diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 10 – 2011

Grande Seminario

L’eclissi del desiderio

Voglio iniziare con un’immagine.

Si tratta di una sequenza che appartiene al film Barbarossa[1] di Akira Kurosawa.

Il film si svolge in un ospedale nel 1800. Un’intera famiglia si suicida con il veleno per topi per disperazione, per fame. I genitori sono morti. Il bambino, ben conosciuto nell’ospedale perché era stato scoperto a rubacchiare di nascosto in cucina e per questo allontanato, a cui le donne avevano dato il soprannome di “Topino”, sta morendo. I medici dichiarano che non c’è più nulla da fare, dichiarano che loro (con la loro scienza) non possono più fare nulla, perciò si appellano alle donne dell’ospedale affinché facciano il loro tentativo. Le donne accettano: si dispongono in gruppo, in cerchio intorno ad un pozzo, rivolte verso il fondo del pozzo e chiamano, chiamano forte e ripetutamente il nome del bambino. Le loro voci invocanti verso il vuoto profondo e nero del pozzo formano l’unisono di una cappa sonora che amplifica un intento di richiamo alla vita e così, e per questo, il bambino vivrà.

È una sequenza di bellezza struggente sul rapporto fra morte e vita, fra desiderio di morte (nel film il suicidio) e desiderio di vita, fra impotenza delle certezze sedimentate e acquisite in un sapere pratico già sistematizzato (i medici che dichiarano di non poter più fare nulla) e potenza di un’intenzione vitale che accetta il rischio di fallire, sorretta unicamente dal desiderio sostenuto da un amore per la vita. Nel film queste posizioni sono incarnate da uomini e da donne che condividono un’esperienza di rapporto con la malattia, con la morte e con la vita.

È un’immagine forte di ciò che tendenzialmente accade in una relazione di cura psicoanalitica di fronte ad un pericolo generato dalla distruttività di un desiderio di morte nel suo impasto e nel suo disimpasto con il desiderio di vita. Da un lato la ricerca di un orientamento facendo leva sulle conoscenze acquisite, essendo anche capaci di non assolutizzarle, di vivere l’esperienza di un’impotenza delle certezze, di cedere il passo. Dall’altro lato, attraverso l’accettazione del limite e del rischio legato al non avere coordinate già date, osare riorientarsi contando unicamente sulla fiducia arrischiata (per certi versi cieca/senza certezze) che, in un contatto con il pericolo mortifero, il desiderio vitale di un amore per la vita possa essere, per così dire, un decisivo sostegno nel correre questo rischio.

Nel lavoro terapeutico la capacità dell’analista di integrare queste funzioni consente il mantenimento di una alleanza profonda con le risorse vitali psichiche del paziente il più delle volte presenti in forma criptata nei suoi sintomi.

Sono i sintomi peraltro che offrono a chi li patisce e a chi li cura le forme possibili di un adattamento, ma insieme di un disadattamento ad un equilibrio dato, e convogliano la domanda di cura e di relazione. Il sintomo infatti non è solo ripetizione, è anche depositario di un disorientamento potenzialmente trasformativo rispetto ad un equilibrio dato. C’è una sofferenza, che per quanto bloccata e distorta nel sintomo, è espressione di un desiderio o della sua nostalgia se il desiderio è eclissato, e questa sofferenza vuole essere rispecchiata, riconosciuta e pensata come esperienza dotata di senso.

Quando è la presenza di sintomi a sostenere una domanda, per quanto i sintomi possano essere imponenti e le relazioni terapeutiche possano essere difficili, è possibile contare su una alleanza di base data dalla presenza di una sofferenza psichica. Il tessersi progressivo di questa alleanza anche inconscia per la vita psichica, sorregge e ri-orienta continuamente nella ricerca di un senso, anche alle prese con il negativo, con la mortificazione e con il rischio di morte psichica.

 

Solitamente è la possibilità di contare su questa alleanza di base che consente di far nascere nel paziente una curiosità per il proprio mondo interno, che fa sì che si attivino i processi del transfert e del controtranfert e che la relazione si trasformi in una creatura nuova di cui aver cura. In questo processo è la posizione psichicamente recettiva dell’analista e la porosità del suo funzionamento come organo di senso psichico, il presupposto della mobilizzazione del processo stesso, sia dal lato dell’analista sia dal lato del paziente.

Le cose possono essere molto diverse e complicarsi notevolmente quando abbiamo a che fare con quelle patologie della contemporaneità che sono contrassegnate da una vera e propria evacuazione della vita psichica e da strutture di funzionamento che possono essere definite perverse.

