Lingua madre e lingua materna. In margine alla giornata di studi sulla “Lingua dell’altro”.
Ho letto a fine aprile sui giornali che una deputata leghista ha proposto che la Legge consenta alle Regioni di richiedere agli extracomunitari che intendono aprire un negozio il «superamento dell’esame di base della lingua italiana rilasciato da appositi enti accreditati». Si tratta di una notizia che certamente riguarda il rapporto tra la lingua e l’altro e dunque, indirettamente, anche la lingua dell’altro, che, ad esempio, è posta come una lingua che non basta per aprire un negozio.
In questa proposta si deve vedere un ulteriore tassello di quell’ampia politica portata avanti in primis, ma non unicamente dalla Lega, che è volta a rendere difficile se non a ostacolare l’integrazione degli stranieri? C’è più di una ragione per crederlo, ho pensato immediatamente notando che nella proposta non si parla di corsi di lingua italiana la partecipazione ai quali sia eventualmente certificata, ma si va direttamente all’esame-barriera. Tuttavia, ho pensato altresì, per giustificare una tale proposta non potranno che far leva sul valore dell’integrazione che la conoscenza della lingua favorisce, non potranno insomma che ammettere l’importanza di ciò che pure, nella loro prassi effettiva, non perseguono e anzi ostacolano. Mi sbagliavo: la ragione addotta a favore di questa proposta è la necessità di garantire che chi vuole aprire un esercizio commerciale sia in grado di leggere le leggi e le disposizioni sanitarie specifiche. Quindi: imporre un controllo (della conoscenza dell’italiano) che consenta ulteriori controlli (del rispetto delle leggi e dei regolamenti relativi ai negozi). Viene così ribadita la prospettiva per cui gli stranieri extracomunitari sono, per l’agire statale, innanzitutto soggetti su cui vigilare; una prospettiva che induce nella popolazione italiana il sospetto e la diffidenza nei loro confronti. Niente di nuovo, insomma?
Stavo per chiudere la riflessione su quella notizia, quando mi sono accorto di quale fosse l’espressione che mi aveva toccato: “l’italiano di base”; esaminare la padronanza base della lingua italiana, fornire la conoscenza dell’italiano di base, raggiungere la soglia base, “devono pur possedere le basi dell’italiano”… Che cosa significa tutto questo? Non è che quest’idea dell’italiano di base è una che all’inizio si fa forte di ciò che è ovvio e difficile da contestare per poi perdere rapidamente un sicuro legame con l’esperienza e la realtà? Voglio dire: l’italiano in cui sono scritte le leggi, le disposizioni normative, i regolamenti è un po’ come l’italiano in cui sono scritte le istruzioni degli elettrodomestici, una lingua nient’affatto accessibile e guardando attraverso la quale è difficilissimo riconoscere ciò di cui essa parla ritrovandone l’esperienza che ne abbiamo ordinariamente; è difficile riconoscere la pratica della compravendita guardandola attraverso le leggi relative, così come è difficile riconoscere la lavatrice partendo dal libretto delle istruzioni. L’italiano di base, se l’espressione non è una trappola, non può essere questo. E non è finita: se anche leggi e regolamenti non fossero scritti nell’italiano tecnico e talvolta artificiosamente barocco in cui sono scritte, che cosa significa fare della capacità di capirli il discrimine della padronanza di base di una lingua? La base della lingua è forse la comunicazione tra lo Stato e i cittadini, tra il sovrano e il popolo?
Se riconosciamo che al centro della vita, cioè nel luogo dove si apre la questione della felicità e della libertà, non stanno i rapporti dei cittadini con lo Stato, ma le relazioni tra i cittadini stessi, o meglio tra gli uomini e le donne che vivono in certi luoghi o li attraversano, allora anche il tema della lingua si dispone differentemente: non si tratta di garantire una sola lingua per una sola amministrazione, ma di pensare le condizioni perché quegli incontri e quelle relazioni che già accadano possano farsi meno anonimi. E allora il punto non è l’italiano di base, come sanno bene i negozianti veneti che ai clienti affezionati, a quelli con cui non hanno un rapporto qualunque, non parlano in italiano, ma in dialetto.
