini, altri uomini, e inoltre perché non è nominata e significata in quello che veramente è. Questa bambina per sopravvivere dovrà scindere il suo sentire proprio, quello che indica la sua anima incarnata, creando un modo di stare nel mondo, sorvolando su se stessa e adattandosi a quello che si aspetta da lei, che è essere una bambina “buona”, una bambina che conserva nel suo piccolo corpo la violenza esercitata su di lei, e che cercherà di adattarsi all’interpretazione fallocentrica di quello che è essere bambina e donna. Interpretazione che la obbliga a mantenere il suo sentire vero nascosto sotto strati di protezione che la mantengono come sopravvissuta ma non viva.

In tutto questo disordine di spiegazione sulla natura umana sessuata, un aspetto importante che ora ci riguarda è l’invidia del pene che si inquadra perfettamente nella spiegazione, dato che, se nascere bambina presuppone l’essere carente, non avere un valore proprio e dover reprimere il proprio sviluppo, ci porta in modo naturale a desiderare di avere quello che è considerato di valore. Perciò in questa teoria sulla femminilità la maternità è valorizzata nella misura in cui si ha avuto il pene e si avrà un bambino che occuperà la mancanza di pene e darà il valore assegnato alla donna.

In questa spiegazione fallocentrica la bambina, alla quale non si lascia una via d’uscita per maturare a partire dalla sua specificità femminile, si presenta come risentita verso sua madre perché non l’ha dotata di pene, risentimento che potrebbe estendersi ad altre donne e che predice una vita di relazione difficile con donne, tutte carenti di pene e invidiose di possederlo mediante la sessualità con peni e desiderose di maternità, che darà loro valore, poiché hanno posseduto un pene e generato un bambino. La donna che non segua questa evoluzione sarà considerata fallica, vale a dire, al maschile, non sarà riconosciuta sana nel suo processo di maturità sessuale e, non potendo essere riconosciuta nella sua specificità femminile, sarà esclusa dai valori di accettazione perché non si trasforma nella donna che dovrebbe essere. Le resterà l’opzione di mostrare il suo dolore attraverso sintomi della sua anima imprigionata in questo disordine simbolico o di lasciarsi deportare verso un’identificazione con i valori maschili che definitivamente l’allontaneranno da se stessa, confondendola fino a livelli molto profondi del suo sentire di origine femminile.

Dal punto di vista teorico e del pensiero qualsiasi donna colta, universitaria, femminista può leggere tutto quello che ho detto come qualcosa su cui non è d’accordo e che non riguarda la sua vita. Tuttavia, uno sguardo alla sua interiorità e al suo sentire vero la porterà a rendersi conto che tutte queste teorie esplicative sono penetrate in lei in qualche maniera. Sono teorie troppo recenti e con potere di influenza nell’ambito del pensiero perché non tocchino per niente noi donne che viviamo oggi.

Qualsiasi spiegazione della natura umana che ignori la vera natura umana, che è la sua realtà sessuata al maschile o al femminile,[2] porterà a un disordine nella possibilità reale di sviluppo di donne e uomini. In questo disordine di gerarchia di sessi, di valore, di posizione nelle relazioni, è naturale che appaia sofferenza relazionata con il valore che ha quello che io sento e il valore assegnato dalla imposizione dei significati. Vale a dire c’è un disordine di senso che ci creerà scontri molto frequenti e che rimarranno bloccati non potendo sentire quello che veramente sto sperimentando.

Tutto l’inquadramento presentato fin qui è per dire che l’invidia del pene è una teoria patriarcale, androcentrica e fallica. Teoria costruita dalla psicologia e dall’esperienza di vita di chi l’ha creata.

La spiegazione precedente risponderebbe alla domanda: chi ha invidia degli uomini? Benché non sia formulata, dato che “le donne hanno invidia degli uomini fin da bambine scoprendo la loro superiorità per il fatto che hanno il pene” fu un’affermazione senza domanda, ho dovuto riferirmi a quella perché l’ordine non viene mai senza prima far fronte al disordine. Tuttavia, essendo un’affermazione senza domanda, non sembra che indovineranno mai perché: Noi donne né da bambine né da adulte abbiamo invidia del pene.

Comunque, se rispondiamo alla domanda dell’inizio: chi ha invidia delle donne? certamente possiamo rispondere che ci sono degli uomini che hanno invidia delle donne.