Sono questi i temi che vorrei provare ad affrontare, anche per il fatto che possono offrire l’occasione per pensare a certi tratti inquietanti del nostro vivere sociale.

Nel nostro tempo ci troviamo immersi in un mondo comune in cui la vita interiore tende ad essere stritolata, estromessa da un continuo affastellamento di stimoli, di eccitamenti psichici, di iper-razionalizzazioni interpretative o svuotata in una sua reificazione spettacolare e trasformata in una macchina di esteriorizzazione di emozioni e di pensieri conformi, adattati: le emozioni e i pensieri che si devono avere per mantenere la conformità.

Ciò che dunque rischia un’eclissi o una scomparsa è la dimensione della vita psichica come spazio psichico intimo e come esperienza, come esperienza interiore e di relazione e con l’altro e con il mondo, come esperienza generatrice di conoscenza e di pensiero su di sé e sul mondo. Slegato dall’esperienza e dalla vita, dal desiderio, anche il pensiero rischia di essere alienato e ridotto ad un esercizio di conformità, di essere ridotto a meri contenuti e perdere la propria qualità di funzione vitale.

Ci sono forme di patologia psichica di questa nostra contemporaneità che forniscono la testimonianza esemplare di una sorta di iperbole di questi fenomeni. Si tratta di patologie che sono come cartine a tornasole di tendenze sociali più ampie. Affronterò dapprima  quelle forme di esistenza psichica che configurano una sorta di ipernormalità devitalizzata (Christopher Bollas le ha definite “personalità normotiche”[2] e Joyce McDougall le chiama “normopatie”[3]). La seconda parte del mio discorso verterà  su quelle strutture psichiche che implicano forme di relazione interne al soggetto e con l’altro da sé che sono caratterizzate dalla de-simbolizzazione e dalla perversione.

Quanto all’attualissima ‘malattia della normalità’, si tratta di persone che all’apparenza sembrano stabili e sane ma che realizzano questo equilibrio attraverso la neutralizzazione e l’evacuazione dell’elemento soggettivo della personalità, l’evacuazione degli stati mentali soggettivi, un equilibrio calibrato sull’aspirazione ad essere un “oggetto-merce nel mondo della produzione umana”[4]. Non sembra che la soggettività, il desiderio e il pensiero rientrino nel lavoro della mente. Anche se sono persone che dispongono di regole e paradigmi per la determinazione di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, queste regole non rispecchiano una traversia soggettiva, ma sono semplici proposizioni, deresponsabilizzate e deresponsabilizzanti, sono come equivalenti di fatti concreti e oggettivi. Il sé è trattato come un oggetto fra gli altri oggetti del mondo materiale, oggetti tutti che vengono trattati come cose, a fini funzionali.

Nella relazione la persona ipernormale non chiede all’altro di essere visto come soggetto, né vede gli altri come soggetti. È come se tutto ciò che è vivo fosse devitalizzato e ridotto a qualcosa che va semplicemente prodotto, constatato, inventariato, in operazioni di eliminazione sistematica della vita dall’esistenza. L’esistenza così devitalizzata diviene qualcosa da padroneggiare con efficienza, come una procedura, e, tutto ciò che a questo si oppone facendo resistenza viene vissuto come intralcio e va evacuato.

Si tratta di una pulsione a non essere, una pulsione a non essere umani, ma piuttosto a controllare l’essere, apparendo perfettamente normali e felicemente adattati; una pulsione che facilita il movimento verso uno stato inorganico ‘senza rappresentazioni’, evocando ciò che Freud[5] diceva della pulsione di morte, da lui connotata come tendenza a “tornare ad uno stato inorganico”.

Adorno dedica un aforisma (36) datato al 1944 nei suoi Minima Moralia[6] a ciò che definisce “La salute mortale” (letteralmente “la salute sino alla morte, sino a morirne”):

 

“L’odierna malattia consiste proprio nella normalità .… il regular guy, la popular girl debbono rimuovere non solo i loro desideri e le loro conoscenze, ma anche tutti i sintomi che, in epoca borghese, seguivano alla rimozione …. lo stato ‘normale’, come la società minorata a cui somiglia, è il prodotto di un intervento per così dire preistorico [rispetto alla soggettivazione] che spezza le forze prima ancora di qualsiasi conflitto; e la successiva assenza di conflitti riflette la predecisione, il trionfo aprioristico dell’istanza collettiva, e non la guarigione tramite la conoscenza …. Eppure il segno della malattia trapela: sembra che la loro pelle sia coperta da un’efflorescenza regolarmente stampigliata, come se cercassero d’imitare l’inorganico… in fondo alla salute dominante non c’è che la morte”.