C’è una questione di base che oggi ci si impone ed essa è anche una questione di lingua: innanzitutto è una questione di relazione e di apertura alla relazione, di ascolto, di riconoscimento; ma se il riconoscimento non ha da essere solo dell’altro in qualche sua qualità astratta (cittadino, straniero comunitario, extracomunitario regolare, extracomunitario irregolare ecc.), ma nella sua singolarità, allora non può che realizzarsi in un rapporto articolato che richiede una lingua capace di sorreggere questa complessità. E questa lingua non esiste. Non esiste, dico, come una lingua che qualcuno possa insegnare ad un altro, come una lingua la cui padronanza si possa testare con esami: se c’è è perché accade e se accade, accade a partire dagli incontri, da incontri che annodano a sé storie passate e i fatti nuovi che via via si presentano, incontri che sono legami.
Se questa lingua non c’è, ma accade, ci sono invece delle risorse e delle condizioni per essa. Di una di queste ho fatto esperienza nell’estate del 2008 quando ho organizzato, con Stefania Ferrando, un corso di italiano per i ragazzi e le ragazze stranieri delle scuole medie inferiori.
Durante la primavera di quell’anno mi era stata affidata una supplenza di qualche mese alle medie e in quell’occasione, tra le altre cose, ho potuto toccare con mano quanto profondamente sia già cambiata la composizione della società italiana. In tutta la mia carriera scolastica, dalle medie alla maturità, che non ho sostenuto quarant’anni fa, ma poco più di dieci, non ho mai avuto un compagno o una compagna di classe non italiano/a, né ricordo stranieri nelle classi vicine. Rientrando a scuola, nel 2008, mi sono trovato in un mondo diverso: per i giovani italiani, ho pensato, è del tutto naturale essere accanto, parlare, mangiare, giocare e ridere con ragazzi che non sono nati in Italia, che, per fare due esempi cui potrei dare nome e cognome, quando erano più piccoli hanno pescato coi loro nonni in isolotti sull’Oceano Indiano o hanno sentito il vento arrivare dal Sahara o non hanno mai assaggiato i tortellini, ma mangiano spesso il cous-cous di pollo. Per quante sofferenze possano ancora essere causate da atteggiamenti di esclusione o di preventiva diffidenza, la realtà della relazione già instaurata è più forte e penetra nella mente rendendola comunque più aperta. Ad ogni modo, in quei mesi di supplenza sono diventato amico di molti studenti e dunque anche di molti studenti stranieri: il corso estivo che ho organizzato era per me innanzitutto un’occasione per mantenere vivo il rapporto con questi ultimi. L’idea di base era semplice e forse avrebbe potuto essere migliore: dare ai ragazzi e alle ragazze interessati un’altra occasione per praticare l’italiano, talvolta partendo dalla lettura di un racconto, altre volte da una partita a scarabeo. Durante il corso, però, è successa anche una cosa inaspettata. Una delle studentesse, pur divertendosi a giocare, ci ha chiesto se avremmo potuto dedicare un po’ di tempo per leggere con lei qualche poesia della letteratura italiana.
Da allora ho pensato spesso a questa richiesta e al suo significato, così difficile da esplicitare. Abbiamo letto e commentato alcune poesie di Pascoli e di Montale: per parlarne, dovevo provare ad immaginare come dovessero apparire a chi non ha l’italiano come sua lingua madre e, in questo sforzo di immaginazione, mi pareva come di leggerle per la prima volta, di sentire come per la prima volta la ricchezza del loro linguaggio. Quando, assumendo la postura dei burocrati, si dice con sprezzo che gli stranieri che vengono in Italia “devono mettersi in testa di imparare la nostra lingua, l’italiano”, si dimentica che l’italiano non è solo la lingua in cui sono scritti i contratti per l’allacciamento dell’acqua o della luce, si dimentica che l’italiano in cui possiamo davvero costruire relazioni significative, con gli stranieri che vivono accanto a noi, come con gli altri italiani, è quell’italiano la cui ricchezza non ci è affatto familiare come vorremmo far credere, prima di tutto a noi stessi. È una ricchezza accogliente proprio perché tutta da scoprire anche per noi – questo mi ha insegnato leggere Pascoli con una mia amica di tredici anni che è nata in Marocco.
