diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 9 - 2010

Lingua dell'altro

Le linee tematiche della giornata di riflessione sulla lingua dell’altro

Dopo numerosi incontri in un piccolo gruppo di uomini e donne la nostra riflessione era arrivata al punto di aprire a una platea più numerosa. Abbiamo chiamato la lingua dell’altro  l’incontro del 16 maggio 2009 che si è tenuto all’università di Verona: voleva essere una giornata di riflessione sulla lingua che fa fatica a dare spazio nel reale alle diversità che possono avere origine nella differenza di sesso, di provenienza, di generazione, di cultura  o di lingua. Volevamo chiederci se si può arrivare a un linguaggio più aderente alla realtà delle pratiche in corso, andando oltre l’incultura del linguaggio politico corrente.

Avevamo notato che ultimamente le parole usate nello spazio pubblico, ma anche in quello privato, tendono alla ripetizione del pensiero che aveva avuto origine in un contesto politico e culturale ben diverso e per questo motivo non era più sufficientemente intelligente da poter cogliere ciò che si era messo in movimento nelle nostre vite, appunto un incontro fra uomini e donne non più sotto le stelle del patriarcato. Inoltre era venuto a mancare, rispetto alle altre culture, l’egemonia del pensiero coloniale. Oramai siamo coinvolti/e in una vita quotidiana dove la presenza di altre lingue e culture è scontata.

A posteriori, siamo felici di aver invitato a questa giornata di riflessione  perché la maggior parte delle persone intervenute ha percepito il dibattito come ricco e stimolante.

Questo ci incoraggia a vedere il 16 maggio solo come l’apertura di un dibattito che potrebbe proseguire nell’autunno del 2010. In questo primo incontro sono emerse alcune linee tematiche che cerchiamo qui di presentare in modo sintetico. Rimandiamo, per chi volesse, alla consultazione dell’intera trascrizione del dibattito. Abbiamo raccolti gli interventi attorno ad alcune linee tematiche, pur consapevoli che si presterebbero a più direzioni.

 

Andare oltre le parole

 

Intanto si può dire che è emerso con forza negli interventi di molte persone il bisogno di trovare una comunicazione più ampia. Si intendeva con ciò un parlare non solo legato al codice verbale ma comprendente anche il contesto e soprattutto le relazioni in campo. Come dice Chiara Zamboni citando Françoise Doltò: “Tutto è significante”. Intende, per esempio, che la lingua materna  non sta in una dimensione del passato, nostalgica, ma ci fa capire che questa fondamentale esperienza linguistica è da tener viva continuamente in quanto indica uno stare nella lingua dove tutto il mondo è significante e in continua trasformazione. Chiara coglieva nell’invito al convegno una forte sottolineatura dell’inciviltà che stiamo vivendo. Secondo lei, invece, la possibiltà di modificare la lingua sta all’interno della lingua stessa, accettando la lingua di oggi così com’è. Quindi, anche quegli aspetti che definiamo di inciviltà sono significanti. Dicono qualcosa che ci tocca e ci coinvolge.

Elisabeth Lisa Jankowski per ricchezza della lingua non intende per nulla la quantità lessicale o la complessità sintattica, bensì una ricchezza di pensiero e una partecipazione emotiva al discorso.

Oriella Savoldi mette fortemente in risalto il nesso tra linguaggio e relazioni. Dice che quello che parla attraverso il linguaggio è esattamente quello che si sta dando in quel momento nella dinamica dei rapporti. Nella sua vita registra questa consapevolezza sia nelle situazioni personali che in contesti di lavoro anche molto segnati da dinamiche di potere. Porta come esempio illustrativo una discussione pubblica sul problema dell’acqua. Pensa che ci siano possibilità di cambiamento se si dismettono i “ruoli” e ci si muove a partire da quello che ti ha portato lì in situazione, per parlare all’altro rispetto a quello che muove l’altro.

Anche Giacomo Mambriani ha fatto esperienza di  un modo più partecipato di parlare. Solo da adulto. Esprimendosi ora più felicemente rispetto al passato,  si accorge che anche le relazioni si trasformano come conseguenza della trasformazione della lingua. Sottolinea come più maschile che femminile, la persona che, pur emozionalmente partecipe, non riesce ad esprimere la vicinanza a un’altra persona. Gli uomini di una volta avevano perfino abdicato alla parola, si trattava di una sottrazione, anche se talvolta rispettosa e riconoscente, della propria presenza verbale.