 

In effetti sembra che il lavoro psichico sia ridotto ad un “lavoro di morte” che libera dalla tensione dell’essere, e anche gli oggetti esterni sostituiscono e liberano dai compiti legati alla consapevolezza di sé e dai compiti legati al pensare la realtà.  Lo scopo di questo lavoro di morte è rendere l’individuo invulnerabile alla sofferenza psichica e perché ciò avvenga, oltre a questo lavoro di evaporazione di qualsiasi conflitto psichico, di de-animazione interna, di dissolvimento della soggettività, di metamorfosi in morto vivente psichico, viene tolto qualsiasi senso al mondo e alla relazione con il mondo, che diviene un mondo di “abbondanza insignificante”[7]. Anche gli oggetti sono devitalizzati, possono sì essere accumulati, ma senza alcun desiderio, senza alcuna passione, restano oggetti meramente concreti, appaiono nella vita e nel mondo di queste persone come un risultato logico, senza nessun tipo di investimento psichico.

Queste persone ipernormali non riescono a significare nel linguaggio i loro stati mentali soggettivi, che non sono simboleggiati. Il linguaggio è come un formulario, fatto di cliché che sono adoperati per barrierare e sterilizzare tutto ciò che potrebbe costituire un’esperienza.

Sono persone che difficilmente si rivolgono a qualcuno con una richiesta di cura. Può accadere un crollo e allora la richiesta può esserci, ma come richiesta di ripristino, di eliminazione di un inceppo, o come qualcosa che è incluso nella ipernormalità stessa: come qualcosa che corrisponde ad una attività ritualizzata, e come tale facilmente accessibile, scollegata dalla soggettività.

Anni fa incontrai un giovane uomo che aveva chiesto una consulenza perché la fidanzata lo aveva lasciato. Questa iniziativa, diceva, l’aveva presa perché “è così che si fa: al giorno d’oggi se capita questo si parla con la psicologa…”. L’impatto su di me di questa richiesta normalizzante per non soffrire si era fatto presente con un’immagine: mi sentivo trattata come una pattumiera. Sciolta una relazione era necessario eliminare ogni possibile residuo, dissipare ogni resto psichico della relazione che si era rotta, e, per far questo, esisteva l’apposita procedura, sostenuta e promossa dalla spettacolarizzazione televisiva della complice funzione normalizzatrice di psicologi e psichiatri televisivi dispensatori di luoghi comuni.

Un altro esempio che posso fare si riferisce ad un genitore che mi aveva cercato perché la figlia adolescente non era abbastanza soddisfatta della sua prima esperienza sessuale, anzi interrogata dai genitori sul ‘fatto’, si era espressa dicendo “tutto qua?”. Secondo questo padre la reazione della figlia tradiva una anormalità, dal momento che, diceva, “si sa che è soddisfacente”. È evidente che il movente che porta questo padre ad interpellarmi non è una preoccupazione significativa di un movimento affettivo verso la figlia, ma è l’incrinatura di una mentalità, incrinatura che è avvertita come una  interferenza fastidiosa e la domanda a me è infondo quella di correggere questa stortura.

Nella relazione con queste persone, se capita che ci siano incrinature sufficienti a farli perseverare in una relazione terapeutica, capita di vivere un vero e proprio disorientamento rispetto alle modalità di base, consuete, di assetto psichico nella posizione di cura. Viene meno infatti la possibilità di contare su quella alleanza di base data dalla presenza di una sofferenza psichica, dalla presenza di uno scarto anche minimo fra sé e sé, di interrogativi depositari di elementi di soggettività, di evidenze di una lotta per la sopravvivenza della vita psichica e/o di una lotta per la sopravvivenza della creatività, della plasticità della vita psichica stessa.

Nella relazione con questi soggetti ipernormali, il disorientamento, oltre ad essere legato all’impossibilità di contare su una alleanza di base, è legato ad un vero e proprio disinnesco del processo analitico da parte di persone che nello stesso tempo, non solo accettano i dispositivi concreti della cura analitica, ma li adottano con diligenza.

Joyce McDougall definisce questi pazienti “anti-analizzandi[8] ed offre una metafora che trovo particolarmente efficace. Paragonando l’anti-analizzando all’anti-materia (la realtà fisica di ciò di cui sono fatti i buchi neri), mette in evidenza che siamo di fronte ad una realtà che non rivela la sua esistenza se non in negativo, dato che una forza massiccia impedisce qualsiasi funzione di collegamento, configurando un “desiderio di non desiderio”, che prende la forma di un preponderante e massiccio desiderio di conformità.

