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per amore del mondo

Donne e Uomini

Libertà dell’amore

 

* testo dell’intervento del 28 novembre al Grande Seminario di diotima 2002 dal titolo Donne e uomini, anno zero

 

 

 

 Ringraziamenti

Desidero ringraziare Wanda che ha accettato di essere con me oggi, ringrazio voi tutte/i per la vostra presenza e desidero ringraziare in particolare Luisa Muraro, che non è qui, che nel lavoro preparatorio mi ha proposto di fare un intervento al seminario; Chiara con la quale ho discusso questa relazione (alcune cose sono anche sue) e i cui suggerimenti sono stati molto preziosi; e le altre donne di Diotima per il loro sostegno e la loro fiducia e per lo scambio di idee che abbiamo avuto in questi mesi.

 

 

Struttura della relazione in tre momenti:

 

  1. breve presentazione della questione che intendo affrontare;
  2. percorso personale che mi ha portata a questo tema;
  3. sviluppo della questione.

 

 

 

Vorrei introdurre la mia relazione con una citazione da un bel saggio di Hannah Arendt, La crisi dell’istruzione, nel quale lei scrive che il fatto che un profano, un non-specialista,

 

“si prenda a cuore  una situazione critica con cui egli non ha alcuna legame, dipende dal prodursi della crisi che fa cadere le facciate e cancella i pregiudizi ; la crisi gli fornisce l’occasione di esplorare e investigare il nocciolo della materia, finalmente messo a nudo qualunque esso sia.” (da La crisi dell’istruzione, in Tra  passato e futuro, p.190)

 

Qui in questo passo, ci sono due cose vorrei sottolineare che hanno a che fare con quanto stiamo trattando: il prodursi della crisi, cioè la fine del patriarcato, e ciò che a me “sta a cuore” di questa crisi e che la crisi mette e nudo:  che ne è con la fine del patriarcato della relazione d’amore tra uomini e donne?  

… devo dire che ciò che cercherò di fare è articolare un po’ il problema.

 

E’ questa una questione di fondo di cui anche alcuni uomini cominciano ad essere coscienti: ad esempio Giancarlo Gaeta che, alcuni anni fa, riprendendo Virginia Woolf, rilevava il fatto che “lo specchio si è rotto”, quello delle donne che reggevano l’immagine narcisistica che gli uomini avevano di sé. Più recentemente, nell’intervista di Ida Dominijanni su il manifesto in occasione dell‘11 settembre, Etienne Balibar (professore di filosofia politica a Parigi) parla della relazione tra uomini e donne come di una “questione di fondo” dell’attuale crisi della politica.

 

2.

 

Nel tentare di affrontare questo tema, intreccio i fili che altre mi hanno messo a disposizione e a cui sono molto grata, fili di ciò che è stato guadagnato dalla pratica e dal pensiero della differenza sessuale con quelli delle urgenze, desideri, conquiste, che provengono dal partire da sé e dalla fedeltà al proprio desiderio.

Mi servirò per questo di citazioni che mi aiutano a dire meglio ciò che sto cercando, facendo ricorso a quello che altre hanno detto con parole “buone” anche per me (le citazioni si trovano nel foglietto distribuito).

 

Punto di partenza:

 

Per me affrontare questa questione significa fare i conti con la storia e il senso della mia vita, il cui filo conduttore è stato l’amore per la libertà.

Per anni mi sono aggrappata a questo “amore per la libertà” senza sapere cosa fosse e quello che cercavo, ma cercavo; e solo quando ho trovato la direzione della fedeltà a me stessa e quindi al mio essere differenza femminile con tutto quanto ne consegue, ho riconosciuto quello che stavo cercando e sono stata felice.

Quella fedeltà ha significato però anche, nel contempo, un’opera di sottrazione a quel mondo patriarcale/maschile, a quella cultura, a quegli uomini che pure mi attiravano, sottrazione a causa del senso di estraneità che avvertivo; il sottrarmi era l’unico modo, anche se un modo al negativo, per stare a quella libertà (m’interessava la politica, ma non riuscivo a farla attivamente, mi piaceva la filosofia ma in fondo c’era sempre qualcosa che mi faceva sentire inferiore, che mi sfuggiva per cui non ho dato mai pienamente il mio assenso alla filosofia così com’era; gli uomini mi attiravano, ma non mai da compromettermi fino in fondo); mi sono sottratta, o meglio, semplicemente, quel mondo già mi escludeva, sentirmi esclusa mi ha portata a non dargli il mio assenso.

Tale posizione però non risolveva il mio stare al mondo.

In questo riconosco quel bisogno che Luisa Muraro rileva nell’introduzione all’ultimo libro di Diotima, Approfittare dell’assenza (pag. 3), cioè il bisogno di risolvere un conflitto interno di dipendenza/indipendenza, appartenenza/estraneità, quel fastidio per trovarci combattute tra starci e non starci.