Donatella Franchi parla a partire dalla sua lunga esperienza di pratiche artistiche strettamente legate al pensiero delle donne. Sostiene che hanno messo in circolo un linguaggio importantissimo, veicolando una visione della realtà attraverso il linguaggio visivo che sta dentro il quotidiano. Lo considera un linguaggio che aiuta a togliere dalla vita quotidiana la patina dell’abitudine, focalizza quello che spesso non riusciamo più a vedere e in questo modo aiuta a stare nella vita. E’ una forma di comunicazione che la rimanda molto alla lingua materna, nel senso di mescolamento di codici e compresenza di vari elementi come per esempio corpo, voce, e non solo parole.

 

Muoversi verso una trasformazione di sé per uscire dalle gabbie comunicative

La lingua dell’altro non vuol dire che chiediamo all’altro di trasformarsi ma, come emerge da  tutte le voci dell’incontro, vuole essere più una domanda fatta a se stessi. Chi non partecipa a far crescere la “bolla comunicativa”, come l’ha definita Vita Cosentino nella sua introduzione,  avverte un malessere e si sente “parlato”, cioè incluso in un discorso verbale nel quale non si riconosce.

Wanda Tommasi evidenzia che l’altro è anche dentro di noi  e parla per nostro conto nei momenti più impensati. Muove da un inconscio seppellito in un luogo inaccessibile alla razionalità che “pensa e parla”  senza essere stato invitato a parlare. Fomenta magari paure che confinano l’altro in una regione della non-fiducia, se non addirittura della criminalità. Parla dell’idea dello sconosciuto che è in noi.  Prendere coscienza di questo fatto può essere un primo passo per uscire dalle gabbie comunicative in cui spesso ci troviamo. Secondo lei, solo la conoscenza personale può rompere i pregiudizi ed aprire ad un incontro interessato e soprattutto  attraente.

Anche Delfina Lusiardi parla di una trasformazione, ma a partire dalle relazioni familiari. Per lei la madre esprime un divieto ad agire in libertà, ad aprire un conflitto con fratelli e sorelle. In questo interno familiare la libertà interiore è assolutamente minacciosa rispetto a queste relazioni. Si rischia di mettere in questione l’amore che tiene assieme tutti questi legami. Soprattutto dove la madre è stata nella famiglia senza permettersi questa libertà interiore.

Ma le donne di oggi sanno agire una lingua che sta modificando, alle volte anche dissacrando, le parole. Alle volte sanno togliere il velo per portare la parola vicino alla rivelazione.

Cristina Simonelli, teologa che vive con una comunità Rom, non è d’accordo con il gioco libero della comunicazione. Per lei funziona solamente in un contesto condiviso. Ma rispetto ai Rom, secondo lei, un discorso non schematico e non pieno di pregiudizi non passa perché la possibilità dell’agire comunicativo va al di là dell’immediato rapporto -parola a te- parola tra me- parola tra noi – ma ha a che fare con il potere  dei pregiudizi che includono forme ancestrali dell’altro. Lei è pessimista e crede che lo scacco abbia anche a che fare con una violenza strutturale che sbarra la strada.

Diana Sartori della rivista online di Diotima racconta come già fin dall’inizio questa rivista si è concepita come un discorso plurale nel quale tutte le differenze possano trovare espressione, le lingue diverse, i generi differenti e le culture diverse. Ma lei sente il bisogno di incontrarle nella realtà e non solo in etere o sul foglio di carta.

Per Antonietta Lelario della Merlettaia di Foggia la lingua oggi è una risorsa preziosa perché noi stessi, a partire dal nostro parlare, possiamo rimettere in circolazione i  nostri desideri e conquistare attraverso di essi un’idea unitaria della realtà perché la lingua è di tutti.

Le donne hanno imparato a prendere la parola nonostante la timidezza causata dalla rigidità dell’apparato di potere. Come già diceva Oriella “nominare quello che provi produce già degli spostamenti”. Nominando la timidezza si scopre che è anche degli uomini. Noi donne abbiamo scoperto anche per loro che nominare i problemi è un modo per poterli superare.

Veronika Mariaux afferma che nominare l’altro come altro, secondo lei, è già sbagliato perché fa pensare alla controparte che si considera l’uno. Partendo dalla relazione non siamo uno ma veramente né l’uno ne l’altro, non siamo identici neanche a noi stessi. Fa l’esempio della scrittrice Zadie Smith che dice di aver sofferto per il suo essere “molte voci” mentre nota che Barack Obama nei suoi testi dimostra di aver trovato una corrispondenza delle diverse lingue alle quali è stato esposto. La cultura occidentale però continua a considerare la non-identità come minaccia.

Giacomo Mambriani è convinto che la trasformazione del sé è indispensabile in quanto la prima mossa è affrontare l’altro senza più giudicarlo perché ogni giudizio è una separazione.