Di conseguenza gli sforzi che l’analista fa, a partire dall’assetto psichico abituale e consueto nella posizione di cura, per attivare o persino provocare il processo analitico attraverso la relazione, mettono in scacco l’analista e l’analisi. L’analista, nella misura in cui si posiziona attraverso la propria recettività, si sente preso dentro il sistema degli oggetti mummificati del suo paziente, paralizzato nella sua attività psichica, nei processi associativi, incapace di far nascere nel paziente un grado minimo di curiosità verso sé stesso.

L’analista è nella situazione di “oggetto escluso”, i suoi tentativi di interpretazione o di restituzione di senso vengono avvertiti e connotati dal paziente come follia dell’analista stesso. Questa situazione relazionale di frustrazione provoca nell’analista un’esperienza di disorientamento (rispetto ai propri assunti di base) che può avere, come esito infausto, un disimpegno e un disinvestimento difensivo rispetto al paziente, una inerzia che riduce la sua presenza (al di sotto di una superficie di parole differenti da quelle del paziente) ad essere sostanzialmente una sorta di ‘eco’ del paziente stesso.

Riflettendo sulla mia esperienza, trovo che mi sia stato di grande aiuto, per poter lottare per non cadere in questo stato alienato di metamorfosi devitalizzata, non rimanere troppo adesa a ciò che potrei definire ‘la mia normalità’, ossia la normalità per me di determinati assunti di base sulla posizione di cura. Lottare per difendere questa mia normalità, per difendere ad oltranza gli assunti di base come fossero depositari di un valore identitario, per difendere le tecniche e i trucchi del mestiere,  si rivela essere una sorta di collusione con il paziente che, su questo piano, il piano della normalità, non può che avere la meglio.

Per usare una metafora potrei dire che le cose possono procedere solo se io sono in grado di fare una specie di capriola rispetto agli assunti di base: si tratta di rovesciare il significato convenzionale del ricorso alla terapia da parte del paziente, ossia di poter inquadrare la richiesta stessa di terapia come fosse un sintomo, l’umico sintomo che il paziente può avere.

Questo rovesciamento implica l’accettazione e la capacità di ‘passare dall’altra parte’ accettando di occupare intenzionalmente, io come terapeuta, il luogo, la funzione di sintomo, facendola parlare.

In queste condizioni proibitive, le pulsioni di vita / la capacità desiderante dell’analista si può manifestare un po’ come si manifesta la funzione disadattata e dissenziente del fool nel Re Lear di Shakespeare, funzione dissenziente rispetto alle pulsioni di morte che muovono e spingono alla rovina i personaggi della tragedia.

È questa funzione dissenziente, disidentificata e resistente, là fuori rispetto al buco nero del paziente, che può divenire, seppur nel vuoto (come nell’immagine del film di Kurosawa), un sentire, un immaginare, un pensare, un parlare l’esistenza di una realtà della vita psichica, testimoniandola. È questa testimonianza senza intenzione e il più possibile sgombra di contenuti di desiderio personali dell’analista che può divenire l’ancoraggio per uno spiazzamento nel paziente, per una breccia che metta in moto la sua curiosità, per l’innesco di processi di lente incorporazioni soggettivanti di vita psichica da parte del paziente stesso.

 

Ora vorrei passare alla seconda parte del mio discorso, quella che riguarda la perversione.

Devo premettere che volendo parlare di perversione si incontra immediatamente una difficoltà data dal fatto che in realtà con questa parola si indicano fenomeni diversi, polimorfi, e per questo il discorso può rischiare facilmente di rimanere generico e cadere nell’ambiguità.

C’è innanzitutto una domanda da porre che può aiutare a sciogliere una possibile iniziale ambiguità: nella perversione siamo alle prese con un desiderio costituitosi in una forma particolare, distorta oppure siamo alle prese con un anti-desiderio, un antipodo del desiderio?

Si può dire che, solitamente, nelle perversioni sessuali il desiderio si è parzialmente costituito, se pur in forme distorte e contorte, mentre, quando la perversione permea e pervade le relazioni umane in generale, siamo alle prese con il negativo del desiderio, l’accentuazione di una posizione fortemente contrassegnata da un unico desiderio, il “desiderio di non desiderio”, che può assumere la forma di una lotta armata.