Il punto, naturalmente, non è l’italiano, ma che ciascuno e ciascuna può rapportarsi in maniera non anonima all’altro a partire dalla sua propria lingua madre, quale che sia, proprio anche in virtù della piega di estraneità che già attraversa il suo rapporto con quella lingua.
L’idea generale non è nuova: una sua versione è ad esempio sviluppata da Julia Kristeva in un libro dal titolo significativo: Stranieri a se stessi, in cui sviluppa la tesi che il fondamento per un’etica all’altezza del fenomeno interculturale debba essere cercato in una diversa idea dell’identità personale e di ciò che è “proprio”; «riconoscendo lo straniero in noi, ci risparmiamo di detestarlo in lui»[1]. Intersecare questa idea con la questione della lingua ci porta dritti alla differenza tra la lingua madre e la lingua materna.
La distinzione tra lingua madre e lingua materna non è di lana caprina, anche se la somiglianza tra le due espressioni potrebbe farlo pensare. Si tratta invece di una distinzione tentando di operare la quale si possono, se non definire, per lo meno delimitare, alcune delle ambiguità che sono emerse in connesse al progetto, alla base della giornata di studi, di tagliare la questione della “lingua dell’altro” utilizzando la nozione, lavorata a lungo all’interno del pensiero legato all’eredità del femminismo della seconda ondata, di “lingua materna”[2].
Poiché una distinzione rigorosa richiederebbe un’esposizione precisa dei due concetti in questione, che io non sono in grado di offrire, mi limiterò ad alcuni suggerimenti che credo siano abbastanza indicativi del punto dove la lingua materna e la lingua madre si connettono distinguendosi.
La lingua madre è per ciascuno e ciascuna quella di cui è madrelingua. Non è questa una definizione circolare giacché l’espressione “madrelingua” è una di quelle che tutti sappiamo maneggiare senza troppe difficoltà e che non ha le connotazioni intense che appartengono all’espressione “lingua madre”, quelle sulla base delle quali Elisabeth Jankowski ha, ad esempio, osservato come la parola “Muttersprache” (“lingua madre”) «in Germania è fortemente compromessa» a causa dell’uso che ne aveva fatto l’ideologia nazista nella costruzione del mito del popolo, del sangue, della patria[3]. Uno è di madrelingua italiana se l’italiano è la sua prima lingua, quella che ha appreso da bambino. Vi sono contesti in cui ricorre questa parola, che sospendono le eventuali tracce affettive che possono essere presenti per il riferimento alla madre: nelle scuole superiori, ad esempio, cercano lettori di francese, inglese o tedesco che siano “madrilingue” e chi si candida per questi lavori si dichiara “madrelingua” senza alcuna esitazione.
La lingua di cui uno è madrelingua, cioè la lingua che per costui o costei è la sua lingua madre, che sia una lingua nazionale o un dialetto, resta una lingua di cui è stata formulata o potrebbe essere formulata la grammatica e di cui è stato compilato un dizionario o potrebbe esserlo. Insomma la lingua che per qualcuno è la sua lingua madre può per qualcun altro essere appresa come seconda o terza lingua.
La nozione di lingua materna, invece, è ben più difficile da ritrarre, anche perché non si è ancora stabilizzato un paradigma condiviso intorno ad essa: quella nozione sta piuttosto al centro di un conflitto di interpretazioni e letture che è molto stimolante, ma anche variegato e in cui sia l’espressione “lingua materna” sia le parole ad essa più vicine sono tutte oggetto di contesa ermeneutica. Una delle linee di divisione più significative di questa disputa è quella lungo cui si articola il dialogo-scontro tra il lavoro di Lacan e della sua scuola su “lalangue” e il lavoro sulla “lingua materna” di quelle pensatrici in vario modo legate alla comunità di Diotima e dunque anche al cosiddetto “femminismo della differenza”.