Sembra che quando c’è coscienza da parte degli uomini della differenza sessuale femminile come differenza anatomica (noi donne abbiamo organi specifici per concepire corpi dentro di noi, per creare vita dentro di noi), certamente è possibile che ci sia invidia perché è una realtà corporale esclusiva delle donne. Loro non hanno niente di equivalente nei loro corpi e nel contesto fallocentrico di significazione teorica, nel quale si dice loro che sono superiori e che occupano tutto, questa “mancanza” non è facile da inserire. Percepiscono con chiarezza che questa capacità femminile di creare vita al proprio interno e di darla alla luce va molto al di là dell’essere solo concepimento di corpi. Hanno sentito fin dalla loro più tenera infanzia la presenza potente di una donna, la loro madre, che gli ha dato, oltre al corpo, la parola, e hanno avuto esperienza con bambine e con donne creatrici di concetti di vita che riguardano anche loro, di modo che, in questa  contraddizione di essere considerati come i possessori del pene e del fallo, come fonte di valore e di potere, e la realtà vissuta e concreta di sapere che le donne hanno un di più, possono entrare in un disordine del sentire che li porta a invidiarle.

Infatti, pare che noi donne non abbiamo invidia del pene, però siamo colpite da tanta violenza simbolica e molte, molte volte, reale che nega il nostro sentire generatore di senso e significato. Una donna che sia rimasta imprigionata nel disordine di questa spiegazione fallocentrica vivrà in un disordine del sentire profondo, al quale la coscienza non arriva, e la sua vita si svilupperà adattandosi a questo ambiente di significati. Si possono dare due possibilità.

a) Una donna può cadere nell’attribuzione del valore assegnato a una donna da questa prospettiva, quella di assumere come elemento di valore proprio il suo compito secondario all’uomo, accettando che il valore simbolico del pene, il fallo, sia quello che ha senso di valore, e che lei raggiunge la sua maturità con la maternità, dove ottiene il valore assegnato al suo sesso. Da questa posizione può cadere in un disordine di relazione con il suo proprio valore come donna ed entrare in un risentimento verso le altre donne, per prima sua madre, dato che non ha il referente femminile come valore primario ma come valore residuale per essere nata femmina. Qui lei può provare una frustrazione e un dolore profondo se non è in coppia o se non è stata madre perché si è calata nella credenza che il valore di una donna è assegnato in base all’essere scelta da un uomo. E questo dolore può essere vissuto dalla donna come invidia di quello che un’altra donna ha e che le permette di avere un uomo e di essere madre. Il guadagno rispetto all’altra donna sarà nell’avere un compagno o piacere agli uomini e nel poter essere madre che le darà valore rispetto alle altre donne, la porrà al livello di sua madre e raggiungerà il valore assegnato per lei nella cultura.

b) Una donna può cadere in questo disordine anche pensando che lei può essere come un uomo, considerarsi sua uguale, lei uguale a lui. Questa teoria contava pure su questa possibilità e allora la donna era considerata fallica, non giungeva mai alla maturità femminile. Non c’era via d’uscita: o sei una donna e accetti la tua assegnazione di valore nella sessualità vaginale e nella maternità come senso della tua vita oppure realmente non sei una vera donna. Questa donna che pensa di essere uguale all’uomo in realtà non risolve il disordine presentato prima ma si ribella contro questa imposizione identificandosi con il valore attribuito all’uomo. È come se dicesse: “bene, non ho il pene, ma è come se lo avessi, mi attribuisco il valore del fallo”. In apparenza risolve il suo dolore, negando lei stessa la sua specificità femminile, e l’invidia verso altre donne apparirà ancora più confusa, dato che crede di aver messo da parte nella sua coscienza il fatto della differenza sessuale come portatrice di significato proprio, quando quello che ha fatto è eliminare dalla sua coscienza il dolore per la non valorizzazione della sua differenza sessuale femminile.

Di modo che alla domanda: chi ha invidia delle donne? si può anche rispondere in base ai due aspetti presentati. Le donne possono avere invidia di altre donne, però dalla mia esperienza questa invidia, precedentemente indicata, di donne verso altre donne non risponde veramente all’invidia delle donne, ma è una conseguenza del disordine generato nelle donne che, essendo rimaste intrappolate in questa attribuzione di valore secondario, sviluppano quella che chiamiamo gelosia: la donna entra nel gruppo di donne vivendole come competitrici, rivali, per ricevere l’attenzione dell’uomo visto come referente di valore, tanto per essere scelta quanto per assomigliare a lui. L’invidia appare in una relazione duale, prima dell’apparizione della gelosia che si ha in una relazione di tre, e ha la sua radice nella prima relazione duale umana: quella che abbiamo con la madre. Questo è così per donne e per uomini. All’origine della vita affettiva delle donne e degli uomini c’è una donna, la quale con la nostra nascita diventa nostra madre. E così giungiamo alla successiva domanda.