Volendo concentrarmi sulla perversione delle relazioni umane in generale, nel mio discorso userò questo termine nell’accezione più ampia di anti-desiderio, di antipodo del desiderio.

In che senso può costituirsi un anti-desiderio?

Il desiderio è mobilizzato dalla mancanza, dalla inalienabile discontinuità fra sé e altro da sé, dalla perdita dell’onnipotenza, dal costituirsi della realtà: così lo spazio fra sé e l’altro, fra sé e la realtà può essere percorso. Sono il desiderio e il pensiero che lo percorrono. Desiderio è dunque apertura, trasformazione generata dalla accettazione di una lacuna, di una soluzione di continuità, di una impossibilità, dalla costituzione del limite. Condizione per desiderare è l’accettazione della dimensione insatura dell’essere, dimensione insatura che deve rimanere strutturalmente tale perché desiderio, pensiero, linguaggio, si diano.

È questa accettazione della dimensione insatura e metastabile dell’essere, infatti, il movente per un impasto vitale fra amore di sé e amore dell’altro [fra amore narcisistico e amore oggettuale], fra tutela della stabilità del proprio sé [stabilità narcisistica del sé] e curiosità / apertura verso l’altro e il mondo.

La perversione al contrario è strutturalmente costituita dalla coesistenza in parallelo (quindi contemporaneamente e paradossalmente) di una accettazione parziale della realtà e di una negazione altrettanto parziale della realtà. Questa negazione opera come negazione psichica della mancanza, dell’incompletezza, dell’esistenza di limiti costitutivi, e, di conseguenza, pur essendo parziale, ha una portata dilagante e pervasiva.

Nella perversione il diniego originario, costitutivo, riguarda realtà della morte e la realtà della differenza sessuale. È il limite differenziante a venire negato.

La negazione psichica della realtà della morte implica la negazione del limite connaturato all’esistenza stessa come viventi, limite insito sia nella nascita sia nella morte. Questa negazione comporta la confusione fra animato e inanimato, che ha come esito possibile (fra gli altri) l’elisione della vulnerabilità e della fragilità della vita fisica. Volendo fare un esempio eclatante delle conseguenze possibili di questa confusione fra animato e inanimato posso citare quei fenomeni estremi di violenza in cui il corpo umano aggredito ha perso per gli aggressori la qualità di essere umano e vivente, viene trattato come una cosa.

Quanto alla negazione psichica della realtà della differenza sessuale, essa agisce come negazione strutturale a partire da cui tutte le differenze vitali (sia interne al soggetto, sia nel suo rapporto con l’altro e con il mondo) tendono ad essere negate e i confini a venir valicati. La differenza sessuale, infatti, è costitutiva e strutturante rispetto a tutte le differenze: è una differenza che fa le differenze. La realtà della differenza sessuale è per di più la testimonianza inalienabile dell’incompletezza, nel senso che l’esistenza di sessi diversi implica la non totalità assoluta di ciascuno dei sessi: è per questo che viene negata.

La portata di queste negazioni perverte, ossia implica e produce una distorsione del senso della vita e della morte. Si può dire che la perversione è una visione del mondo che dilaga all’interno del soggetto e pervade le sue relazioni con l’altro e con il mondo. Detto altrimenti: la perversione non ha a che fare con i contenuti, ma con le cornici di senso costitutive e strutturanti e sono queste cornici di senso a venir pervertite, sovvertite, confuse.

La perversione delle relazioni umane implica un attacco distruttivo a quelli che sono gli assunti di base del vivere sociale, alle barriere generazionali (incestualità), alla funzione delle leggi come dimensioni strutturanti una terzietà, alle differenze di posizione, di ruolo, di autorevolezza, alle dimensioni etiche dell’esistenza, alla verità, alla bellezza e alla gioia possibile del vivente, così come alla realtà e alla verità possibile della sua fragilità e della sua  sofferenza.

Di conseguenza, qualsiasi stimolo relazionale, implicando di per sé differenza e smentita dell’assolutezza, può  funzionare come potenziale volano di persecutorietà. La differenza, per lo stesso fatto di esistere può arrivare ad essere percepita come una lesa maestà, equivalente di una aggressione persecutoria.

Si tratta di una distruttività perseguita in nome dell’assolutezza e comporta una soddisfazione che i soggetti perversi realizzano proprio attraverso l’esercizio psichico di ciò che può essere definito “odio dell’amore”[9]. L’amore è odiato perché implica l’accettazione della lacuna come sostanza dell’essere esseri umani. Questo movimento di odio si scatena contro l’amore, sia che si tratti di amore attivo, sia che si tratti di amore passivo, anche se è innanzitutto l’amore passivo ad innescare l’odio.