 

Per fortuna molta strada è stata fatta e le parole di quella libertà sono state dette per merito di tante donne che avevano il mio stesso amore e molta più forza per aprire varchi nuovi, e (cito ancora da quell’introduzione) “siamo arrivate vicino a una fedeltà verso le nostre madri e il nostro desiderio, non più lacerate” (Approfittare dell’assenza, p.3); il riconoscimento del “senso libero della differenza di essere uomo/donna” (Luisa Muraro, intr. a Diotima, Oltre l’uguaglianza) è stato riconoscimento dell’agire della libertà femminile che si è significato con l’indipendenza simbolica dal patriarcato.

 

 

Fatto questo percorso che ha portato al riconoscimento dell’agire della libertà femminile, la questione da cui sono partita, cioè: che ne è oggi della relazione d’amore tra donne e uomini, mi si ripropone secondo l’urgenza del tenere insieme due esigenze fondamentali: l’amore della libertà e la libertà dell’amore; l’amore della libertà è quello che mi ha guidato fin dagli inizi.

Ora, arrivate a questo punto, mi preme accostarlo, intrecciarlo alla libertà dell’amore per superare quell’inconciliabile che avvertivo tra libertà e amore: o vuoi la libertà e allora devi rinunciare all’amore, o vuoi l’amore e allora devi rinunciare alla libertà.

 

Per fare questo mi oriento tornando alle origini (orientarsi significa andare verso oriente, verso l’origine appunto), in questo caso verso i momenti sorgivi del pensiero della differenza.

 

Penso allora a Luce Irigaray quando, agli inizi degli anni ’80, scrive:

 

“La differenza sessuale rappresenta uno dei problemi o il problema che la nostra epoca ha da pensare. Ogni epoca ha una cosa da pensare. Una soltanto. La differenza sessuale, probabilmente, è quella del nostro tempo. La cosa del nostro tempo che, pensata, ci darebbe la salvezza?”

 

E ancora a quando, sempre negli anni ’80, nel primo libro di Diotima si poneva

 

“il problema di fondo della differenza sessuale: come può significarsi l’essere femminile, come può uscire dalla sua intimità senza parole, in un ordine insieme sociale e simbolico che definisce il soggetto di sesso femminile per opposizione e somiglianze con il soggetto maschile?” (Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, p.33)

 

e lì veniva pensata la differenza secondo l’asimmetria tra donna e uomo.

 

Nel frattempo la pratica politica delle donne e il pensiero della differenza sessuale hanno dato, appunto, voce alla libertà femminile e ciò ha scardinato l’ordine esistente, ha messo al mondo “altro” rispetto a ciò che è proprio del mondo patriarcale tanto che si è giunte alla considerazione che (mi riferisco al Sottosopra rosso “E’ accaduto non per caso”) il patriarcato è finito perché non ha più il credito femminile, ha perduto la capacità di significare qualcosa per la mente femminile.

 

Le parole dunque sono state trovate, l’irriducibile asimmetria, di cui parlano Carla Lonzi in Sputiamo su Hegel e il primo libro di Diotima, ha trovato la sua forma passando attraverso l’ordine simbolico della madre, cioè la relazione di autorità, relazione prima, che ha permesso non solo di sottrarsi  all’unicità del mondo simbolico maschile, ma di “mettere al mondo il mondo” e di dare voce al simbolico femminile.

 

Molto dunque è stato fatto e l’affermarsi della libertà femminile porta a sconvolgere l’ordine esistente con delle conseguenze anche preoccupanti per gli equilibri sociali, politici affettivi e oltre.

 

Per meglio chiarire, riprendo sempre dal Sottosopra del ’96, la parte che si riferisce alla fine del patriarcato nella quale si dice che:

 

“Forse, per i rapporti di dominio, vale quello che vale per l’amore, che bisogna essere in due? Adesso lei non ci sta  più, non è più la stessa: è cambiata come si dice. Ma non si tratta di un cambiamento qualsiasi. … E’ un cambiamento la cui profondità domanderà tempo per essere misurata e forse ci farà paura. “La donna non ha di che ridere quando crolla l’ordine simbolico“ scrisse la filosofa Kristeva nel 1974, consapevole che i crolli – pensiamo al muro di Berlino (ma oggi possiamo metterci anche le torri gemelle) spesso fanno nascere più problemi di quelli che risolvono. Noi abbiamo voglia di ridere lo stesso, ma ci domandiamo: e adesso? Che cosa capiterà al mondo e a noi stesse adesso che le vite femminili e i rapporti con gli uomini non sono più o saranno sempre meno regolati dal simbolico patriarcale?”

 

Ecco, a questo proposito rispetto a queste domande e al fatto che “lei non ci sta più”, mi colpisce soprattutto un fenomeno che si sta diffondendo in Italia e che trovo preoccupante. Lo vediamo tragicamente nella cronaca: quasi ogni settimana ci sono notizie di donne uccise dal compagno/marito perché sono stati abbandonati, perché loro, le donne, non ci stanno più a quel rapporto.