Perché le donne sentono invidia le une per le altre?

Nella risposta a questa seconda domanda abbiamo la possibilità di entrare nel disordine, a cui mi sono riferita precedentemente, e dove, in base alla mia esperienza, si può giungere a considerare il sentire femminile che porta a questo male dell’anima che fa molto danno nella relazione fra donne. Ci troviamo davanti a un gran male e, forse per questo, per quanto sono grandi i suoi effetti distruttivi, si trasforma una volta di più in qualcosa di proibito da nominare con chiarezza. Di nuovo, come per l’incesto, ci troviamo davanti alla proibizione di nominare questa violenza.

L’invidia si presenta nel sentire come un fatto dell’esperienza che avvolge chi la sente in un disordine di relazione con se stessa ma anche con le sue relazioni. Non può essere cambiato con la volontà: chi sente invidia ha bisogno di fare un percorso di riconoscimento di questa violenza nella sua vita fino a giungere all’origine dove si è instaurato e lì poter guardare la sua anima ferita, una ferita che non ha potuto ricevere l’amore che lo faccia uscire da questa desolazione che comporta il non sentirsi amata e riconosciuta.

L’invidia appare in una relazione duale: la donna che invidia e la donna invidiata. Non è facile né da riconoscere né da nominare. Normalmente sarà qualcuna/o al di fuori di questo duo di invidiosa-invidiata che la nomina ed è più probabile che si possa segnalare alla donna invidiata. Non è facile farlo alla donna invidiosa perché di solito occupa un luogo di potere nella relazione e di solito causa timore.

Non è facile da nominare perché esiste una proibizione a farlo. La donna invidiosa è una donna intelligente e capace di avvolgere l’invidiata in una relazione di dominio e manipolazione che appaiono come interesse e accompagnamento nel suo sviluppo. La relazione si svilupperà dentro questo modello di controllo che l’invidiosa ha, nel quale appariranno comportamenti gradevoli e di adulazione, quelli che permettono la realtà della relazione, cioè il controllo e il dominio della libertà dell’invidiata. In questa maniera l’invidiata non potrà dispiegare la sua libertà di essere, che è quello che l’invidiosa non può tollerare. La donna invidiosa proietta sull’invidiata il suo mondo interiore non risolto, pone fuori il male che porta dentro, posto che lei non sente la libertà di essere se stessa, si sente piena di valore però non riconosciuta e, nella sua più oscura interiorità, in realtà teme che, ogni volta che si manifesta attraverso questo suo valore, esso non sarà riconosciuto. Non può tollerare che nessuna altra donna mostri il suo valore, quello che lei crede sia alla sua altezza. Questa invidia si manifesterà ogni volta in cui vedrà nell’altra un di più e allora cercherà la sua distruzione. Per mantenere l’equilibrio nella sua vita avrà bisogno di contesti relazionali che possa dominare, che non attivino la sua invidia. Si alimenta del male, si è persa in lui e non lo riconosce come dannoso: giustifica la sua condotta presentandosi come vittima. Se mantiene una relazione duale sarà conflittuale, se non entra in questo equilibrio di dominare-dominata. La donna che occupa il posto dell’invidiata ha a sua volta una storia personale di relazione con il suo proprio valore che anche lei non ha risolto, per questo rimane, anche lei ha paura di dispiegare la sua libertà. L’invidiata non potrà far sì che smetta di invidiarla, ogni atto in questo senso accrescerà il comportamento di dominio e manipolazione dell’invidiosa. Il male irretisce, fermarsi a segnalarlo coinvolge e imprigiona nella seduzione per il desiderio di bene che trasmette. Non esiste nessuna possibilità di dialogare con l’invidia che non sia quella di chi la sente in se stessa.

