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Le genealogie femminili

* Questo testo, inedito in italiano, è stato scritto nel settembre 1990 e pubblicato in traduzione inglese di Patricia Cicogna: Female Genealogies, in Burke-Schor-Whitford (ed.), Engaging with Irigaray, Columbia University Press, New York 1994, pp. 317-333.

 

Il pensiero di Luce Irigaray si è sviluppato in un vivo rapporto di scambio con la politica delle donne. Il tema delle genealogie femminili ne è un esempio privilegiato.

Ci sono più modi di accostare questo tema. Possiamo farlo a partire dal nostro rapporto personale con la madre, che spesso è un campo di macerie. La relazione figlia-madre è costantemente presente nell’opera di Irigaray a cominciare da Speculum. De l’autre femme (1974), ancor prima che prenda forma il tema che c’interessa, e a questo tema verrà poi sempre associata. Scrive Irigaray nel 1989: “Un crocevia perduto del nostro divenir donne si trova nel confondersi e nell’annullarsi delle nostre relazioni con la madre e nell’obbligo di sottometterci alle leggi dell’universo degli uomini” (Irigaray 1989, 75)[1].

Possiamo parlare delle genealogie femminili partendo dalla realtà sociale comunemente osservabile, per esempio la scuola. “La scuola – ha detto Irigaray -, il mondo sociale degli uomini, la cultura patriarcale hanno lo stesso ruolo per le fanciulle che l’Ade per Core-Persefone”, ossia, come una potenza infernale che rapisce la figlia alla madre e la violenta. Continua Irigaray: “Le giustificazioni portate per spiegare questo stato di cose sono inesatte. Le tracce della storia della relazione fra Demetra e Core-Persefone ci fanno capire ulteriori cose” (Irigaray 1989, 83)[2].

Sia l’esperienza personale sia la realtà sociale portano i segni di una sofferenza e di un disordine enigmatici, che fanno pensare a una violenza profonda. Questa violenza, ci insegna Luce Irigaray, corrisponde alla distruzione della relazione genealogica tra madre e figlia ad opera del patriarcato.

Per esporre questo problema, una volta io mi sono basata sulla lettera di una donna al giornale, una lettera comunissima che mostra, in filigrana, le origini del patriarcato che si ripetono ai nostri giorni rinnovando nelle donne sofferenza e confusione.

Ecco la lettera:

 

Spett.le direttore, sono nata in una famiglia composta da 4 figli: 2 maschi e 2 femmine; le femmine oggi sono sposate, i maschi no. Mio padre ha sempre avuto grandi favori per i 2 maschi: mance più generose, più libertà di costumi, cibo maggiormente sostanzioso: carne due volte al giorno per i fratelli, per noi formaggio. Queste sue convinzioni che i maschi fossero più in tutto e che dovessero essere avvantaggiati in tutti i modi e in tutti i campi per affrontare meglio la vita, le trasmise anche alla mamma. Quando i fratelli furono adulti, costruì, intestandola direttamente a loro, una casa molto spaziosa e bella nel centro del paese, usando i soldi della sua liquidazione e tutti i suoi risparmi. Quando morì. si arrivò ad una lite tremenda, alla fine della quale ci fu intimato di non mettere mai più piede nella loro casa (ove viveva pure la mamma) e ci fu negato ogni contatto con lei, pena la minaccia di essere citate per violazione di domicilio. In questo clima di tremenda tensione non ho potuto vedere mia madre per quasi nove anni, trascorrere con lei qualche momento, avere dei consigli: tutte cose che si ricordano con tanta tenerezza nei momenti di dispiacere. Neppure a Natale e a Pasqua potevo porgerle gli auguri, pur abitando a cinque minuti dalla sua abitazione!

 

Mi chiedo tristemente: allora è sempre la forza bruta che vince, a dispetto dei legami affettivi madre-figlia? Tutte le leggi sull’uguaglianza dei sessi non sono dunque rispettate e cedono alla violenza? Al più forte? Mi auguro che questa mia tristissima vicenda illumini quei genitori che ancora fanno discriminazione fra i loro figli maschi e femmine, affinché ciò non succeda mai più.