 

Con la caduta di un ordine simbolico, di valori e norme che danno ordine, garantiscono e regolano i rapporti, gli uomini individualmente diventano più fragili e la violenza irrompe in maniera devastante contro la singola donna che prima ti amava e ora non ti ama più. Se prima le donne sostenevano gli uomini nella loro virilità, ora si sottraggono. Se il patriarcato ha regolato l’aggressività maschile con un dominio sessista, finito il patriarcato emerge l’aggressività dei singoli.

 

Di fronte a questa situazione, mi sembra di poter osservare che la reazione degli uomini nei confronti delle donne sia duplice e contraddittoria:

 

 

 

Manca però l’interrogarsi degli uomini su loro stessi in relazione alla differenza femminile.

 

Ecco, in questo contesto in cui si fanno sentire le conseguenze della fine del patriarcato e dell’affermazione della libertà femminile,  sento la necessità di re-interrogare la questione della libera relazione d’amore donne-uomini, come relazione simbolica fondante la possibilità di una convivenza umana, più libera sia per le donne che per gli uomini.

 

Devo subito chiarire che nel tentare di affrontare questa questione, mi riferisco ad una relazione fondata sul desiderio, (una delle questioni fondamentali toccata anche negli interventi precedenti) sulla forza di attrazione, e non mi riferisco necessariamente alla relazione di coppia (che come ben si sa, non sempre una relazione di coppia s’identifica con una relazione d’amore); credo infatti che la relazione di coppia richiederebbe un’altra trattazione a parte poiché in questo caso si tratta di fare i conti con le forme sociali dell’amore (anche se comunque all’interno della relazione di coppia va guadagnata la libertà dell’amore e, come dice Chiara Zamboni, lo sguardo sociale è comunque imprescindibile).

 

Riflettendo sulla libera relazione d’amore fondata sul desiderio, una prima considerazione che mi viene da fare è che la relazione donna-uomo non è indispensabile, ma essenziale.

 

Non è indispensabile: in quanto la differenza uomo-donna è incommensurabile, asimmetrica, questa relazione muove come senso libero; non ne va, in questa relazione, del senso del mio esistere, il mio esistere non dipende da un uomo; non ne va del mio essere al mondo e fare mondo; non ne va della mia libertà (e forse è proprio questa la più grande conquista delle donne e ciò che gli uomini non riescono a pensare prima ancora che accettare). Il bisogno di senso non viene colmato dall’altro, ma dalla “relazione prima” (come l’ha chiamata Federica Giardini la volta scorsa).

Mi sembra di poter dire che la libera relazione d’amore non è fondata sul bisogno dell’altro, altrimenti non sarebbe libera (in questo senso non mi è costitutiva).

 

Ma essenziale: il mio essere differenza rende imprescindibile la relazione con l’uomo in quanto questa relazione è significata dal necessario, da ciò che è, e ciò che è, è che su questa terra l’umanità è fatta di uomini e donne che si significano mediante l’azione e la parola: la differenza è un segno vuoto che si riempie di contenuti in situazione, è un veicolo di significati che si fanno di volta in volta; siamo donne e uomini, per questo quella relazione è essenziale e necessaria; sappiamo di dover stare a ciò che è; e riconosciamo che c’è qualcosa nell’altro/a che mi attira (anche il semplice fatto che siamo qui a parlarne); l’essenziale è dunque l’eccedenza che esprime la trascendenza.

 

Dunque, la relazione donna-uomo non è indispensabile perché non ne va del senso del mio esistere, ma è essenziale perché ne va del mio essere differenza, ne va dello stare a questo mondo, a ciò che è l’essere; è una relazione incommensurabile, e dunque in essa è guadagnabile sempre di nuovo libertà.

 

Finora, forse, per gli uomini è stato il contrario: le donne sono state/sono indispensabili agli uomini per i loro bisogni, di vario tipo, ne va della loro esistenza (che ne è degli uomini e del loro mondo senza l’opera di cura delle donne, e qui mettiamoci tutto quello che vogliamo?) e in questo senso penso possa essere letta anche la confusione tra ruolo materno e la figura di compagna che ancora domina certi/molti rapporti di coppia (quante donne vivono il loro uomo come un figlio da accudire?); ma gli uomini, la loro essenza, la loro diversità, l’hanno giocata/la giocano con gli altri uomini, nelle relazioni sociali, nella competizione, nella politica, in tutte le espressioni più nobili della cultura (arte, scienza ecc.), non ultimo nella guerra.

 

A questo punto però bisognerebbe chiedere a loro.

 

Tornando a noi, penso che proprio in questo scarto di rapporto “non indispensabile ma essenziale” si giochi la libera relazione d’amore (che, ovviamente, non ha niente a che fare con il libero amore): intendo amore come apertura infinita, insita proprio nella discrepanza di non indispensabile/essenziale.