Per Lacan e la sua Scuola, (a) lalangue caratterizza innanzitutto il linguaggio infantile (il balbettio e la lallazione) e la comunicazione affettiva e corporea più che informativa e referenziale tra il bambino e sua madre; (b) la sua cancellazione è ciò che rende possibile l’accesso al linguaggio pubblico; (c) lalangue continua a operare dallo sfondo nel parlare quotidiano (per cui il suo disconoscimento a livello della teoria rende impossibile comprendere lo stesso parlare quotidiano in tutta la sua ricchezza); (d) lalangue emerge con particolare evidenza nella letteratura e nella poesia d’avanguardia (Lacan pensa innanzitutto a Joyce) e, naturalmente, nell’espressione della follia (psicosi)[4]. Con una sintesi un po’ forzata potremmo dire che lalangue consiste negli aspetti non comunicativi del linguaggio in cui, attraverso omofonie e ambiguità, non “la realtà”, ma ciò che Lacan chiama “il Reale” si fa presente nel discorso. Ora, se dovessi indicare il punto in cui mi pare si collochi la differenza fondamentale della riflessione sulla lingua materna portata avanti da quelle molteplici voci accomunate dal riferimento all’evento del femminismo degli anni ’70, direi che esso è la negazione della tesi “b” (da cui conseguono altre negazioni e varie ricalibrature): non una rimozione della multilaterale comunicazione con la madre consente l’accesso alla dimensione pubblica del simbolico, ma uno sviluppo senza soluzione di continuità di quella comunicazione; che poi quello sviluppo si configuri spesso come un impoverimento, questo non è un destino, ma, in qualche modo, solo un fatto, un fatto che si rovescia in alcuni momenti, i “momenti d’essere” (V. Woolf), quando la circolazione tra cose, esperienze e parole si fa più fluida di quanto non sia nell’universo ordinario del bla bla o della “bolla comunicativa” (espressione coniata da Vita Cosentino proprio nella relazione presentata nella giornata di studi sulla Lingua dell’altro)[5].
Per trovare una formula, si potrebbe dire che la lingua madre è qualcosa, anche se non è un oggetto, è qualcosa; la lingua materna, invece, non è, ma accade; è dell’ordine degli accadimenti o, secondo un suggerimento di Chiara Zamboni, della “grazia”[6]. Per estensione chiamiamo “lingua materna” anche la competenza simbolica che a ciascuno e ciascuna ha donato sua madre e chi l’ha aiutata, la capacità cioè di portare a parola le esperienze, le emozioni, gli affetti, di nominare e collegare le cose e di fare tutto questo in quel processo di aggiustamento reciproco e ascolto che è il dialogo e il legame di fiducia che sostiene e precede lo scambio di informazioni. Tale competenza-capacità, però, non è sufficiente a produrre un momento d’essere, non basta neppure potenziarla e lavorarla con l’esercizio, ad esempio con l’ascolto della poesia o tentando comunicazioni significative e multidimensionali: ci sono sempre anche altre condizioni che non sono anticipabili, né sono a disposizione. Per questo, che si realizzi quel dire che fa incontrare l’altro e che illumina l’esperienza facendosi però nutrire da essa, è una “grazia” o un “dono”.
E se è legata a tale grazia o dono, per cui non è a disposizione, allora la lingua materna non è qualcosa che può essere proprio di qualcuno o anche di molti. Ha a che fare con ciò che ti estranea dalle immagini in cui ti identifichi e ti espropria delle certezze che ti impediscono di incontrare l’altro e il mondo. Non solo, in quanto dell’ordine degli accadimenti inanticipabili non può essere qualcosa che si persegue attraverso un progetto o un agire finalizzato.
La distinzione che ho cercato di richiamare e che, per comodità, ho indicato fissando due espressioni che sono in effetti molto simili, “lingua madre” e “lingua materna”, è una distinzione che ha un’utilità in rapporto alla questione della lingua dell’altro.