 

L’incomprensione come risorsa

 

Uno dei temi fondamentali si è rivelato l’incomprensione. Non solo per i tanti  interventi che si sono registrati a riguardo e per l’attuale situazione politica e sociale che scivola sempre di più in questa direzione ma anche per il contributo di Jeanpierre Bel, studente di economia e proveniente dal Camerun, che ha esposto il suo disagio e il suo dolore in un mondo dove i naufraghi di Lampedusa non trovano sufficiente soccorso ed accoglimento. Il suo  intervento ha portato con forza il discorso sulla necessità di vedere anche colui o colei che parla. Ha esordito dicendo “Tu che mi guardi, tu che mi vedi, hai  detto a me che io non ci sono”. Intendendo con ciò che l’Occidente ha lo stesso atteggiamento nei confronti delle altre culture come il  patriarcato lo aveva nei confronti delle donne. Ma l’intervento di Jeanpierre Bel che ha concluso “voi siete seduti sul sangue dei negri” ha provocato una forte emozione nelle/nei partecipanti ma non solo per le parole pronunciate, che erano di difficile comprensione, ma per la sofferenza espresso nei gesti e nel tono di voce.

Soprattutto Natalìa Parmigiani si è sentita chiamata a rispondere perché profondamente turbata dalla messa in scena del dolore e della rabbia. Lei parla di teatralità della comunicazione che va oltre le parole. E’ proprio quando la comunicazione non “va liscia” siamo chiamati a comprendere diversamente. Questo interrompe il meccanismo dell’abituale comunicazione e diventa necessario “sentire  il dolore dell’altro ancora prima di nominarlo e starci con la pelle viva”. Lei, donna, aveva, in passato, avvertito di non essere stata vista, cioè inclusa, nel discorso degli uomini.

 

Difatti, dopo l’intervento di Jeanpierre, nella sala era cambiato qualcosa. Era diventato chiaro che non si poteva fare delle dotte disquisizioni sul linguaggio ma che era necessario partire da un dato di realtà: l’altro era presente e desiderava entrare nel discorso con noi e noi, come dice Diana Sartori ci stiamo accorgendo che il tacito patto che vigeva prima – cioè quando si era convinti di condividere un tacito  accordo sul comune significato delle cose e delle parole tra chi parla la stessa lingua – è saltato e che ora è diventato evidente che il mondo di prima è diventato incomprensibile a noi stessi. Alcune cose non erano vere ma erano state prese come reali. Al contrario, la realtà era più grande, più complessa di quello che si riusciva a vedere. Ciò non vuol dire che siamo intenzionati a cercare un Uno più omnicomprensivo. Le lingue dimostrano che non si farà mai Uno ma sempre un dialogo, possibilmente felice, tra tante diversità. Non si potrà mai costruire un luogo perfetto dove non esisterà incomprensione anche se l’anima umana ha questo desiderio.

Lo scoppio della “bolla comunicativa”, ma soprattutto la compresenza di tante lingue e culture diverse, per Elisabeth Lisa Jankowski è una risorsa dalla quale ripartire, ma con una pretesa molto ridotta: trovare negli incontri reali un terreno parziale dove scambiare alcune cose, non tutto. Molto sarà da lasciare nel non-nominato e dovremmo accettare questa tensione fra il tutto immaginabile e il poco esprimibile. Il tutto resterà sul piano del desiderio, e il parziale da realizzare con intensa partecipazione di tutti i nostri sensi. Ed è così che si generano sia parola, che gesto, che ritmo, che empatia. L’incomprensione è anche segno del sacro, del non tutto nominabile. Il dare parola si dimostra in questo modo sempre come un tentativo, mai esauriente, e  un atto di grande responsabilità per dire quello che è necessario e che  chiede parola in libertà. Non sta nell’ordine della sincerità inutile e dannosa, che distrugge il rapporto di fiducia precedentemente faticosamente guadagnata e blocca un dire non ancora maturo da poter essere espresso.

Sandra Divina registra soprattutto una grande incomprensione. Per lei gli scambi stanno nella logica del dono, come ha imparato da giovane nella comunità di Diotima, ma nel suo ambiente lei non trova risposta a questo livello. Le capita di vedere continuamente cose che non vanno, ma abituata alle mediazioni fra due lingue (Sandra vive in Alto Adige) ora ha capito che esiste un terreno per costruire un nuovo linguaggio che è quello di  scambiarsi storie da raccontare, perché solo in questo modo il significato diventa condivisibile. Lei vive nella necessita di invenzione di un linguaggio a partire da termini che stanno in un antica tradizione.

Wanda Tommasi riprende l’intervento di Jeanpierre Bel ma non vorrebbe farsi colpevolizzare e non vorrebbe assumersi la logica binaria di destra o di sinistra. Per quello che succede, e che sgomenta, vede necessario trovare nuove parole.