 

Per restare in questa direzione vorrei prima sgombrare il campo da due tentazioni che trovo abbastanza frequenti nell’immaginario, nella ideologizzazione e nella pratica delle relazioni amorose:

 

– da una parte, una concezione fusionale dell’amore, l’amore come unione, come completezza, come ricerca dell’altra metà che ha sedotto/seduce spesso soprattutto le donne e che rimanda piuttosto ad un bisogno che è legato al rapporto con la madre;

– dall’altra, ripensare la libera relazione d’amore uomo/donna mi ha portata a mettere in discussione il concetto e la pratica della seduzione, sia agita che subita, su cui, secondo me, si è costruito l’immaginario amoroso maschile a cui molte donne si sono conformate per poter o essere considerate o affermarsi: il concetto di seduzione, o meglio un certo aspetto della seduzione, ha in sé il senso del ‘condurre’, ‘portare a sé’ l’altro/a, toglierlo/a dalla sua alterità, con ciò sottraendolo/a alla dimensione della libertà; ciò non significa togliere o negare l’aspetto intrigante e misterioso di un’attrazione amorosa, ma sottrarla al fine del potere che avverto come funzionale al sistema patriarcale che tende all’uno.

 

Fatta chiarezza su questi aspetti, chiarezza che ritengo fondamentale nella prospettiva della libertà dell’amore, di una libera relazione d’amore, vorrei tentare una sorta di fenomenologia della relazione d’amore come “stare nell’apertura”, per quanto mi è possibile, una descrizione a partire dall’esperienza concreta attraverso parole-chiave, parole – “simbolo” per trovare lì tracce che possano orientare:

 

Che cosa può accadere se lì ci sto nella fedeltà a me stessa guadagnata con il senso libero della differenza, nella fedeltà al mio desiderio, fedeltà che, come dice Muraro ne Le amiche di Dio, è “un passaggio proprio qui, dove e come siamo, dove e come non sapevamo essere e stare” (p.236) ?

 

 

Desiderio:

(su questa parola centrale in realtà mi sono soffermata in seguito ai temi delle ultime relazioni)

 

Lì ci sto per via di una forza di attrazione che non mi viene dal riconoscimento, da conferme di me da parte dell’altro, ma che è in atto quando sento, avverto, nell’altro qualcosa del suo proprio maschile che non è risolto nel patriarcale e che quindi sento che viene vissuto, dall’altro, o quanto meno a me sembra così, come inquietudine, conflitto, sofferenza e questo io la sento come fedeltà dell’altro a se stesso (la fedeltà a me stessa è il mio irrinunciabile: può essere forse questo il punto d’incontro dell’incommensurabile?).  Ecco, mi attira dell’altro la fedeltà a se stesso e mi attira perché ha una ricaduta su di me per una sorta di circolarità che la relazione con l’altro produce: da una parte, quando mi pongo in senso libero, il rapporto con me favorisce nell’altro una sorta di smascheramento che avvicina l’altro a se stesso (c’è un riconoscimento quando l’altro sa che nel rapporto con me si avvicina di più a se stesso); dall’altra a me accade qualcosa per via dell’altro e questo mi pone in ascolto dell’umanità che io stessa sono (cfr. quanto ha detto nella sua relazione Oriella Savoldi). (Ovviamente tutto questo non è proprio così pacifico e lineare)

 

 

Stupore:

 

Stare in quest’apertura può generare uno sguardo nuovo, genera la capacità di guardare e vedere “altro”, senza perdere la propria centralità; può succedere lo stupore di “vedere”/percepire/sentire da quale prospettiva vede l’altro; e mi succede la capacità di entrare e di uscire dalla mia libertà e dalla prospettiva dell’altro: l’altro appare un fatto non commensurabile a me e di qui lo stupore di fronte a qualcosa, un modo di sentire, di percepirsi e percepire, di rapportarsi con se stessi, con l’altra, con il mondo che non corrisponde a ciò che io do per scontato. Lo stupore mi accade quando mi sento meno arroccata ai miei stessi pregiudizi, alle mie categorie, anche ai miei valori, ai miei punti di riferimento; in questo modo la realtà dell’altro mi mostra un’altra parte di mondo, un’altra realtà che colgo non sentimentalmente, per immedesimazione, ma proprio come differenza, cioè come alterità.

 

 

Alterità:

 

Questa “apertura” ha provocato dunque in me sentire l’alterità, cioè ha provocato un sentire che mi ha resa cosciente di me nella distanza incolmabile con l’altro; a sua volta, l’attività della coscienza è un’attività di libertà che  porta anche a rendersi conto del proprio sentire; in questa attività di libertà l’alterità dell’altro mi si dà dunque in un sentire cosciente e in una coscienza senziente.