L’attacco distruttivo perverso all’amore è l’effetto di una ricerca coatta volta alla realizzazione di un trionfo narcisistico maligno, megalomanico, totalitario, cinico, che per realizzarsi ha bisogno di attaccare distruttivamente qualsiasi legame ‘amoroso’ in senso lato, intendendo con questo termine tutto ciò che fa legame all’interno del soggetto e fra soggetto e mondo.

Questa dimensione distruttiva perversa opera attraverso un linguaggio strutturato sulla negazione del senso, sulla negazione dell’esperienza; il senso non è semplicemente occultato, il linguaggio si struttura allo scopo di smentirlo. Gli allestimenti menzogneri, le contraffazioni, le negazioni e le smentite sistematiche funzionano come adescamenti e induzioni disorganizzanti sulla psiche altrui, come attacchi al pensiero dell’esperienza. Attraverso l’esercizio di un pensiero e di un linguaggio che potremmo definire scolleganti, vengono operate sull’altro induzioni psichiche allo scopo di colpirlo, dopo averlo disorientato e disorganizzato .

C’è una storiella che può esemplificare in modo particolarmente efficace tutto questo.

 

Uno scorpione, che non sa nuotare e vuole attraversare un corso d’acqua, chiede ad una rana di portarlo in groppa sull’altra riva. La rana risponde che non lo farà perché non vuole essere punta dallo scorpione. Lo scorpione risponde che non deve preoccuparsi, non la pungerà, perché, se lo facesse, affonderebbe anche lui. La rana, rassicurata da questa argomentazione, si convince. Nel bel mezzo dell’attraversamento lo scorpione colpisce la rana con il suo pungiglione. Alla domanda pronunciata dalla rana morente “perché lo hai fatto?”, lo scorpione risponde “è la mia natura”[10].

 

Se questa è la ‘natura’ delle relazioni perverse, cos’è dunque per questi pazienti l’analista, l’analista come qualsiasi altro?

Evelyne Kestemberg[11] sostiene che l’analista, rappresentante di un qualsiasi altro, è per questi pazienti un feticcio. Feticcio assume qui il significato di un oggetto esterno  e fittizio cercato e voluto come garante dell’integrità assoluta del soggetto, della sua immortalità, della sua immunizzazione dal senso di colpa.

Il feticcio, dovendo garantire al soggetto uno status quo necessario al suo narcisismo mortifero, deve essere contemporaneamente animato e inanimato[12]. Di fatto l’altro come partner di relazione è dis-animato di sé stesso da parte soggetto perverso, è parcellizzato, ridotto ad un orecchio, ad un apparato fonatorio, disumanizzato, manipolato, indotto ad essere schermo, supporto di proiezioni massicce di fantasmi aggressivi violenti contro la vita. Pur essendo sottoposto a pesantissime induzioni, l’altro deve essere nello stesso tempo immobile, immutabile, immobilizzato in una fissità da oggetto silente, astratto, da cui nessuna manifestazione di presenza autonoma è tollerata.

La relazione non implica per il paziente la possibilità di un rispecchiamento nell’altro, l’altro è inchiodato ad essere piuttosto contemporaneamente la duplicazione esterna e la protesi del soggetto, attraverso le quali egli si conferma nella propria illimitatezza megalomanica.

Questo statuto dell’altro come feticcio può estendersi ad un intero gruppo umano a cui il soggetto appartiene e con cui entra in contatto e può caratterizzare il funzionamento di gruppi anche estesi, così come di istituzioni.

Dato che nella relazione terapeutica, ovviamente si trasferiscono e si riproducono le modalità distorte di relazione descritte fin qui, anche la richiesta di cura ne è intrisa. C’è una vera e propria sovversione del senso della richiesta di cura. Semplificando potrei dire che la richiesta di cura dichiarata e riproposta a parole da questi pazienti tende ad occultare il loro atteggiamento complessivo nella cura, atteggiamento che ha come movente un attacco alla cura stessa, un attacco al legame terapeutico, un odio della dimensione amorosa (nel senso lato di cui parlavo prima) implicata nella relazione di cura.

Per cercare di rendere più evidente il tratto peculiare di questo atteggiamento occultamente sovversivo del senso della cura, posso citare un mio sogno che ebbe una funzione davvero illuminante in rapporto ad una relazione terapeutica di questo tipo con una paziente. La rappresentazione inconscia che l’attività onirica offre fa chiarezza, illumina ciò che viene occultato dalla paziente e ciò che rischia di produrre una macchia cieca nella mia rappresentazione cosciente, riluttante davanti ad una presa d’atto dell’effetto devastante della struttura perversa sulla relazione di cura.