Monica Benedetti in risposta a Jeanpierre ammette di avere una grande vergogna rispetto ai fatti di Lampedusa e vede, per uscire dalla non accettazione e dalla incomprensione che genera paura, solo una possibilità: intrecciare le nostre storie come lui ha effettivamente fatto, sposando una donna italiana. Comunque dà ragione a Vita e dice che dobbiamo soprattutto ammettere il negativo e fare un passo indietro.

Diano Sartori sostiene che normalmente occorrono dei metri fini di giudizio e senza la lingua come strumento ci vengono meno i mezzi d’espressione. Perciò siamo costretti di attivare degli altri strumenti. Siamo quindi in una situazione sorgiva, non solo della lingua ma anche delle pratiche di vita. E’ un po’ tutto in gioco.

 

Le pratiche sono più avanti della lingua

 

 

Chiara Zamboni fa un esempio efficace quando dice che le metafore di guerra usate dal movimento pacifista No dal Molin non corrispondono in realtà alla loro politica. Invita tutte e tutti noi a “nutrire la realtà” con le parole adeguate alle pratiche, sapendo che solo con le parole giuste la realtà vera possa apparire.

Trovare le parole giuste per le donne è più facile in uno scambio orale. Quella creatività linguistica, nel caso delle sue studentesse, non si traduce facilmente in oggettivazione, mentre gli studenti tendono a inserire tutte le nozioni in un sistema a se stante. Come afferma Giacomo Mambriani, anche molti uomini nelle pratiche sono andati avanti, per esempio nella cura della  madre o del padre, ma al contrario delle donne, non riescono ancora a parlarne. Stanno nella sottrazione verbale dei sentimenti che non vuol dire che ne sono privi.

Le parole diverse, per Chiara Zamboni e per Giacomo Mambriani, arrivano come dono e grazia ma Chiara sottolinea che occorre anche molto esercizio in modo che la grazia possa verificarsi.

Alessio Miceli racconta un passaggio importante che sta avvenendo nel suo impegno di uomo contro la violenza alle donne. Da anni lavora con Marisa Guarneri della Casa delle donne maltrattate di Milano e da un certo tempo hanno cominciato una nuova pratica: andare in due, un uomo e una donna, a parlare in pubblico. Racconta che accade che, pur parlando delle stesse cose, le assorbono e le restituiscono diversamente e così capita anche a chi ascolta. In queste occasioni sperimentano il linguaggio in accordo con i loro corpi come luogo di differenza e quello che maggiormente interessa loro è rinnovare ogni volta questa esperienza di differenza così foriera di pensiero. A partire da questa nuova pratica propone, in analogia e modificazione di un titolo di Via Dogana, “quello che si pensa in due è pensiero di tutti”.

Anche Jeanpierre Bel afferma che la realtà è più avanti della lingua in quanto le culture africane viste finora con l’occhio coloniale, sono molto forti nella vita in quanto la loro spiritualità e filosofia, le loro capacità di cura dell’anima, la loro arte sono stati abbondantemente utilizzati/rubati/rielaborati dalla cultura occidentale. Gli immigrati africani esprimono la loro civiltà nel paese dove si trovano anche se sono percepiti spesso come poveri analfabeti e bisognosi di aiuto. Non introdurre nelle parole del nostro discorso l’altro distorce la realtà e fa scivolare la lingua in una chiacchiera senza riscontro nella vita quotidiana.

Riccardo Fanciullacci invece mette in guardia dal vedere l’esperienza come un antidoto delle parole false o non adeguate in quanto, come lui afferma, il linguaggio falsificato dei media influenza anche la percezione della realtà. Non avendo più le parole adeguate abbiamo anche un esperienza impoverita. “Il falso viene percepito come vero”. Non si può contrapporre perciò: esperienza vera e linguaggio falso.

Federica Marchesini parla del lavoro delle maestre che in silenzio spostano il discorso. Loro accompagnano le bambine e i bambini di altre culture verso la lingua italiana facendogli fare una esperienza che è simile a quella materna: entrano in una relazione di empatia e aprono i loro sensi su un mondo nuovo e diverso per loro. Nominano in parole italiane una loro nuova esperienza e fanno in modo che l’integrazione si compi.

Elisabeth Lisa Jankowski racconta una pratica che considera un esempio felice. Riguarda una messa in scena dal titolo “Hijab o del confine, voci e sguardi di donne tra il mondo nascosto e il mondo sacro del velo” della regista Letizia Quintavalla.  Mettendo in scena uno spettacolo sul velo con donne straniere ed italiane la regista ha pensato di creare prima delle relazioni profonde fra loro e solo creato un contesto di fiducia le ha fatto parlare a partire dalla propria cultura e lingua. Sentire il dialetto veronese accanto alla lingua del Marocco ha modificato entrambe le lingue e dato soprattutto fiducia in quello che si può dirsi nella diversità.