 

 

Empatia

 

Questa situazione richiama, per un certo verso, la relazione empatica e per affrontarla faccio riferimento al testo di Laura Boella e Annarosa Buttarelli, Per amore di altro, dove vengono ripresi gli studi di Edith Stein  sull’empatia.

 

“La parola chiave nella descrizione dell’atto di empatia è “rendersi conto” …è l’osservare, l’accorgersi di qualcosa che ‘affiorando d’un colpo davanti a me, mi si contrappone come oggetto  (come le sofferenze che leggo sul viso dell’altro)’” (p. 67)

 

“L’empatia è un paradosso: faccio esperienza interiore di un’esperienza che non è la mia, vivo un sentimento che non è il mio. Che cos’è l’empatia se non si traduce nel provare lo stesso dolore, la stessa gioia? … Empatia vuol dire allargare la propria esperienza, renderla capace di accogliere il dolore, la gioia altrui mantenendo la distinzione tra me l’altro, l’altra. Empatia è rendersi conto, cogliere la realtà del dolore, della gioia di altri, non soffrire o gioire in prima persona o immedesimarsi. (pp. 69-70)

 

“L’empatia attesta la possibilità della circolazione o comunicazione dell’esperienza, non perché due soggetti diventino uno, si confondano…, ma perché è possibile riferirsi a qualcosa che non siamo noi, ma non è una cosa, è la realtà vissuta di un altro essere umano … Io “so” del dolore dell’altro/a. … Io incontro il dolore direttamente nel luogo in cui è al suo posto presso l’altro/a … Empatia allora è amore per: la sua struttura è il viversi in relazione a qualcosa che non è mera esteriorità, ma esce dal controllo e dall’iniziativa dell’io … (pp.70 –71)

 

Mi sembra di poter dire che nella relazione empatica, che è qualcosa che “accade” e non è frutto di volontà, si è nella disposizione di mettere in gioco tutto di sé e questa sorta di attraversamento di me e dell’altro produce un salto interiore, un salto attraverso il quale colgo “altro”, altro mondo, altra realtà.

 

A questo punto però mi rimane aperto un interrogativo: se l’empatia è la situazione di relazione costituita dal sentire il sentire dell’altro, non è forse cancellata l’incommensurabilità?

Sempre in quel testo è scritto:

“’Sentire dall’interno’ e ‘sentire all’unisono’ rappresentano dunque una forma di esperienza che supera la distanza e l’alterità di soggetto e oggetto …” (p.61).

 

Sento il dolore dell’altro e questo può costituire un ponte, un passaggio (poros = passaggio?) tra me e l’altro.

L’empatia, però, non può forse essere vissuta in qualsiasi rapporto?

Premesso che, secondo me, un rapporto d’amore non può prescindere da una dimensione di empatia, che ne è però in specifico del rapporto di alterità donna-uomo in quanto tale nell’empatia?

 

Lascio aperta la domanda, ma provo a riprendere la questione da un’altra parte.

 

Ritornare sulla questione dell’alterità mi rimanda anche ad un altro aspetto del rapporto d’amore: che ne è del patire l’amore, se in quell’apertura infinita metto in gioco tutto di me? Che ne è di quell’aspetto per cui nell’apertura si è anche vulnerabili, prese/i e incomprese/i? E che ne è dell’amore passione?

 

In questo senso, circa il patire l’amore, accenno a due situazioni: paura e fatica.

 

 

Paura:

 

Mettere in gioco tutto nell’apertura fino a sentire l’alterità,  mette a nudo, costringe a fare i conti  anche con tante paure, la paura dell’altro, del diverso, di quanto di ignoto, ma anche di male e minaccioso l’altro mi ha fatto e/o mi può riservare: egoismo, narcisismo, vigliaccheria, e poi, tradimento, menzogna, delusione, aggressività… ; paure che nascono da proiezioni mie, e che sento, avverto,  come qualcosa di minaccioso che mi può ferire; fare i conti con l’alterità richiama al rapporto con lo “straniero” come ha detto Chiara la volta scorsa (per esempio, per quanto mi riguarda sento di aver paura più degli uomini stranieri che  non delle donne straniere); spesso queste paure restano nell’opacità, senza parole, e bloccano così l’apertura.

La paura però può essere anche salvifica quando se ne ha coscienza, mette in guardia da un pericolo, che ovviamente poi si tratta di affrontare; così anche la pratica del separatismo ha avuto, secondo me, oltre alla necessità di una parola autonoma tra donne, anche questa valenza, è nata da una paura salvifica.

La paura non è che l’altra faccia del desiderio.