Alla voce “bilingues” dell’interessante e bello Dictionnaire amoureux des Langues (Plon et Odil Jacob, Paris 2009), l’autore dell’opera, il linguista Claude Hagège, scrive ad un certo punto : «Anche se le cricostanze sono le più favorevoli, anche se i due genitori adottano la saggia abitudine di utilizzare, ciascuno, solo la sua langue maternelle nel rivolgersi al bambino, comunque le famiglie miste non generano dei perfetti bilingui» (p. 68). Al di là della tesi di Hagège sul bilinguismo nelle famiglie miste, mi interessa il riferimento all’abitudine, detta “saggia”, di rivolgersi al proprio figlio o alla propria figlia impiegando la propria langue maternelle. Che cosa è implicito nel modo in cui questo riferimento è costruito? Innanzitutto che la langue maternelle sia una lingua che qualcuno (ad esempio una madre, ma anche un padre o altri/e) può decidere di usare o non usare per rivolgersi a qualcun altro (ad esempio suo figlio). Se la madre è “saggia” usa la sua langue maternelle per parlare al figlio e così il figlio avrà quella stessa lingua come sua madrelingua ecc. È chiaro che qui si parla di ciò che abbiamo chiamato “lingua madre”.
Solo in riferimento alla “lingua madre” sono formulabili e trattabili tutta una serie di interrogativi, senz’altro importanti, che una società multiculturale come è oggi anche la nostra impone. Ad esempio quando ci si chiede se una donna immigrata in Italia faccia bene o no a parlare al figlio neonato nella sua madrelingua oppure ci si preoccupa del fatto che alcune madri straniere ritengano più vantaggioso per la futura vita del figlio rivolgersi a lui in un italiano che non padroneggiano, nella speranza che questo diventi la vera madrelingua del figlio, ecco, in questi momenti si pongono delle domande che riguardano la lingua madre e non la lingua materna.
A questo proposito si leggano queste righe di Elisabeth Jankowski:
C’è però da dire che oggi, in certi ambienti, viene rifiutata la lingua della madre come vengono del resto rifiutati i dialetti, perché sia l’una che gli altri sono considerati troppo “primitivi” e di impoverimento alla futura ascesa sociale del bambino o della bambina. Talvolta sono proprio le madri stesse che rifiutano questa lingua del cuore per un iperadattamento alle norme linguistiche vigenti nella società, senza rendersi conto del danno che, così facendo, recano al proprio figlio o figlia. Un bellissimo esempio ci riporta A. Tomatis [L’orecchio e la vita, Baldini, Milano 1992, p. 129]: “Qualche tempo fa vennero a stabilirsi in Francia giovani famiglie spagnole. I bambini, naturalmente, furono iscritti alle scuole francesi e sembrava che se la cavassero molto bene, fino al giorno in cui comparvero dei disturbi dislessici. Fatta una verifica, ci si accorse che questa dislessia, non riguardava solamente la lingua d’adozione, ma anche la lingua madre. Ecco che cosa era successo: per aiutare i loro figli, i genitori si erano messi a parlare francese in casa”. Probabilmente erano convinti che la madrelingua potesse ostacolare i figli nell’apprendimento del francese[7].
Anche in questo passo si parla di ciò che ho chiamato “lingua madre” e si evidenziano i pericoli connessi al progetto di alcuni genitori di non rivolgersi ai figli con la loro propria lingua madre. La madrelingua, però, è ad un certo punto chiamata “lingua del cuore” e questo può far pensare che quei pericoli abbiano ripercussioni anche al livello della lingua materna. È vero? Dal riconoscimento dell’importanza della lingua materna si possono davvero dedurre esortazioni e consigli alle madri immigrate come quello che dice: “non parlate ai vostri figli in italiano, ma con la vostra lingua madre, l’italiano lo impareranno negli altri scambi comunicativi in cui saranno coinvolti vivendo in Italia”?
In generale, io credo di no e ciò sulla base della distinzione che ho richiamato tra lingua madre e lingua materna, tuttavia, penso altresì che la scelta, che riguarda la lingua madre, di rivolgersi ai propri figli in italiano da parte di madri e padri nati e cresciuti fuori dall’Italia possa non favorire (anche se non: escludere) l’accadimento di quella circolazione tra fiducia, esperienza e parole che abbiamo chiamato “grazia”.