Benché la riconosceremo in qualche momento della nostra vita già adulta, o ce lo abbiano detto da bambine, la radice e l’origine della invidia si produce in un disaccordo non risolto nella prima relazione duale della vita, la relazione con la madre. Di modo che questo può essere un percorso perché la donna invidiosa riconosca un bene precedente a questo male che si è imposto nella sua anima e che la mantiene nell’oscurità del non poter essere. Accettare che posso fare un percorso di sentire vero, dal momento presente in cui sto fino all’origine del male che si è imposto in me, non è un compito facile. È pieno di luoghi oscuri e dolore dell’anima e del corpo, però è il percorso della vita, dato che la vita può esprimersi solo nel dispiegare la propria libertà di essere.

Perché risalire alla nostra prima infanzia per dire qualcosa sulla persona invidiosa? Perché se non andiamo all’origine, alla radice nel nostro proprio sentire, non possiamo comprendere né risolvere la sofferenza a cui ci vediamo esposte. È alla nascita che appare la propria individualità, quando comincia la relazione duale come origine della nostra vita affettiva, del nostro sentire proprio.

Andiamo all’origine della nostra vita di relazione per rispondere al sentire della donna invidiosa perché è in questo tempo primigenio della relazione affettiva che si inizia con la madre, dove si sta costruendo la nostra individualità, la delimitazione del mio sentire proprio. In questo tempo di vita la creatura si trova in una situazione di permanente necessità di attenzione ai suoi bisogni di sicurezza e di essere calmata di fronte a sensazioni fisiche e di relazione affettiva che le possono creare un’angoscia che può essere lieve o insopportabile. Se la frustrazione e il disaccordo prevalgono, si instaurerà l’invidia come vissuto in cui l’altra non mi dà quello che ha per calmarmi e resto fissata in questa mancanza di non avere il buono che l’altra possiede, nella rabbia perché non me lo dà e nel desiderio di possederlo per me, dato che è nell’immaginazione che credo che questo mi calmerà. Questa situazione non permette che possa differenziarmi nel mio sentire completo, in cui riconosco ansietà e sollievo, dolore e piacere, e rimango scissa, persa in un disaccordo permanente con l’altra e, pertanto, con me stessa. Infatti, è nell’incontro con l’altra dove si va definendo l’incontro con me stessa. Se questa situazione di disaccordo rimane fissata, si ripeterà nelle successive relazioni duali e l’invidia occuperà un luogo centrale nella vita di relazione di questa donna.

Nella mia esperienza la donna invidiosa esprime un dolore profondo nei confronti della madre perché non le ha dato quello che lei meritava ed esprime un vuoto che vive come insalvabile per riconoscere quello che la madre le ha dato o riconoscere le condizioni in cui si trovava per le quali non le ha dato quello di cui lei in quel momento aveva bisogno.

Non si tratta di non riconoscere l’esperienza di vita che ho avuto da quando sono nata. Si tratta di non dimenticarmi di me, di essere capace di riconoscere che mia madre svolse il suo compito, portarmi in questo mondo e favorire la mia permanenza in esso nella maniera in cui seppe farlo. Si tratta di essere capace di accettare che mia madre, una donna, aveva la sua propria esperienza di vita, il suo proprio sentire e un contesto relazionale, quando diventò mia madre, che favoriva, oppure no, lo sviluppo di questa relazione di cura e di incontro amoroso di cui io, sua figlia, avevo bisogno. È stato da questo suo contesto di vita alla mia nascita che ha potuto stabilire la sua relazione con me.

Questo è un primo atto di riconciliazione con me stessa, poiché è da me stessa che mi sento allontanata, ed è in questo spazio di sentire proprio dove è rimasto fissato il dolore. Mia madre poteva non sapermi amare sufficientemente per il mio benessere, non sapermi proteggere quando ne avevo bisogno, e proiettare su di me il suo dolore, la sua insoddisfazione, la sua colpa, le sue frustrazioni; però questo male tocca lei. A me tocca incontrare il suo di più perché lì mi incontro con me stessa, lì riconosco la mia capacità di vita, mi incontro con la forza di quella bambina piccola che ha saputo trovare il percorso per portarmi fin qui.

Se non giungo a questo primo atto di riconoscimento di autorità femminile materna non potrò sciogliere veramente il filo che ancora mi mantiene vincolata a questo bisogno di madre, a che mia madre mi ponga nel mondo, riconoscendomi come piena di valore per essere me stessa e sviluppare la mia propria individualità. Se io donna adulta non sono capace di riconoscere che “mia madre” è un’altra donna che divenne mia madre nel darmi alla luce, che svolse la sua funzione materna perché sono qui, non potrò riconoscere autorità femminile e pertanto non potrò sviluppare la mia vita propria.