 

Fatica e senso

 

Inoltre, mettere in gioco tutto nell’apertura porta spesso a situazioni, e in questo caso penso anche ad un rapporto di coppia, appesantite dalle difficoltà materiali, concrete, quotidiane; sappiamo, ed è abbastanza scontato, che la fatica, il peso e la responsabilità della gestione della relazione sono spesso portati dalle donne; ora, mi sembra di poter capire che “la ragione” di questi pesi e fatiche sia una sorta di atrofia di senso, una difficoltà di  linguaggio comune all’interno della coppia, alla mancanza di un senso che circoli; il peso deriva dalla mancata circolazione di linguaggio dovuta, a mio avviso,  al venir meno di quel sentire cosciente e di quella coscienza senziente come condizione per stare all’alterità.

 

Ecco allora che lo stupore che l’apertura, la libera relazione d’amore apre, si muove tra mistero gaudioso (incontro, ricevo il mondo) e mistero doloroso (mancanza di senso, chiusura); ma “l’amore amante, come dice Luisa Muraro, è aspro e difficile” (cfr. Muraro in Approfittare dell’assenza, p. 40).

 

 

Non lasciarsi turbare

 

Di fronte a questo può accadere però di non lasciarsi turbare, di mantenere l’apertura nonostante tutto, perché potrebbe comunque nascondere un tesoro.

E cito in proposito ciò che Gesù dice alla Maddalena nel Vangelo apocrifo secondo Maria: “Benedetta sei tu perché non sei turbata quando mi vedi: perché ove c’è l’intelletto (nous: capacità di visione e di comprensione), quivi è il tesoro”, citato da Eleonora  Graziani in Via Dogana n.62 .

 

Stare in questa apertura e non lasciarsi turbare, può permettere di accedere dunque ad un tesoro che, tradotto nel nostro contesto, significa che “la pratica della relazione, risveglia le potenzialità dell’esistente” (cfr. quanto scrive Lia Cigarini in Via Dogana n.56), potenzialità che derivano dalla capacità di visione e di comprensione, dal “sapere”, che ci viene dal senso libero della differenza,  che l’incommensurabile con tutte le sue incognite, essendo anche la condizione che lega senza appiattire, apre a qualcosa di nuovo; dal sapere che, attraverso e al di là di paure e risentimenti (anche gli uomini sono pieni di paure e di risentimenti verso le donne), nel senso libero della differenza di essere donne e uomini ci si può permettere di volare con il diavolo.

E allora può anche succedere di sorridere o ridere.

 

 

Ridere.

 

Si può ridere quando non si ha nulla da perdere e tutto da provare e si fa appello solo a quell’irrinunciabile di cui parlava Lia Cigarini nel primo intervento e Luisa Muraro in Via Dogana n.58 e..

 

“essere tutto con tutto senza restare attaccata a nessun contenuto, perché i contenuti nascono dallo scambio e sono il frutto della mediazione, di volta in volta. Escluso  … quel minimo non più grande di un chicco di melagrana che ciascuna di noi sente per sé irrinunciabile”

 

… e per me l’irrinunciabile è la fedeltà a  me stessa che si fa nel vincolo con alcune.

 

Il ridere, in questo caso, non è più tanto quello e solo irrisorio, di tipo trasgressivo di chi si tira fuori ed è escluso e di cui ancora nei primi anni ’80, Carla Lonzi scriveva:

 

“Ridere è la trasgressione massima, l’atto rivoluzionario femminile che l’uomo non è pronto a parare.”

 

E all’epoca continuava:

 

“Però, se c’è qualcosa che manca alla donna, è proprio questo tipo di riso. Da dove lo può tirar fuori?” (Armande sono io, p. 27)

 

Oggi però penso sappiamo dove tirarlo fuori, il riso, e sappiamo però ridere anche in un altro senso.

E’ il senso per cui la  risata è un salto di libertà che porta su di un altro terreno. E’ il riso di Diotima, la sacerdotessa di cui parla Platone nel Simposio ripreso e riletto da Irigaray in Etica della differrenza sessuale (ma anche altre, Adriana Cavarero, Maria Zambrano e in particolare Luisa Muraro nell’ultimo libro di Diotima): quando Diotima chiede a Socrate che cosa pensa dell’amore, questi afferma che tutti pensano che l’amore sia un grande Dio, bello e perfetto, al che Diotima ride.

Ride della sicurezza rispetto a verità già stabilite (le regole, le norme, vedi relazione di Oriella Savoldi nella contrattazione sindacale) e questa risata spiazza gli uomini di fronte ad un terreno che non riconoscono, abituati come sono a prendersi troppo sul serio, a riempire, a definire (diversamente si lasciano invece cadere nel cinismo).

Diotima attraverso il mito dell’amore mostra invece la funzione mediatrice di Eros: Eros è stato generato da Penia/Povertà e Poros/espediente, guadagno (Muraro traduce questo invece con “passaggio”); mai compiuto e sempre diveniente, povero e scalzo, ramingo per il mondo, ma anche pieno di risorse, amante della sapienza; e quello che raggiunge sempre gli sfugge.