 

Antonietta X

 

Per commentare questa lettera mostrai i punti di contatto e di divario che ha con il mito di Demetra e Core (Muraro 1988, 24-28) ispirandomi a Luce Irigaray sia per il modo di usare i miti, in chiave storica, sia per l’interpretazione del mito di Demetra.

Oltre all’esperienza personale e alla realtà sociale, anche i documenti storici possono offrire una buona introduzione al nostro tema. Porterò come esempio, fra i molti, il processo di condanna di Giovanna d’Arco. Il processo di Giovanna d’Arco può essere riguardato come un rinnovato assalto della trionfante religione del padre alle antiche genealogie femminili, ancora sotterraneamente vive. Dice Giovanna nella prima udienza pubblica: “Tutto quello che so, lo so da mia madre”. È di grande interesse notare, anche per noi oggi, come ella si distacchi dalla madrina che aveva fede nelle fate, si distacchi cioè dalle antiche genealogie femminili, ma non le rinneghi e le riproduca anzi nel contesto della religione ufficiale: tutta la sua vita infatti è governata dalle sante Caterina e Margherita, che la consigliano, la confortano, le danno forza e le parlano a nome di Dio.

La mitologia greco-romana offre un altro approccio, quello preferito da Luce Irigaray, al tema che ci interessa. Altri ancora sono sicuramente possibili, come la letteratura e penso a Ellen Moers, Literary Women. È chiaro che i diversi approcci non si escludono ma, al contrario, possono combinarsi fra loro.

Elencando i diversi approcci, ho voluto dare una prima definizione del concetto di genealogie femminili. Non è una definizione di tipo classico, è evidente. È una definizione contestuale o, più precisamente, indicale (riprendo il termine da Peirce), come quando si punta un indice e si dice: “È questo”. Perché non ho dato una classica definizione? Perché non è possibile. Questo tema si trova infatti sul confine tra dicibilità e indicibilità, come del resto molta parte, non sappiamo quanto grande, dell’esperienza femminile. Quando si tratta, come in questo caso, di portare a dicibilità un reale non codificato, bisogna che il campo semantico si apra come il mar Rosso, per far passare le cose (l’esperienza), e le sole definizioni valide sono quelle basate su segni indicatori.

Luce Irigaray non dà alcuna definizione convenzionale delle genealogie femminili, e ben poche definizioni di questo tipo, in generale.

 

La produzione di Luce Irigaray si ripartisce fra due registri, quello della pura scrittura (cui appartengono Speculum, Amante marine, Passions élémentaires, L’oubli de l’air) e quello della parola orale, conferenze per lo più, tradotta in scrittura. Il tema delle genealogie femminili è presente solo nella produzione del secondo tipo e compare per la prima volta nella conferenza di Montréal del 1980, Le corps à corps aver la mère (Irigaray 1987, 19-33). Si tratta dunque di un tema che appare relativamente tardi e associato alla pratica dell’insegnamento orale, un insegnamento libero, quasi sempre voluto e spesso organizzato da donne per donne.

Queste circostanze sono, secondo me, significative. Mostrano come questo tema si formi e si sviluppi nell’incontro diretto di Luce Irigaray con la politica delle donne. La principale pratica politica di Irigaray è quella del magistero e le genealogie femminili ne sono il frutto per me migliore. Le giudico infatti di fondamentale importanza nella presa di coscienza femminile.

Nella conferenza di Montréal (Il corpo a corpo con la madre) la relazione genealogica fra donne compare dapprima come qualcosa di negato. Questa negazione è rappresentata dalle figure mitologiche della dea Atena e di Elettra nell’Orestea di Eschilo. L’Orestea, ciclo di tre tragedie, narra la storia del re Agamennone che torna in patria dalla guerra di Troia e viene ucciso dalla regina Clitennestra, e poi del loro figlio Oreste che, aiutato dalla sorella Elettra, uccide la madre per vendicare il padre, e viene perseguitato dalle Erinni finché trova scampo a Delfi dove Apollo e Atena lo salvano dalla punizione dei matricidi. Nelle Eumenidi, la terza tragedia, Apollo difende il matricida Oreste con questo argomento:

 

Non è la madre che genera chi è chiamato suo figlio,

ma solo nutrice è del seme gettato in lei.