A proposito della tesi generale. Se il concetto di lingua materna è introdotto per chiarire il modo in cui gli esseri umani, a partire da relazioni di fiducia ed affidamento e di autorità ed orientamento, accedono al senso (e sono messi in grado, dopo, di ricontrattare questo senso), allora è chiaro che il lavoro su questo concetto si situa ad un altro livello rispetto a quello che ha da affrontare il problema psicolinguistico e didattico richiamato poc’anzi. Forse semplificando un poco, potremmo dire: la lingua materna è la competenza incarnata che una madre (o chi svolge il suo ruolo) trasmette alla figlia o al figlio dal momento in cui ha deciso di donargli anche la parola insieme al corpo; poiché questa competenza è incarnata, allora è trasmessa insieme ad una lingua; tale lingua è, ovviamente, la lingua parlata dalla madre nel suo rivolgersi al figlio/a; non è inevitabile che tale lingua sia la madrelingua della madre: spesso lo è, ma può anche non esserlo – si pensi a quelle madri la cui prima lingua è stata un dialetto, ma che alle figlie o ai figli hanno voluto parlare solo in italiano (mia madre è una di queste). Insomma, la lingua materna intesa come competenza simbolica è sempre trasmessa dalla madre attraverso l’insegnamento di una qualche lingua storica (che può essere o non essere la madrelingua della madre), ma è sempre anche qualcosa di differente e di irriducibile alla conoscenza di quella lingua: è la capacità di tessere cose e parole, di articolare la propria esperienza e sta anche alla base della capacità di apprendere altre lingue. Così le vicende della madrelingua della madre non coincidono in tutto e per tutto con le vicende della lingua materna, questa infatti trova sempre un qualche modo di passare, seguendo l’amore che al bambino, se vive, in qualche modo arriva (dalla madre o da qualcun’altra/o).
Se questo è vero in generale e cioè a proposito della lingua materna intesa come competenza simbolica, non vale allo stesso modo per la lingua materna nel suo significato più vivo, quello per cui accade di tornare a parlare in lingua materna solo nei “momenti d’essere”, nei momenti di grazia.
Sebbene ogni nostro uso del linguaggio si fondi su quel rapporto tra parole e cose cui siamo stati resi familiari dalla comunicazione con nostra madre, è altresì vero che non ogni nostro uso del linguaggio ha la stessa qualità che aveva l’uso del linguaggio in quella comunicazione con nostra madre. C’è una differenza. Questa differenza non coincide con la differenza tra la propria madrelingua e le eventuali altre lingue apprese in un secondo momento. Non coincide neppure con la differenza, tutta immaginaria, tra un presunto rapporto di trasparenza e immediatezza tra cose e parole che si sarebbe realizzato nella comunicazione con nostra madre e un rapporto che invece è pieno di buchi, incertezze, linee d’ombra e che si realizzerebbe nel nostro parlare attuale. La differenza in questione, mi pare abbia a che fare col fatto che in quell’antica relazione ciascuno e ciascuna di noi aveva la fiducia di poter partecipare attivamente e liberamente all’aprirsi del senso, mentre in seguito ha cominciato a comportarsi come chi ha da stare alle formule e ai modi già circolanti e dominanti – con ciò che essi lasciano di non detto e non pensato.
Così, se guardata a partire dalla problematica della lingua materna e non da quella della lingua madre, la scelta che molte madri immigrate credono di dover fare a favore dell’italiano come lingua attraverso cui parlare e far passare l’amore per i loro figli per non precludere loro un futuro di libertà e protagonismo, rivela un lato oscuro che non è quello, pur importante, del rischio di dislessia. Quella scelta può infatti dipendere da una soggezione alla cultura qui dominante che da un lato ostacola il trasmettere fiducia in se stessi e volontà di rilancio ai figli, dall’altro rende improbabile che la cultura italiana, invece che divenire un sistema statico e autoreferenziale, viva in legami attivi e arricchiti dall’iniziativa dei nuovi vicini, cioè dei nuovi prossimi.