Attraverso questa figura di Eros/Amore, Diotima, con il suo riso, scrive Irigaray  “disfa senza posa la sicurezza e la chiusura dei termini opposti” (Luce Irigaray, Etica.., p. 23) e orienta verso “la scoperta della mancanza e la capacità di starci (Luisa Muraro, Approfittare…, p. 38).

 

 

Con questa figura mi avvio ora alla conclusione tornando alla libera relazione d’amore.

A questo punto, però mi ritrovo a registrare una difficoltà, che è già stata segnalata anche negli interventi precedenti, che avverto come un dato di realtà e che si pone come problema: cioè l’altro della relazione.

 

Lo segnala Lia Cigarini in Via Dogana 56, quando scrive:

 

“Solo il gesto iniziale di apertura verso l’altro (amore, direbbe Muraro) racchiude quel tanto di forza e di libertà femminile che sono necessarie allo scambio. Il resto deve essere giocato quotidianamente nell’agire politico e affettivo. … (ma) rimangono reali difficoltà da imputarsi alla differenza maschile.” (p. 6).

 

Ecco, ci troviamo insomma a dover fare i conti con una sorta di impotenza, impotenza di fronte alla mancata risposta dell’altro, gli uomini, che spesso non sanno, non possono, non vogliono parlare, ascoltare e rispondere (impotenza già vissuta, descritta, indagata da Carla Lonzi nelle sue conversazioni con il compagno di cui rende conto in maniera significativa nel testo Vai pure del 1980).

 

Pur permanendo quest’ultima difficoltà, questa sorta di impotenza, che banalmente riassumo nella mancanza di un linguaggio comune tra uomini e donne, vorrei ricordare un’immagine di Chiara Zamboni che dice che quando cambio la mia posizione nei confronti del mondo, il mondo stesso cambia; se mi sposto io, il quadro stesso cambia (che è la situazione del salto di libertà).

 

E’ quello che credo abbiamo cercato di fare nel corso di questo seminario, nel quale sono state messe a fuoco alcune questioni significative legate al rapporto di differenza a partire da noi stesse.

 

Sintetizzo velocemente alcune cose che mi sono sembrate centrali lungo il corso di questi incontri, senza pretesa di ordine ed esaustività:

 

La necessità e la possibilità dello scambio è data da una relazione; la relazione è possibile sulla base dell’ascolto (“prenderli sul serio” di Oriella Savoldi) e del desiderio anche se diversamente inteso (Ida Dominijanni e Federica Giardini); ma il desiderio viene vissuto anche come paura e deve fare i conti con l’irrinuciabile (Lia Cigarini) che è in ognuno (per gli uomini forse questo irrinunciabile è proprio l’universale (Alberto Leiss): come la mettiamo con tutto questo?

 

A questo proposito vorrei raccogliere l’ultimo intervento della volta scorsa, quello di Natalia,  che diceva che a livello di sperimentazione c’è forse di più di quello che ci stiamo dicendo; abbiamo indagato molto sul pubblico, sul politico, ma c’è ancora molto da dire su ciò che facciamo nelle relazioni effettive con gli uomini, i mariti, i figli, gli studenti, ecc.

Ecco questa mi sembra una buona indicazione di rilancio (Ida Dominijanni diceva che abbiamo perso di vista gli uomini in questi anni; si tratta forse di ri-guardar-ci nel rapporto con loro).

 

La pratica delle relazioni e il guadagno del senso libero del nostro esistere ci permettono, penso,  da una parte di stare nell’impotenza di fronte all’altro come di fronte ad un’apertura infinita, con libertà e desiderio, e dall’altra di riconoscere, dire, ciò che c’è nelle relazioni effettive; ma in questa impotenza (che è anche in-potenza) che sa dirsi  oserei dire che  ne va del farsi di Dio (che non è più un Dio potente), se Dio può essere sempre inteso come realtà infinita, come apertura infinita, cioè appunto come amore.

 

Venerdì 28 novembre 2002    –    

 

 

Seminario Diotima: Donne e uomini: anno zero

 

 

 

Relazione:  La libertà dell’amore

 

Maddalena Spagnolli

 

 

Citazioni (sono riportate quelle più lunghe):

 

 

  1. H. Arendt: (da La crisi dell’istruzione, in Tra passato e futuro pag. 190)

 

il fatto che un profano “si prenda a cuore  una situazione critica con cui egli non ha alcuna legame, dipende dal prodursi della crisi che fa cadere le facciate e cancella i pregiudizi ; la crisi gli fornisce l’occasione di esplorare e investigare il nocciolo della materia, finalmente messo a nudo qualunque esso sia.”

 

 

  1. Irigaray: (da Etica della differenza sessuale, Feltrinelli, pag. 11)

 

   “La differenza sessuale rappresenta uno dei problemi o il problema che la nostra epoca ha da pensare. Ogni epoca ha una cosa da pensare. Una soltanto. La differenza sessuale, probabilmente, è quella del nostro tempo. La cosa del nostro tempo che, pensata, ci darebbe la salvezza?”