Il sogno è questo:

 

In un corridoio d’ospedale, dalla sala operatoria, esce una barella su cui è sdraiata la mia paziente che è appena stata operata, per salvarle la vita. Io sono lì insieme ad un gruppo di medici. Improvvisamente, la paziente che sembrava ancora addormentata fa un balzo sollevandosi dalla barella come una marionetta, lancia contro di me un bisturi, dirigendolo in bocca per colpirmi e farlo sparire.

Dal sogno è evidente che la sembianza di passività e di recettività è solo una sembianza di copertura. La paziente del sogno usa gli strumenti terapeutici, gli strumenti della cura (cura che si propone ed è chiamata a salvare la vita psichica), come arma contro di me come terapeuta, arma che vuole ficcarmi in bocca per farla sparire (dato che tutto ciò che viene fatto ingoiare, potenzialmente sparisce), ma anche per ferire la mia interiorità. Questo attacco inoltre è anche un attacco alla parola come tramite di relazione e di verità, attacco in cui può essere implicata anche una dimensione terroristica di intimidazione: “tutto ciò che dici, verrà rivolto contro di te”.

Penso che possa a questo punto risultare evidente come lavorare con pazienti di questo tipo provochi un vero e proprio malessere, un disorientamento angosciante e pericoloso.

Se viene mantenuto l’assetto abituale della posizione di cura, che è basato sulla presunzione di innocenza del paziente[13] nella sua richiesta di essere curato, ed è impostato all’attivazione di funzioni recettive adatte alla creazione di un’area transizionale, accade inesorabilmente una caduta nella rete perversa, un po’ come succede alla rana della storiella.

Per di più la messa a fuoco da parte del terapeuta degli intenti perversi del paziente può essere impedita da una sorta di transfert invertito: è il terapeuta che, tentando illusoriamente di difendersi dalla contaminazione perversa, può trovarsi a trasferire sul paziente dimensioni vitali, affettive, desideranti che il paziente non ha, allo scopo difensivo di tollerare l’angoscia generata dalla dimensione mortifera e dalla violenza a cui è sottoposto. Il terapeuta si può trovare così in rapporto non al paziente reale, ma ad una illusione, ad una costruzione immaginaria, attraverso la quale può illusoriamente riconfermarsi nelle proprie sicurezze di base. Ma il pericolo è proprio lì, come per la rana della storiella, come per le allodole attratte dagli specchietti.

Più il terapeuta si aggrappa a questa costruzione immaginaria e non vuole vedere il paziente per quello che è, più si troverà impigliato in un rischio megalomanico (dover salvare il paziente ad ogni costo) e nello stesso tempo in una rete di vissuti di impotenza e di colpa, finendo per colludere con il sistema perverso attivato del paziente.

Per il terapeuta è dunque necessario accettare che, alle prese con la perversione, quegli assunti di base a cui è più affezionato e che sono più identificanti della propria appartenenza come terapeuta, possono addirittura rivelarsi controproducenti, e che di conseguenza deve rinunciare ad un assetto di cura che può divenire veicolo di una collusione con il funzionamento del paziente: mi riferisco alla presunzione di innocenza rispetto al paziente, all’amplificazione della recettività inconscia, all’attivazione delle aree transizionali, etc.

L’assetto che meglio può consentire di non essere irretiti nella rete relazionale perversa del paziente è un assetto fortemente dissenziente, e nello stesso tempo non oppositivo e non sfidante, un assetto sanamente diffidente, adatto a testimoniare la realtà e la verità, tramite lo smascheramento dei dispositivi perversi.

La difficoltà nella tenuta di questa posizione dissenziente, dissidente e diffidente è data dalla sua asimmetria fortemente accentuata, dalla solitudine insita nella necessità di rinunciare alla fiducia nella alleanza terapeutica; tenere questa posizione implica infatti una vigilanza e uno sforzo costanti per attivare e consolidare una contro-disposizione rispetto ad attitudini familiari, investite del valore di sicurezze di base nella conduzione e nella direzione della cura. Questa contro-disposizione è il presupposto necessario senza il quale ogni tentativo di cura finisce per rivelarsi vano.