Come far fronte a questa soggezione che è una crisi di fiducia nel proprio poter essere protagoniste e protagonisti dell’accadere del senso? Non ho una risposta che sappia andare al di là di questa osservazione: ha fiducia in se stesso chi riceve fiducia dagli altri. E questi altri potremmo anche essere noi, gli altri degli altri.
[1] J. Kristeva, Stranieri a se stessi, Feltrinelli, Milano 1990, p. 9.
[2] Le ambiguità evocate non credo siano inseparabili dal progetto citato, tuttavia, penso che la loro separazione richieda senz’altro la distinzione tra lingua madre e lingua materna. Una di queste ambiguità credo sia quella a cui si è riferita e che ha denunciato Wanda Tommasi nel secondo dei suoi due interventi durante il dibattito nella giornata di studi sulla Lingua dell’altro, quando ha detto: «è come se circolassero nel discorso, nei vari discorsi che sono circolati, due accezioni di “lingua materna”».
[3] E. Jankowski, Ascoltare la madre, in E.M. Thüne, All’inizio di tutto. La lingua materna, Rosenberg & Sellier, Torino 1992, p. 36.
[4] Per la nozione di “lalangue”, cfr. Lacan, Il Seminario. Libro XX. Ancora. 1972-1973. Si veda pure: J.-A. Miller, Il monologo de l’apparola, «La Psicoanalisi. Rivista del Campo Freudiano», 20 (1996), pp. 20-40. Un testo ormai classico su questa nozione e le sue ripercussioni linguistiche oltre che a livello della teoria psicoanalitica è: J.-C. Milner, L’amore della lingua (1978), tr. it. di G. Amati – S. Dalto – A. Matranga, Spirali, Milano 1980. Più recente e ricchissimo di riferimenti è poi: D. Heller-Roazen, Ecolalie. Saggio sull’oblio delle lingue (2005), tr. it. di A. Cavazzini, Quodlibet, Macerata 2007. Un esempio di comunicazione madre-figlio in cui il linguaggio referenziale scivola nella glossolalia, ma appunto senza perdere la dimensione fatica o “di rapporto” e un commento psicoanalitico ad esso sono: A. Saugo, Appunti di neomamma e E. Macola, Lalingua madre, «Attualità lacaniana. Rivista della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi», 8 (2008), pp. 195-201 e 189-194.
[5] Pur semplificando la ricchezza e varietà dei contributi, qui sto pensando innanzitutto ai lavori di pensatrici e studiose legate alla comunità di Diotima; nello stesso femminismo italiano, infatti, sono rinvenibili lavori sulla “lingua materna” ben più vicini alla ricerca lacaniana oppure a quella, di origine lacaniana anche se poi distintasi, di Julia Kristeva, penso ad esempio agli scritti degli anni Settanta di Elisabetta Rasy, poi raccolti nel volume: E. Rasy, La lingua della nutrice, Edizioni delle donne, Roma 1978, con una prefazione (molto interessante) di Julia Kristeva. Per quanto riguarda Diotima e dintorni, oltre ai numerosi lavori di Luisa Muraro (Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia [1988], Manifestolibri, Roma 1998, L’ordine simbolico della madre [1991], Editori Riuniti, Roma 2006, Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio, Mondadori, Mlano 2009), si vedano per lo meno anche: V. Cosentino (a Cura Di), Lingua bene comune, Città Aperta, Enna 2006; E.-M. Thüne (a cura di), All’ inizio di tutto. La lingua materna, Rosenberg and Sellier, Torino 1998; C. Zamboni (a cura di), Il cuore sacro della lingua, Il poligrafo, Padova 2006; C. Zamboni, Parole non consumate. Donne e uomini nel linguaggio, Liguori, Napoli 2001.
[6] Chiara Zamboni ha offerto tale suggerimento nel suo primo intervento durante il dibattito nella giornata di studi sulla Lingua dell’altro e ha detto di riprendere questo uso della parola “grazia” da Gregory Bateson: cfr. G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 2000, in particolare il saggio Stile, grazia, informazione nell’arte primitiva, pp. 166-192.
[7] E. Jankowski, Ascoltare la madre, p. 18.