La situazione si potrà complicare perché più avanti si presenterà una terza persona, di solito il padre o altre persone che mantengono una relazione affettiva con la madre, e può insorgere la gelosia. Se nell’invidia parliamo di una relazione duale, nella gelosia parliamo di una relazione nella quale sono implicate tre persone. La gelosia è basata sull’invidia ma quello che si presenta come conflitto è il timore di perdere l’amore e l’attenzione che mi deve la persona con cui mantengo una relazione privilegiata: mia madre, mio padre, il mio compagno, la mia amica. Posso provare gelosia anche per l’attenzione che questa persona ha verso il suo lavoro o per i suoi interessi personali, infatti, sento che sottraggono dedizione a me. Nel caso della gelosia, che è più facile sentire e nominare, la persona gelosa, uomo o donna, non tollera che nel duo che compone con l’altra appaia una terza persona o un interesse diverso nella coppia. La voglio in esclusiva per me, ma in fondo continua a esistere questa sensazione di non avere un valore proprio e per questo temo di vedermi allontanata dall’amore e dalla cura che ricevo.

Ci troviamo come donne in un circolo relazionale che dobbiamo imparare a risolvere per trovare la pace interiore e la pace tra di noi. Io, nata donna, ho una storia di relazione con mia madre, nata anche lei donna da un’altra donna, e così nella nostra genealogia femminile. Se non tiro fuori “mia madre” da questo possessivo in cui le attribuisco tutta la responsabilità per le mie disgrazie, non potrò essere veramente una donna perché non raggiungerò la maturità per farmi carico delle mie proprie esperienze. Se non giungo a questo punto posso diventare madre da quel luogo non risolto col mio proprio sentire e con la mia storia di relazione materna, e così io trasmetto tutto questo disordine, vivendolo sempre come figlia, senza essere capace di riconoscere la mia potenza materna, potenza che c’è in tutte le donne e che va molto oltre il concepimento di una creatura. Ogni donna madre è responsabile della sua maternità e ogni donna figlia è responsabile della sua maturità come donna: così noi troviamo, donna con donna, l’inizio di un percorso molto diverso dal perderci nelle gerarchie della parentela e del disordine delle relazioni che si instaurò con la violenza del patriarcato che abbandonò l’ordine amoroso della vita nella parte più profonda del nostro inconscio, sepolto sotto la forza e la manipolazione di chi rimase nel disordine generato dal male.

Nasciamo in un contesto di disordine e solamente connettendoci col nostro sentire vero, dell’origine, possiamo connetterci con la potenza della genealogia femminile che ci permetterà di amare le nostre creature nella maternità e amare noi stesse a partire dal riconoscimento di autorità femminile che ci permette di essere una donna concreta, scegliendo la nostra espressione creatrice nel mondo. Risolvere l’invidia credo che abbia a che vedere con il riconoscimento di autorità femminile, il riconoscimento di questo di più femminile del concepimento di creature e di concetti.[3]

Non è il percorso del significato quello che ci porterà a superare l’invidia ma il cammino del sentire.

Bibliografía

Melanie Klein, “Envidia y gratitud”, en Obras completas, 3. Barcelona: Paidós, 1989; Invidia e gratitudine, trad. it. di Laura Zoller Tolentino, introduzione di Anteo Saraval, Martinelli, Firenze 1969.

María Zambrano, “La envidia mal sagrado”, in El hombre y lo divino, México: Fondo de Cultura Económica, 1955; “L’inferno terrestre: l’invidia” in ead., L’uomo e il divino, trad.it. di Vincenzo Vitiello, Edizioni Lavoro, Roma 2011, pp. 253-270.


[1] Utilizzo il termine “Mondo” nel senso che le attribuisce María-Milagros Rivera Garretas nel suo libro Sor Juana Inés de la Cruz. Mujeres que no son de este mundo, Sabina, Madrid 2019.

[2] Realtà che si dispiega, come segnala María-Milagros Rivera Garretas, in due infiniti propri: María-Milagros Rivera Garretas, La diferencia sexual en la historia, Universidad de Valencia, Valencia 2005.

[3] María-Milagros Rivera Garretas, Sor Juana Inés de la Cruz, cit.