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per amore del mondo Numero 8 - 2009

Il Punto di Leva

Lettere da donne del presidio NoDalMolin

Ho rivolto le domanda ”qual è il punto di leva?”  e “quale è stato a metterti in movimento?” a donne che sono state e sono protagoniste del movimento NoDalMolin, una straordinaria esperienza politica che è nata a Vicenza dopo la decisione di costruire una base militare USA nell’area dell’aeroporto Dal Molin. Le risposte sono arrivate informa di lettere, rivolte a me o a Antonella che ha girato le domande al gruppo. E’ passato parecchio tempo, me ne scuso, e le lettere rispecchiano la situazione di alcuni mesi fa.

Per avere informazioni sul movimento e sul gruppo donne il loro sito è  www.nodalmolin.it

 

 

Antonella

 

Cara Diana,

ho atteso a scrivere perché la mia idea iniziale era quella di tracciare un profilo del gruppo delle donne del presidio permanente. Ho chiesto alle mie compagne di scrivere i loro pensieri, ma in questo momento è particolarmente difficile fermarsi a considerare la propria situazione, in un contesto locale e nazionale sempre più avvilente.

Siamo entrate nella fase più critica del nostro percorso, il contesto in cui abbiamo operato fin qui si è rapidamente modificato, i tentativi di bloccare i lavori risultano inefficaci, e questo provoca in alcune, per la prima volta, uno sgomento che si fatica a mettere in parole.

Siamo passate dalla fase in cui impedire la realizzazione del progetto rientrava nel possibile – per quanto improbabile – alla constatazione che la macchina dei lavori si è messa inesorabilmente in moto e procede di giorno in giorno.

Per me, che vedo dalla mia finestra quanto accade all’interno dell’area Dal Molin, non è una sorpresa. Penso che nell’ultimo periodo ci siamo fatti intrappolare da un gioco che potrebbe essere mortale: se continueremo a convogliare le nostre energie nell’inutile sforzo di “fermare i lavori” l’inefficacia del nostro agire ci esaurirà, perderemo ogni credibilità e finiremo per consunzione.

Vedo dalla mia finestra, oltre il fiume, oltre la recinzione la trivella in funzione, i cumuli di terra scura che si intervallano regolari, in prospettiva, disegnando sul terreno di giorno in giorno la geometria della base. Gli aironi sono scomparsi. Camminando lungo l’argine si vedono invece le nutrie, sempre più numerose, non ci sono mai state in questa zona, la loro comparizione è inquietante, come i topi nella peste di Camus.

Verrebbe la voglia di andarsene, ma non si può abbandonare ora, è necessario invece costruire le condizioni per approdare a una nuova fase.

Ciò che rende improrogabile la svolta è la necessità di non disperdere quanto si è conquistato fin qui, le esperienze, le  relazioni, le idee, la capacità di immaginare comunque nuove prospettive, di attendere eventualmente il tempo opportuno per intervenire con altre modalità.

Mentre vedo, in questa domenica mattina, il profilo della trivella lontano come un mostro immobile nella foschia, mi dico che la trasformazione antropologica in atto nella città per compiersi richiede  tempi diversi rispetto a quelli rapidissimi messi in atto dal potere, e che quanto sta imponendo d’autorità non può essere irreversibile. I nostri tempi non si sono combinati efficacemente con i tempi del resto della città, perché il contagio agito da pratiche e pensieri nuovi si propaga lentamente.

La nostra azione politica deve essere finalizzata a costruire e diffondere una cultura alternativa a quella sottesa alla militarizzazione della città.

La base è solo l’aspetto visibile ed enfatizzabile di qualcosa di molto più grande e complesso, su cui è necessario continuare a produrre pensiero, progetti, aggregazioni.

Esiste un’altra città possibile.

Dobbiamo spostare le energie dall’obiettivo specifico – la base – a ciò che la base rappresenta sul piano simbolico, e resistere per far crescere il processo che si è avviato.

Se sapremo modificare la gerarchia delle priorità, proporre nuovi modi di agire intorno ai quali aggregare soggetti differenti, impediremo che quanto si è messo in moto in questi tre anni sprofondi e si perda come una fantastica Atlantide e si allarghi invece nel tempo la comunità che si affermerà in futuro.

Faccio fatica a dire quale sia  la leva mi spinge a proseguire, in alcuni momenti avverto una profonda stanchezza.

Ma abbandonare ora sarebbe come scegliere il silenzio dopo uno stupro, permettere che all’oltraggio segua il trionfo dell’impunità.

In questi tre anni abbiamo vissuto in uno stato di mobilitazione continuo, quasi permanente.

Si sono alternati momenti di entusiasmo per le piccole provvisorie vittorie e scoramento mazzate da togliere il respiro.

Si è resa necessaria una diversa organizzazione del quotidiano, una ridefinizione dei rapporti con le persone. Si sono create e consolidate relazioni, individuate affinità, scoperti aspetti imprevisti e sorprendenti nella varia umanità che circola intorno al presidio; ora voglio bene e apprezzo gente che non avrei mai avvicinato se non fossi uscita dalla cerchia di amici e amiche forse troppo simili a me per interessi, convinzioni, percorsi comuni.

E ho recuperato una dimensione ludica che non avevo mai potuto liberare prima, schiacciata prima dalle  vicende legate alla mia storia di figlia primogenita, sorella maggiore obbligata a dare il buon esempio; poi dalla necessità di prendere, nella mia famiglia d’origine, il posto di mio padre mancato precocemente, quando mia sorella era appena adolescente e mia madre chiusa in un lutto che dura ancora.

E’ per questo forse che amo l’allegria delle donne del presidio, la capacità di ridere di sé e cogliere i tratti paradossali delle situazioni più controverse, l’entusiasmo, il coraggio e anche la paura.

Ma soprattutto mi dà forza il loro il desiderio di continuare, che interviene quando oscilla il mio, per osmosi, anche se le loro priorità sono diverse dalle mie, anche se in loro a volte prevalgono il fare e partecipare viscerale rispetto alla produzione di pensiero.

Rimango perché la politica avviata non è legata a un calcolo delle probabilità di successo e perché non ho trovato altrove la ricchezza relazionale che sento lì.

Rimango per avere cura quanto si è prodotto, per non lasciare che appassisca, per farmi carico con gli altri e le altre delle impossibilità e del fallimento che ci troviamo di fronte oggi, ma anche delle possibilità che esistono e provare a trarne pensiero.

Spero che queste considerazioni poco sistematiche siano utili al tuo lavoro.

Un caro saluto

Antonella – 21 febbraio 2009

 

 

Grazia

 

Provo a riflettere sulla domanda ‘ quale sia la leva di forza a spingermi nel portare avanti un impegno politico ‘ e subito devo precisare di non poter generalizzare, ma di poterlo fare solo sulla mia esperienza attuale.

A causa di un’imposizione imposta dal governo, nazionale e all’inizio anche locale di  costruire una base militare americana praticamente quasi nel mezzo della città, si è organizzato un “movimento” trasversale e non violento per bloccarla. Uno spazio per fare politica nuovo, la novità era proprio l’eterogeneità, dove potevo esserci come donna, cercando di unirmi ad altre interessate non a progetti calati in una dimensione soggettivistica della volontà, o a tecniche rigide, ma a pratiche politiche. Il concetto di pratica come azione simbolica penso sia la leva di forza del pensiero della differenza sessuale, perché il suo fare politico non cerca il potere, ma la relazione. Vedevo nel nascere di questo movimento la possibilità, come donna in relazione con altre di tessere una pratica della relazione capace di rinominare e di trasformare parti della realtà. Era l’unico modo, per me in questo momento, affinché affermazioni di enunciati, o di significati non fossero fine a se stessi, ma grumi di realtà leggibili e agibili. Facendo crescere questa consapevolezza in me, di fronte a quanto succedeva attorno a questa base di guerra, diventatami simbolo ‘della fabbricazione di catastrofi storiche’,  ( Annarosa Buttarelli, Una filosofia innamorata ) non era tanto trovare quali fossero le ragioni a tenermi lì, perchè appunto ‘Della ragione poetica è molto difficile parlare, quasi impossibile’ (Maria Zambrano, Note di un metodo ). Ma almeno un verso emerge e canta di uno spazio dove ‘chiare, fresche et dolci acque’ si allargano in canali, canaletti e laghi. Dove riflessi di diversi verdi sbattono nell’indaco di un’aria piena di ritmo per le voci e i suoni attorno. Dove l’ombra di bellissimi alberi gioca con la luce.  E’ Domenica pomeriggio molte, molte persone si godono tutto questo mentre il Cantastorie racconta, a chi lo vuole ascoltare che gli alberi erano stati piantati ”…da un gruppo di donne, quando una comunità chiamata Nodalmolin…” Uno spazio molto grande, 540.000 metri quadrati, polmone fondamentale per la città che bisogna chiamare “Parco del bene comune”.

Grazia

 

Ersilia

 

Qual è la leva? …

Ultimamente ho qualche difficoltà… Non riesco più a scrivere (e gli scritti che avevo li ho buttati via). Non riesco più a parlare, anzi a tradurre i miei pensieri in parole… Sono come bloccata lì in gola. Spesso mi lascio fraintendere.. in una parola sono confusa.

Mi pare di aver fatto tutto quello che c’era da fare fin ora… E’ servito? Perché esserci ancora? Qual è la leva? Ancora provo a rispondere: per me la leva è il pensiero (anche quello non tradotto), il continuo pensare e riflettere, quasi un tormento… Altrimenti, mi sentirei morta.

E poi: cosa lascio ai miei figli? Cosa gli dico veramente?

Quando non ne posso più (e questo è uno di quei momenti, perché poi una ha anche la vita, il quotidiano, che incombono) vado là davanti alla rete a guardare… quella ferita, perché questo mi ricorda. Qualcosa di violento, gratuito… Poi adesso la storia dei pali (le fondamenta) conficcati nella terra profondamente uno a uno, senza pudore, offensivi e brutali. Troppo scontato? Forse…

Però lì lo sento proprio nella pelle questo senso di vuoto, di abbandono, in cui Vicenza è precipitata.

Guardo quel prato: guardo l’odio del mondo, la tristezza del mondo. Infatti di un’opera bellica si tratta! Guardo quel vuoto: e io?

Io che ho amato, che amo, che ho partorito, che so davvero cosa vuol dire “mettere al mondo il mondo”, come lo esprimo questo amore? Quindi resto qui, ora, domani, dietro a quello che di volta in volta succede. Con voglia e ultimamente anche contro voglia. Col cuore pulsante e la testa pensante. Non sono come mi vogliono. Sono altro, per fortuna, sono io.

Penso le facce delle altre donne, persone sconosciute fino a ieri. Donne immerse come me nella loro quotidianità. Da tempo ormai, come me, uscite allo scoperto, con questo pensiero fisso, con questo tarlo. Ci abbiamo messo le facce, appunto. In questo, forse, sta la “Meraviglia”. Mi “ meraviglio” di qualcosa che “oso” guardare con stupore sincero, con incedere anche incerto e confuso. Ma che forza ci sta dietro!

La mia persona che diventa sempre “politica”. Qualcosa che certamente spesso non controllo e non circoscrivo. Un mare, un “mondo” appunto.

Cara Diana, quel giorno, il 17 Febbraio, eri in bici, a lato. Ti ho incrociato allora per un attimo; hai detto: “Preferisco guardare, non me la sento…” Io dentro, a tutta forza, già nella marea, a cantare come una pazza “no dal molin”. Mi sono detta: “Che cavolo sto facendo?!”

…Magari tu ti sei fatta la stessa domanda… per amore del mondo!

Un abbraccio, Ersilia

 

Anna

 

Cara Antonella,

fermo restando, come avevo a suo tempo detto a Grazia, che avrei preferito che Diana fosse venuta a trovarci e a porci la domanda direttamente (l’avrei sentito meno come compito per casa!), provo a rispondere, se ne sono capace. Devo partire dall’inizio. Il 5 agosto 2006 avevo mio figlio in vacanza con gli scouts e mio marito ed io assaporavamo di nuovo la libertà di movimento che ci dava quella  breve pausa del dovere genitoriale. La sera era prevista una delle prime fiaccolate contro la costruzione della base statunitense al Dal Molin, cosa di cui mio figlio aveva cominciato ad interessarsi e a parlarne con noi. Forse la voglia di condividere i suoi discorsi, di conoscere questo ambiente nuovo che frequentava (e devo dire  mi dava un po’ di ansia, tutta materna), di capire di cosa si trattava esattamente, ha risvegliato in me, dopo anni di silenzio, antichi ideali di gioventù che comunque, anche in sordina, mi hanno sempre seguito nella mia vita. L’anelito alla pace, alla libertà, alla giustizia anche se non mi ha visto militante, mi ha sempre accompagnato nelle mie azioni quotidiane, sia nel lavoro che nella vita privata. Così mi sono trovata a camminare con una fiaccola in mano, quella sera di agosto, lungo il perimetro del Dal Molin. E da lì il coinvolgimento è stato sempre più grande.

La mia consapevolezza è cresciuta in modo direttamente proporzionale al tempo che passava.
Non era più un’idea vaga, seppur nobile, di pace, libertà e giustizia a spingermi avanti in questo percorso, bensì la comprensione del valore dei beni comuni che appartengono a me, ma anche a tutta la mia comunità (e non solo), la comprensione di essere una parte di un tutto e di poter incidere con il mio pensiero e la mia azione su questo “tutto”, la comprensione di  strategie che la politica internazionale pianifica su di noi, la comprensione che il mio innato amore per la vita deve tramutarsi in contenuto della vita, la comprensione di essere parte di una comunità che si incoraggia, si emoziona, litiga, si relaziona, si avventura in una strada di consapevolezza tutta da scoprire, la comprensione di essere una cittadina, la comprensione di far parte dell’umanità. E in tutto ciò, l’incontro e la vicinanza di tante, tantissime donne.

Direi che questo è poi diventato il valore aggiunto di tutta la questione. Si sono tessute relazioni fortissime fra molte di noi donne, in cui la stima, l’amicizia, l’allegria, la paura, il confronto sono pilastri portanti. E questi pilastri non si frantumano nemmeno quando hai un cordone di polizia in tenuta antisommossa davanti, che ti fa temere il peggio! La tua debolezza è rafforzata dalla mano che ti tende la tua vicina, la tua paura mitigata dal canto delle donne, la tua incertezza rassicurata dalla paura di tutte le altre. Sono sempre stata convinta che le relazioni umane sono la vita e la relazione con queste donne è un contenuto importante della mia vita. Questo è uno dei motivi che mi spinge in questo percorso, soprattutto ora.

La mia città non è più sonnolenta. C’è un nutrito numero di persone, (tra cui con fierezza mi ci metto!), che sono diventate cittadini e questo patrimonio non ce lo porterà via più nessuno. Questo anche oltre il Dal Molin. Perciò non è il contesto, seppur difficile e sfavorevole, a poter condizionare ciò che mi spinge in questa strada. Quando sei diventato cittadino, non puoi più tornare indietro.

Anna

 

Stefania

 

Il momento è difficile. Subentra la stanchezza, abbiamo speso tempo e risorse in questa lotta, sacrificando la famiglia, gli amici, e forse arriva anche un po’ di pessimismo, non ancora la rassegnazione.

Sono entrata nel movimento, ed in particolare nel gruppo donne Nodalmolin, con tutto l’entusiasmo e la leggerezza della neofita, non avevo nessuna esperienza di politica, di militanza, e poca anche di femminismo, ed il gruppo donne mi ha accolto con calore, ho trovato delle compagne che mi hanno motivato e sostenuto. Adesso sono molto più consapevole, ho qualche rammarico di non aver mai prima d’ora osato pensare che il mio agire potesse avere anche una valenza “politica”, che potessi sperare di influire nell’ambiente in cui vivo, ma meglio tardi che mai. E’ subentrata però anche la consapevolezza che quel per cui ci adoperiamo, è una cosa inaudita: può un gruppo di cittadini mettersi contro il potere militar-economico della più grande potenza mondiale?

In questi giorni vengo presa dallo scoramento: anche le persone di buona volontà, che si dicono contrarie alla base, sono distolte da altri pensieri: la crisi che avanza, la perdita delle certezze, del lavoro, la fatica di arrivare alla fine del mese… Possiamo ancora sperare che, di fronte alle difficoltà quotidiane, i nostri concittadini siano ancora al nostro fianco, disposti ad adoperarsi contro una cosa che invece, contro ogni logica, va avanti con l’avallo del governo?

La città è stata militarizzata, addirittura si è ipotizzato il reato di associazione per delinquere nei confronti di chi, infrangendo le regole (ma quante ne sono state infrante per imporci questa base di guerra?) si sono fatti carico di cercare di fermare i camion che entrano ed escono dalla zona destinata alla costruzione della base. E francamente, ritrovarmi di fronte centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa, è una cosa che mi ha spaventato.

A volte mi capita di rimpiangere la vita di “prima”, quando mi facevo i fatti miei, ma ora sento che quel che succede attorno a me è un fatto mio, mi/ci riguarda tutti, e non posso più restare testimone inconsapevole ed estranea. E però mi sento fragile, la paura di non reggere mi attanaglia,  ma quando e se la base di guerra dovesse essere costruita, non mi basterà pensare che ci ho provato, devo, contro ogni evidenza, continuare a credere che un cambiamento sia ancora possibile, che i cittadini possano ancora, democraticamente, decidere cosa è meglio per loro e per il loro futuro.

Resisteremo un minuto di più, abbiamo sempre detto, ma i minuti scorrono inesorabili, adesso più che mai. Con l’elezione di Obama si è sperato in una cambiamento, e forse anche chi vuole a tutti i costi questa base, teme che ci possa essere un ripensamento da parte degli USA, e c’è stata un’accelerazione nei lavori, probabilmente anche per portare le cose ad uno stadio dove non sia più possibile tornare indietro.

…Quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare. Ma può una fragile mammoletta (così mi sento in questo momento) vincere la paura, la stanchezza, la sensazione di impotenza e resistere un altro minuto?

Intanto ci provo.

Stefania – 16 febbraio 2009

 

Paola

 

Sono qui perché non accetto l’ingiustizia, la prepotenza, l’inganno, la menzogna, l’arroganza dei miserabili che vogliono imporci questa spregevole e infame base di guerra.

Qui ho trovato persone con cui camminare e costruire con entusiasmo e grande energia un reale progetto di pace.

Paola

 

Nora

 

Tre anni fa si è accesa una fiamma dentro al mio cuore che rimane sempre attiva, qualche volta tende ad affievolirsi, altre riprende forza e mi scalda tanto.  Mi fa ritrovare le energie che avevo ai tempi della giovinezza, ai tempi della resistenza alla dittatura militare nel mio paese d’origine. Certo, sono abituata a lottare, a resistere, a cambiare le regole del gioco quando mi sta stretto.

E a partire dal primo governo Berlusconi, le regole del gioco in Italia hanno cominciato a stringersi attorno ai miei spazi di libertà.  Ho percepito chiaramente i rischi che correvamo con i nuovi venti di destra. Ho goduto per parecchi anni nel mio nuovo paese di quella tradizione culturale che ammiravo da lontano.  Sufficienti per non accettare così la perdita di beni preziosi: la libertà di pensiero, la difesa dei diritti, la laicità, infine del più prezioso di tutti, cioè della democrazia.

Purtroppo oggi posso dire che il mio istinto non sbagliava. I discorsi “dal potere” del signor di Arcore mi facevano rabbrividire, ricordandomi altri che non avrei voluto sentire mai più.  Pensavo e mi chiedevo come mai nessuno si ribellasse con forza, con convincimento a questo giro della politica italiana.  Sono passati anni nei quali continuavo ad interrogare persone, giornali, libri, cercando il motivo della rassegnazione al declino della sinistra.  Non potevo accettare questa morte annunciata.  Quando si cominciò a parlare della nascita del Partito Democratico, ho pensato: abbiamo claudicato definitivamente.

E mi chiedevo anche: dove sono le donne italiane? Cosa hanno fatto dell’eredità delle partigiane? Perché hanno smesso di trasmettere la storia delle italiane alle giovani italiane? Avevo il sentore che fosse più importante scrivere libri e organizzare seminari che incontrare le altre, quelle che avevano ancora molto da imparare. Anche le nuove italiane, come me.

Per fortuna, ironie della sorte, a Vicenza scoppia il caso Dal Molin, ed ecco che mi ritrovo tra donne che vogliono essere informate, ascoltate, consultate, rispettate, che dimostrano consapevolezza, che rinnegano un progetto calato dall’alto che “stupra” la nostra città.  Donne che vengono da esperienze completamente diverse, con passato femminista o no, con percorsi politici o nelle associazioni, o no.  Madri, none, sorelle, figlie, amiche. E con loro inizio questo percorso di resistenza, fatto di lunghe serate passate a confrontarci, a riflettere sul nostro essere sotto quel tendone, a discutere quando le nostre posizione non sono equidistanti dal conflitto, a decidere azioni, manifest-azioni, a ridere, a cantare, a sognare insieme, perché no?

Con alti e bassi, come la fiamma dentro il mio cuore.

 

Nora H Rodriguez