Le parole per scrivere il dolore
[Pubblichiamo la recensione di Giovanna Borrello al libro di Wanda Tommasi apparsa su “Il Paese delle Donne-rivista”: https://www.womenews.net/2021/06/22/le-parole-per-scriverlo-di-wanda-tommasi/]
Nel libro Le Parole per scriverlo. La parola e la ferita[1], Wanda Tommasi continua il suo percorso di elaborazione, iniziato con La scrittura del deserto, sul rapporto tra scrittura e paticità.
Il testo non è uno dei tanti che propongono narrazione e autobiografia come uno strumento per superare il disagio esistenziale e psichico, ma è un testo che affonda la riflessione soprattutto sulla pratica della scrittura che, a partire da sé, alcune donne hanno usato anche in diverse situazioni limite. Irene Némirovsky, sua figlia Élisabeth Gille e Marie Cardinal, ferite da madri negative; Ágota Kristóf dallo sradicamento dell’esilio; Flannery O’Connor affetta da un lupus che le procura una perenne fragilità, trasferita simbolicamente nella claudicanza di alcuni suoi personaggi (Joy e Rufus), e poi Anna Maria Ortese ferita dalla perdita prematura del fratello.
Questo è un libro che parla di esperienze femminili, perché «nasce dalla convinzione che ci sia una grande capacità femminile di accogliere il dolore, di ospitarlo e di elaborarlo», perché le donne, più degli uomini, fondano il loro rapporto con il mondo sul sentire, sul legame inconscio «che ci lega al nostro corpo, agli altri essere umani, agli animali, alle piante, ai venti e alle stagioni». Non per questo però il libro preclude il confronto con il maschile, per cui mi è parso interessante confrontare le modalità diverse con cui i due sessi affrontano sofferenza e dolore.
Il maschile affronta il dolore con la mediazione della cultura, dei significati di cui è stato ed è autore, quindi la parola non esprime direttamente la paticità, ma la paticità viene elaborata già a partire da un substrato culturale dato dal linguaggio costituito. Il femminile, invece, sente i codici e gli schemi della cultura estranei, quindi insufficienti per esprimere le ferite inferte dalla propria sofferenza, quindi la rielabora costruendo nuovi significati e nuove “parole per dirla”. Questa differenza tra maschile e femminile si evince anche nelle manifestazioni più acute della follia. La perdita della ragione comporta nelle donne una disgregazione dell’io e del corpo devastante, i maschi nella follia manifestano invece segnali patologici composti, più mentali che fisici. Noi donne inoltre, come sottolinea l’autrice, abbiamo «una postura di passività grazie alla quale ci disponiamo ad accogliere l’impronta che gli altri e il mondo imprimono su di noi». Queste scrittrici, infatti, dimostrano accettazione del dolore non solo attraverso la scrittura, ma anche prima di procedere alla scrittura stessa. L’accettazione è una caratteristica più femminile che maschile. Anche nel campo del sapere e della conoscenza, le filosofe, da Zambrano a Weil, pongono l’accento sulla “passività”, una passività attiva, creatrice di simbolico. Wanda si confronta con la scrittura letteraria perché la letteratura è l’espressione più prossima a quel «sentire di cui sono più capaci le donne».
Il libro fa parte di una collana che si chiama, Lo scandalo della differenza, a dimostrazione del fatto che il pensiero della differenza sessuale non è un pensiero pacificatore, ma un pensiero che scompagina le maglie dell’omologazione, le reti consolatorie e libera energie femminili nella costruzione del mondo. La differenza sessuale vive aldilà del dualismo bene/male e negativo/positivo, non propone una identità femminile buonista. A tal proposito nel libro di Diotima La magica forza del negativo[2], Luisa Muraro parla dell’opposizione bene/male come di «opposizioni partecipative» e fa due esempi: nel genere grammaticale femminile, il femminile si oppone al maschile, ma il maschile comprende anche il femminile e, accanto a positivo, negativo e neutro, c’è il complesso che contiene positivo e negativo insieme. Infatti, soprattutto il capitolo che riguarda Flannery O’Connor mostra come il bene e il male siano intrecciati. Per Flannery la sua fragilità, la claudicanza che è un accidente del corpo (quindi un male fisico) diventa un bene, una Grazia che le consente di dedicarsi a tempo pieno alla sua passione per la letteratura. La stessa concessione della Grazia non avviene per mani divine ma è mediata dal male, il male personificato dal Diavolo. Nel suo libro, dal titolo molto eloquente Gli storpi entreranno per primi, l’essere storpi, che nel testo Brava gente di Campagna può divenire un varco per la Grazia, diventa qui «il piede zoppo di Rufus, segnale addirittura di una complicità con il demonio», il mostruoso piede equino segno della possessione del diavolo. Nel conflitto tra il razionalista ateo Sheppard e il malefico ma cristiano Rufus, è Rufus che sta più vicino al bene, proprio a lui non è preclusa la possibilità di salvezza. «Flannery non esita, in questo racconto come nelle altre sue opere letterarie, a fare del male uno specchio che può portare al riconoscimento del bene».