 

 

  1. Diotima: (Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, la Tartaruga, 1987, pag 33)

 

“Il problema di fondo della differenza sessuale: come può significarsi l’essere femminile, come può uscire dalla sua intimità senza parole, in un ordine insieme sociale e simbolico che definisce il soggetto di sesso femminile per opposizione e somiglianze con il soggetto maschile?”

 

 

  1. Sottosopra rosso (1996)

 

“Forse, per i rapporti di dominio, vale quello che vale per l’amore, che bisogno essere in due? Adesso lei non ci sta  più, non è più la stessa: è cambiata come si dice. Ma non si tratta di un cambiamento qualsiasi. … E’ un cambiamento la cui profondità domanderà tempo per essere misurata e forse ci farà paura. “La donna non ha di che ridere quando crolla l’ordine simbolico“ scrisse la filosofa Kristeva nel 1974, consapevole che i crolli – pensiamo al muro di Berlino spesso fanno nascere più problemi di quelli che risolvono. Noi abbiamo voglia di ridere lo stesso, ma ci domandiamo: e adesso? Che cosa capiterà al mondo e a noi stesse adesso che le vite femminili e i rapporti con gli uomini non sono più o saranno sempre meno regolati dal simbolico patriarcale?”

 

  1. L. Boella: (L. Boella, A: Buttarelli, Per amore di altro, Cortina, 2000)

 

“La parola chiave nella descrizione dell’atto di empatia è “rendersi conto” …è l’osservare, l’accorgersi di qualcosa che ‘affiorando d’un colpi davanti a me, mi si contrappone come oggetto  (come le sofferenze che leggo sul viso dell’altro)’” pag. 67

“’Sentire dall’interno’ e ‘sentire all’unisono’ rappresentano dunque una forma di esperienza che supera la distanza e l’alterità di soggetto e oggetto …” pag. 61

“L’empatia è un paradosso : faccio esperienza interiore di un’esperienza che non è la mia, vivo un sentimento che non è il mio. Che cos’è l’empatia se non si traduce nel provare lo stesso dolore, la stessa gioia? … Empatia vuol dire allargare la propria esperienza, renderla capace di accogliere il dolore, la gioia altrui mantenendo la distinzione tra me l’altro , l’altra. Empatia è rendersi conto, cogliere la realtà del dolore, della gioia di altri, non soffrire o gioire in prima persona o immedesimarsi. …..(pag. 69-70)

“L’empatia attesta la possibilità della circolazione o comunicazione dell’esperienza, non perché due soggetti diventino uno, si confondano …, ma perché è possibile riferirsi a qualcosa che non siamo noi, ma non è una cosa, è la realtà vissuta di un altro essere umano … Io “so” del dolore dell’altro/a. … Io incontro il dolore direttamente nel luogo in cui è al suo posto presso l’altro/a … Empatia allora è amore per: la sua struttura è il viversi in relazione a qualcosa che non è mera esteriorità, ma esce dal controllo e dall’iniziativa dell’io e si distingue dalla sua capacità di oggettivazione … (pag.70 –71)

 

  1. E. Graziani in Via Dogana n° 62

 

“Benedetta sei tu perché non sei turbata quando mi vedi: Perché ove c’è l’intelletto (nous: capacità di visione e di comprensione), quivi è il tesoro” (Gesù alla Maddalena nel vangelo apocrifo secondo Maria citato da Eleonora  Graziani)

 

  1. L. Muraro in Via Dogana n° 58

 

“essere tutto con tutto senza restare attaccata a nessun contenuto, perché i contenuti nascono dallo scambio e sono il frutto della mediazione, di volta in volta. Escluso  … quel minimo non più grande di un chicco di melagrana che ciascuna di noi sente per sé irrinunciabile”);

 

  1. C. Lonzi: (da Armande sono io, Scritti di rivolta femminile, 1992, pag. 27)

 

   “Ridere è la trasgressione massima, l’atto rivoluzionario femminile che l’uomo non è pronto  a parare.” E all’epoca continuava: “Però, se c’è qualcosa che manca alla donna, è proprio questo tipo di riso. Da dove lo può tirar fuori?”

 

  1. Cigarini in Via Dogana  n° 56

 

“Solo il gesto iniziale di apertura verso l’altro (amore, direbbe Muraro) racchiude quel tanto di forza e di libertà femminile che sono necessarie allo scambio. Il resto deve essere giocato quotidianamente nell’agire politico e affettivo. … (ma) rimangono reali difficoltà da imputarsi alla differenza maschile.”

 

Altri testi utilizzati :

–    L. Muraro, Le amiche di Dio, M. D’Auria, 2001

 

SEMINARIO DIOTIMA

 

VENERDI’ 29 NOVEMBRE

 

La libertà dell’amore

 

 

Testi utilizzati: