diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 7 - 2008

Lei non sa chi sono io

L’enigma della donna maltrattata

Ho notato che di fronte a episodi di violenza sulle donne da parte del marito o convivente, i mezzi di informazione cominciano a domandarsi perché una donna non denuncia subito l’uomo violento. Per esempio, dando la notizia dell’uccisione di una donna da parte del marito avvenuta nei primi giorni del 2008, un giornalista del Tg3 ipotizzava che la donna non aveva denunciato il marito per amore. Questo interrogarsi e questo tentativo rispettoso di interpretare il comportamento di una donna mi sembrano espressione di un cambiamento del luogo comune che vedeva la donna maltrattata come una persona priva di autostima, succube, incapace ecc. Si dava per scontato che la vittima che non denuncia subito sia in difetto di qualcosa, invece adesso mi pare che ci si renda conto che c’è un mistero, su cui si possono fare ipotesi, sì, ma non riduttive, non immiserenti la dignità della donna maltrattata. Un contributo molto significativo in questo senso c’è nel libro di María Milagros Rivera Garretas, Donne in relazione. La rivoluzione del femminismo (Liguori, Napoli 2007), nel capitolo intitolato “Anch’io sono una donna maltrattata”, dove l’enigma viene sciolto vedendo nel comportamento della donna maltrattata una delle facce di un di più femminile, che non vuol dire considerare una buona cosa il comportamento di una donna che continua a stare con l’uomo che la maltratta. Questo è molto importante, ed è stato possibile perché l’autrice è riuscita a distinguere, in primis dentro di sé, il piano simbolico dal piano dell’etica. Cioè pur disapprovando il comportamento di una donna che non si separa dall’uomo violento, si può intenderlo in chiave di grandezza femminile.

 

Nella vita corrente, è un’evidenza che a noi donne specialmente attrae la relazione per la relazione, […]. Io penso che questa predilezione – una predilezione storica, non predeterminata – abbia a che vedere con una capacità misteriosa che il suo corpo, il corpo di lei, segnala: la capacità di essere due. […] Lì risiede – penso – la sua grande dignità, il suo di più, il di più di lei.

La sua capacità di essere due è la sua grande dignità quando va bene e anche quando va male. Perché il simbolico, la capacità di essere significandosi liberamente viene prima dell’etica: viene prima dell’andare bene o male, del giudicare bene o male. Quando va bene, la donna crea vita, ossia corpi che parlano e relazioni; quando va male sorge l’aborto come problema e sorge anche la violenza. […]

Io non ho lavorato con donne maltrattate; ma conosco parecchie donne, ricche e povere, colte e meno colte, giovani e vecchie, che si espongono persistentemente al rischio di essere maltrattate pur di non rompere un legame, per la fedeltà all’apertura all’altro, all’altro da sé, che il loro corpo segnala (senza determinare niente) […].

[…] A me sembra che questa sia la grande dignità di una donna maltrattata: il suo offrirsi, il suo darsi in offerta, per mantenere viva la memoria dell’importanza del legame, del suo amore per il legame. E farlo in un mondo rimpicciolito dall’individualismo, rimpicciolito da un intendere la libertà come libertà individuale. Noi donne, storicamente, abbiamo inteso spesso la libertà in relazione: una forma di libertà differente e civilizzatrice.

L’offerta di dignità, di memoria dell’essere il legame la radice della civiltà umana, è ciò che non è compreso, ciò che resta fuori, escluso dal discorso che vede la donna maltrattata solo come vittima. La memoria preziosa che lei offre risulta lì, in tale discorso, insignificante e insignificabile. La nauseano con l’autostima, per esempio, quando lei sa che l’amore di sé non vuole separarlo dall’amore dell’altro da sé (pp. 26-28, le sottolineature sono mie).

 

 

Da questi brani del libro Donne in relazione mi pare emerga molto chiaramente il pensiero nuovo di Milagros Rivera sulla questione della violenza domestica, introducendo anche una prospettiva che va oltre la questione. Se “la capacità di essere due”, che senza dubbio è un di più femminile, è all’origine di un comportamento discutibile, vuol dire che nella capacità di essere due risiede anche un aspetto problematico della differenza femminile. Questo di vedere nel di più qualcosa di non necessariamente solo positivo mi pare un punto importante sul piano filosofico, può aprire a uno sguardo nuovo sulla differenza femminile e più in generale sul senso della differenza. Ma qui voglio restare sul tema della violenza e dell’esporsi al maltrattamento.

Ho riportato ampi stralci del testo perché è anche il punto del libro che fa problema nel femminismo. In Spagna, dove Mujeres en relación è stato pubblicato nel 2001, ha suscitato polemiche: non ho potuto leggere nessuna critica, ma da quello che mi è stato accennato c’è una difficoltà a intendere il piano simbolico non come un piano etico e c’è il timore che riconoscere un di più possa autorizzare a non sottrarsi al maltrattamento. In Italia il capitolo è stato finora ignorato, pur capitando in un momento in cui il tema della violenza e del maltrattamento comincia a essere preso sul serio anche dai mass media (come si è potuto constatare in occasione della manifestazione nazionale contro la violenza sulle donne avvenuta a Roma il 24 novembre 2007, quando i giornali hanno per la prima volta dato rilevanza al problema, riportando dati noti da tempo ma poco divulgati). Le recensioni di Donne in relazione – penso a quelle di Luciana Tavernini sulla rivista “Leggere donna” e sul sito “Donne e conoscenza storica” – hanno giustamente messo in luce la straordinaria ricchezza di questo piccolo libro, ma hanno evitato di commentare quel punto, molto politico, e di politica delle donne. Forse per imbarazzo. Non nego che sia inquietante. In effetti è difficile accettare di vedere un di più quando c’è un comportamento che si disapprova e che perfino ripugna o che troviamo deleterio per la civiltà. Soprattutto quando ci riguarda personalmente, quando tocca qualche luogo profondo e delicato del nostro essere. Ci si può ritrarre. A me invece è successo di “lasciarmi dare” (per usare un’espressione di Milagros Rivera). Questo capitolo mi ha aperto la mente e il cuore, e conosco un’altra donna a cui è capitato lo stesso, quando glielo diedi dattiloscritto anni fa in occasione di un’anteprima italiana del film “Ti do i miei occhi” (Te doy mis ojos, di Icíar Bollaín, Spagna 2003).

Spostarsi su un piano simbolico in cui esiste la libertà femminile, per fatti e situazioni dove sembrava inevitabile stare su un piano di miseria, ha un effetto dirompente: è capitato a moltissime donne nei primi anni del femminismo per tanti altri aspetti dell’esperienza femminile. Oggi, dare un senso a quel comportamento mi ha dato la possibilità di mettermi in rapporto politico con le donne maltrattate e ha cambiato il mio modo di sentire me stessa, per quella parte – piccola o grande non importa – di somiglianza che ho avuto e ho con loro. Sicuramente ha fatto cadere in me quel “disprezzo per la vittima” di cui ha parlato Luisa Muraro nell’incontro Stiamo tornando al vittimismo?, il 1° dicembre 2007 al Circolo della Rosa di Milano (la trascrizione del dibattito si trova nel sito www.libreriadelledonne.it). E l’ha fatto cadere riconoscendo che l’essere vittima di una donna maltrattata non è casuale, bensì è legato a scelte sue (come per i martiri o le vittime per motivi politici), e soprattutto non è generico, in quanto tali scelte c’entrano con la fedeltà al suo essere donna, al suo di più femminile.

Non va trascurato che si tratta di scelte di relazione piuttosto complesse. C’è “qualcosa di grande [nel]la donna che sopporta le botte di un marito violento mentre aspetta che le figlie e i figli diventino adulti. Questo qualcosa è la sapienza del fatto che la relazione (perfino) con quest’uomo è ancora necessaria per portare avanti il progetto di vita in cui lei un giorno si è imbarcata” (Donne in relazione, p. 27). Durante la presentazione del libro promossa da Città Felice a Catania il 25 giugno 2007, Milagros Rivera ha parlato di “amore e fedeltà al tessuto di relazioni che un giorno abbiamo stabilito attorno al legame con un uomo, anche quando quest’uomo si ostina a distruggerlo”. È importante tenerlo presente, perché chi non vive quella situazione tende a semplificare, a credere che si tratti semplicemente di lasciare l’uomo e il resto continua come prima. Invece, nelle rare testimonianze che ho potuto leggere o ascoltare di donne che si sono sottratte al maltrattamento solo dopo molti anni – mi ha impressionato in particolare l’intervista raccolta da Mariangela Mianiti, “Io non ho più paura”, Vanity Fair, 12.7.2007 – emerge la consapevolezza dei molteplici aspetti di un legame che non è solo con l’uomo. E aspetti anche molto materiali: ricordo di aver sentito una donna dire che non aveva denunciato prima il marito perché se no lui avrebbe perso il lavoro e non avrebbe più potuto pagare il mutuo della casa e quindi lei e i suoi figli avrebbero perso la casa.

Quanto alla preoccupazione che riconoscere un di più abbia un effetto controproducente rispetto al denunciare e al sottrarsi alla violenza, è vero il contrario, se Marisa Guarneri della Casa delle donne maltrattate di Milano – da lei fondata con altre nel 1986 – ritiene inefficace un rapporto in cui “non c’è pratica di relazione ma c’è solo relazione d’aiuto tra chi pensa di essere un gradino sopra e elargisce un aiuto e chi ne ha bisogno: è facile che la donna venga vista come soggetto debole, come complice” (intervento all’incontro di Milano, citato). È riconoscere un di più che invece permette di aiutare davvero. Scrive Milagros Rivera: “Riconoscendo in primo luogo la dignità dell’amore per il legame, si può poi valutare – penso – in che misura il rischio a cui una donna si espone sia fonte di civiltà. Invece, privandola, spogliandola della sua dignità, della sua dignità anche di donna maltrattata, allora sì che lei sprofonda nella miseria della vittima: restando senza via di ritorno a sé, all’amore di sé aperta all’altro di cui lei si è resa depositaria e che è il grande insegnamento che lei, paradossalmente, offre” (Donne in relazione, p. 29). “Dato che nessuno esce da una situazione difficile amputando un pezzo della sua vita, ma riconoscendo la grandezza del desiderio e dello sforzo che l’hanno portato lì, anche quando perde” (dall’intervento di Catania, citato). Lo ha ricordato con altre parole Luisa Muraro nell’introduzione all’incontro di Milano: “Sono anche tra noi, donne che hanno patito o che patiscono la sopraffazione e la violenza spesso proprio a causa che vogliono bene a qualcuno o hanno voluto bene a qualcuno o hanno cercato di voler bene, cioè per la ragione più nobile che ci possa essere”. E questo fa luce anche su un altro aspetto della questione, accennato da Luisa Muraro alla fine dell’incontro: “Bisogna ricordarsi che chi subisce torture o altre forme di violenza non vuole più strappare da sé questo avvenimento. L’avvenimento fa parte della sua biografia e della sua economia, deve integrarlo, deve essere parte della sua personalità”. Integrarlo è dargli un senso.

La valutazione del rischio può essere il punto su cui far leva per aiutare a uscire dal maltrattamento, una volta riconosciuta la dignità della donna maltrattata. In questa direzione si stanno orientando adesso alla Casa delle donne maltrattate di Milano, come ha riferito Marisa Guarneri all’incontro citato: “Stiamo lavorando – abbiamo anche cambiato il modo di fare i colloqui con le donne – sulla percezione del rischio. Quindi non soltanto accogliere il sentimento, l’emotività, la sofferenza, e fare un progetto insieme per uscirne, ma dare strumenti perché le donne si rendano conto di quando la situazione effettivamente arriva a un momento di rischio”. Sì, probabilmente, “nell’enigma della donna che si rifiuta persistentemente di rompere un legame perfino quando rischia la violenza e la morte” (Donne in relazione, p. 29) c’è anche un problema femminile di percezione del rischio della relazione. (Come probabilmente c’è un problema maschile di percezione del rischio del rapporto con le macchine e gli attrezzi, per gli uomini, i quali troppo spesso sono vittime di incidenti quando li usano.)

Ultima annotazione politica. Mujeres en relación è stato pubblicato in Spagna nel 2001. Quando l’autrice lo scrisse, nel suo paese il tema della violenza contro le donne, e in particolare il maltrattamento domestico, faceva già notizia sui mezzi di informazione ed era già considerato un problema importante per le istituzioni politiche e per gli uomini più sensibili. Da questa realtà infatti si è sviluppata la riflessione di Milagros Rivera (cfr. p. 24). Oggi, che il problema è stato assunto pubblicamente anche in Italia, possiamo giovarci delle elaborazioni guadagnate in Spagna. È già successo con l’appello diffuso nel 2006 da alcuni uomini “La violenza contro le donne ci riguarda”, che nasceva sì da una esigenza sentita da uomini italiani che da tempo si interrogavano su di sé, ma lo stimolo a esporsi pubblicamente veniva da un documento uscito due anni prima firmato da centinaia di uomini spagnoli. Il libro di Milagros Rivera dà un apporto notevole al pensiero femminile sul tema, prendiamolo e discutiamolo. Sarebbe davvero un peccato non usarlo nella lotta contro il maltrattamento delle donne.