Alle prese con l’occultamento del male, occultamento che costituisce la sostanza del funzionamento perverso, altamente disorientante, si tratta di investire le energie nell’accettazione dell’esistenza del male stesso, nel suo smascheramento e nella sua denuncia come operazioni primarie, necessarie al ripristino di una cornice di senso all’interno della quale realtà e verità possano assumere il valore di quei punti cardinali necessari come presupposti perché possa esistere una direzione della cura.

Abbiamo visto che nel rapporto con l’ipernormalità è possibile che la funzione terapeutica si esplichi attraverso il sostegno della funzione desiderante dell’analista se pur in una dimensione parallela e rovesciata come quella del fool, del matto nel Re Lear di Shakespeare. Perché la cura possa essere tentata, l’analista deve dunque accettare una esposizione nella propria funzione desiderante se pur messa all’impersonale, e ciò mentre quella del paziente è vincolata in eclissi.

In rapporto ai fenomeni della perversione succede l’opposto: perché la cura possa essere tentata, l’analista deve essere capace di accettare di mettere in eclissi la propria funzione desiderante, così come la propria neutralità e la propria capacità di astensione.

In questi casi l’astensione e il silenzio assumerebbero il valore collusivo di una omertà. Perché sia possibile accedere ad una umanizzazione, alla ricostruzione di una storia (compito, questo, fondamentale di ogni processo terapeutico), l’analista deve accettare di costituirsi innanzitutto come limite, deve riuscire a porsi come istanza etica strutturante quei punti cardinali all’interno dei quali sia possibile uno scioglimento delle ambiguità ed una differenziazione fra bene e male al di fuori di un giudizio morale.

Voglio concludere dicendo che interrogarsi su questo campo della perversione delle relazioni umane lascia aperte molte domande e offre davvero pochissime certezze. Anzi ci sono domande che hanno un enorme valore proprio nel loro continuo riproporsi.

In un magnifico film cortometraggio del 1968, Che cosa sono le nuvole, Pierpaolo Pasolini  mette in scena, come spettacolo di marionette, l’Otello, tragedia shakespeariana di una perversione consapevole e calcolata. Pasolini affida ad Otello, che per un attimo si ferma rispetto ai suoi movimenti da burattino nelle mani del perfido Jago (Totò), la domanda fondamentale. Otello la rivolge a sé stesso e al pubblico: “ma perché mai siamo così cattivi?” Nell’immagine finale del film, dopo che le marionette di Otello e di Jago sono ormai deposte fuori scena sopra di un enorme mucchio di spazzatura, solo allora possono guardare il cielo in cui passano veloci bianchissime e grandi nuvole e i loro occhi si riempiono di meraviglia. È lì che deposto dalla sua condizione di marionetta, Jago ritrova un contatto con la bellezza e mentre guarda scorrere le nuvole esclama: “ah, meravigliosa, straziante bellezza del creato!

[1]
Akira Kurosawa, Barbarossa, film del 1965.

[2]
Christopher Bollas (1987), La malattia normotica in L’ombra dell’oggetto, Borla, Roma 2001, pp. 142-163.

[3]        Joyce McDougall (1978), Plaidoyer pour une certaine anormalité, Gallimard, Paris.

[4]        Ch. Bollas, op.cit., p.143.

[5]        Sigmund Freud (1920), Al di là del principio di piacere, Opere Vol. 9, Boringhieri, Torino 1977.

[6]        Theodor W. Adorno (1951), Minima Moralia, Einaudi, Torino 1994, pp. 58-61.

[7]        Ch. Bollas, op.cit., p. 144.

[8]        J. McDougall, op.cit.

[9]        Maurice Hurni, Giovanna Stoll-Simona (1996), L’odio dell’amore. La perversione delle relazioni umane. L’Harmattan Italia, Torino 1998.

[10]      Si tratta di una storiella taoista citata da Orson Welles nel suo film del 1955Mr. Arkadine Rapporto confidenziale.

[11]      Evelyne Kestemberg (2001), La Psychose froide, Puf, Paris. Per la Kestemberg, nelle forme che definisce “psicosi fredde”, l’altro come feticcio è sì esterno, tuttavia è incluso in modo delirante, attraverso catene deneganti, nel sé primitivo del soggetto.

[12]      Il feticcio é l’anti-oggetto transizionale. Anche l’oggetto transizionale è sia animato che inanimato, ma in questo caso il processo è inverso nel senso che l’inanimato viene dotato di anima. Il feticcio, al contrario comporta una de-animazione.

[13]      Piera Aulagnier (1979), I destini del piacere, La Biblioteca, Bari-Roma 2002, p. 97 e seg.