Lo scandalo della differenza comporta anche lo sfatare il mito di una relazione materna fondata sull’“amore incondizionato” che è uno stereotipo che può produrre violenza. Non sono poche le donne, che, avvertendo la loro inadeguatezza rispetto ad un modello di perfezione materna, la madre patriarcale sublimata soprattutto dalla cultura maschile, uccidono i figli e tentano il suicidio. Nel primo capitolo, Wanda, attraverso Irene Némirovsky, sua figlia Élisabeth Gille e Marie Cardinal, analizza l’«oscuro materno», argomento non nuovo per l’elaborazione di Diotima. Il rapporto con il materno ritorna nel capitolo dedicato ad Ágota Kristóf che prova uno sradicamento profondo soprattutto perché costretta a separarsi dalla madre, prima con il collegio e poi con l’esilio, e ad abbandonare la lingua materna, ossia l’ungherese. «Scrivere è per lei il modo di rendere conto di un dolore inassumibile», cosa molto lontana dallo spirito della Tragedia greca, ma anche dalla concezione dell’Arte come sublimazione e rimozione dei traumi di freudiana memoria. Per queste scrittrici l’Arte nasce dalla reiterazione e dall’affondo nella sofferenza. Le donne nel dolore spesso toccano il fondo ma risalgono come una palla che più la scagli lontano e più rimbalza. I maschi rimangono ancorati al loro mondo di significati prestabiliti, si aggrappano alla mediazione culturale.
Soprattutto in alcuni personaggi di Flannery O’Connor, come Hulga ad esempio, c’è un movimento di sprofondamento/risalita simile alla Passione di Cristo, ravvisabile anche in un’altra autrice: Lispector, ne La passione secondo GH. Qui l’autrice racconta di GH, abbandonata dal suo compagno che era per lei come la terza gamba, una gamba simbolica e non meno reale della gamba di legno di Hulga strappatale dall’amato bene. GH sprofonda in un’angoscia infernale ma nell’inferno trova una blatta nauseabonda, in lei vede Dio, ne è sedotta e da quel punto zero di disperazione che risale verso la salvezza. Anche Hulga viene costretta a confrontarsi con la sua fragilità, che la protesi artificiale le aveva impedito di rilevare, e vien presa da un’angoscia indicibile che apre una crepa nel suo animo legnoso come l’arto artificiale, una crepa attraverso la quale scende la Grazia. Un percorso analogo alla Passione di Cristo è l’iter di un personaggio della Ortese, Alonso, un uomo/animale «il puma o cane bianco (con cui talvolta viene scambiato), disprezzato e maltrattato viene abbandonato in aride pietraie senz’acqua, “egli” diventa per le ingiurie ingiustamente patite il “piccolo cristo” dell’Arizona, il cucciolo-vittima che riassorbe in sé il divino». (Da sottolineare che l’autrice scrive “egli”, pronome personale e non “esso”). Anche il folletto, detto Stellino, metà bambino e metà animale, personaggio descritto da Ortese nel racconto Il folletto di Genova, muore colpito dalla perdita dell’amore e dall’abbandono, suscitato dal disprezzo e dalla ripugnanza che incuteva il suo aspetto vomitevole, ma risorge come angelo assunto in cielo.
Ortese non arretra di fronte al disgusto della bava, come Lispector non arretra di fronte al liquido vischioso bluastro che fuoriesce dalla bocca della blatta, schiacciata dal piede di GH: entrambe, come nelle fiabe, baciano il mostro guardandolo negli occhi.
La produzione letteraria di queste scrittrici è non solo artistica ma anche politica, perché nell’affrontare le loro ferite con la parola creano simbolico, fanno mondo. E fanno mondo proprio a partire dalla consapevolezza della fragilità dell’esistenza, una fragilità che solo una epidemia globale come il Covid 19 poteva far scoprire a livello di massa.
Anna Maria Ortese è la figura più moderna e attuale del libro, perché ci fa comprendere che ormai l’antropocentrismo della cultura maschile ha fallito e che, se non entriamo in relazione con tutte le creature della natura, anche l’umanità ne uscirà distrutta.
La produzione letteraria della Ortese risuona come un monito per l’umanità che sta a malapena per uscire dalla Pandemia. Solo se accettiamo che ogni vivente di questa terra e la terra stessa siano creature con cui condividere la vita, potremmo sopravvivere in questo mondo. Wanda Tommasi nelle conclusioni auspica che l’umanità, nell’accettazione della propria fragilità e dei propri limiti, smetta di sfruttare e violentare la natura. Ma anche che, come sostiene Flannery O’Connor sulla scia di Sant’Agostino, «ex malo bonum», ossia che da questo male che stiamo ancora patendo possa nascere il bene.
[1] W. Tommasi, Le parole per scriverlo. La parola e la ferita, Mimesis, Milano 2020.
[2] Diotima, La magica forza del negativo, Liguori editore, Napoli 2005.