Genera l’uomo che la feconda: ella, come ospite

a ospite, conserva il germoglio, se un dio non lo soffoca prima.

Ti offro la prova di questo argomento:

padre senza madre è possibile.

Una testimonianza è qui vicina, presente: Atena,

la figlia di Zeus,

che non crebbe nel cavo ombroso di un seno

(vv. 658-666).

 

Nell’Orestea Luce Irigaray legge l’instaurarsi violento della società patriarcale. Pe lei i miti hanno valore storico: “[…] il mito non è una storia al di fuori della Storia, ma la riassume attraverso immagini che riassumono le grandi tendenze di un’epoca” (Irigaray 1989, 76)[3]. Questa tesi è implicitamente critica verso l’interpretazione metastorica del mito di Edipo da parte del freudismo. A Irigaray, più che la critica, interessa guadagnare l’uso positivo dei miti. L’antica mitologia prova l’esistenza di una società ginecocratica prima del patriarcato, sostiene Irigaray rinverdendo la nota teoria di Bachofen. Il modo mitologico di narrare la storia, ella spiega, dipende dal fatto che allora parola e arte non erano separate. C’era allora un altro rapporto con lo spaziotempo. E conclude: “L’espressione mitica della Storia è più vicina alle tradizioni femminili e matrilineari” (Irigaray 1989, 76)[4].

Occorre però tener conto che i miti pervenuti a noi sono una messa in scena già patriarcale, che mira a nascondere più che a mostrare, a istruire più che a raccontare. Irigaray parla di un mascheramento operato dalla cultura patriarcale. A questo proposito, in una recente serie di conferenze tenute nell’Italia meridionale, ella fa una precisazione che suona discutibile: “Questa cultura patriarcale ha cancellato, forse per ignoranza o incoscienza, le tracce di una cultura anteriore o simultanea ad essa” (Irigaray 1989, 76)[5]. L’ipotesi dell’ignoranza o dell’inconsapevolezza si accorda male con quello che la stessa Irigaray aveva detto a Montréal nel 1980, che a fondamento della civiltà presente c’è un matricidio impunito: “Oreste uccide la madre perché lo esige l’impero del Dio Padre e lo esige il suo appropriarsi delle potenze arcaiche della madre terra” (Irigaray 1987, 22)[6]. Se questo è vero in un qualche modo (e per Irigaray i miti sono veri in modo storicamente determinato), l’ignoranza e l’inconsapevolezza del patriarcato mi sembrano finte.

Non si tratta d’incoerenza da parte di Irigaray, ma del movimento del suo pensiero. Su questo punto specifico l’instabilità viene, secondo me, da una contraddizione che si manifesta in un fatto paradossale, e cioè che nella società patriarcale i figli maschi hanno con la madre un rapporto di gran lunga migliore delle figlie. Quando Irigaray attenua la polemica nei confronti del patriarcato, lo fa, secondo me, per il contraccolpo di questa contraddizione.

Nella conferenza di Montréal ella allude all’enigma irrisolto del nostro rapporto con la madre, dicendo: l’uccisione di Clitennestra rende folli sia Oreste sia Elettra, ma Oreste guarisce con l’aiuto di Apollo mentre Elettra resta pazza (Irigaray 1987, 22). Ma più avanti invita le ascoltatrici a “uscire da un mondo di follia che non è il nostro” (28). Più avanti ancora, torna a fare una allusione, sia pure velata, alla nostra follia: noi donne dobbiamo badare a “non riuccidere la madre che è stata immolata all’origine della nostra cultura” (29)[7]. Immolata, s’intende, dal figlio per conto del padre. In ciò noi saremmo coinvolte più come complici o imitatrici dell’uomo che come responsabili dirette.

La contraddizione resta dunque presente ma inesplorata. Ciò si riflette nella forma della conferenza, composta da una prima parte che interessa fondamentalmente gli uomini e ha forma teorica, e una seconda parte, rivolta specialmente alle donne, che ha forma di esortazione: “È urgente che ci rifiutiamo… È necessario anche che noi… Dobbiamo essere attente a un’altra cosa…”[8] e così via fino alla fine. Questa forma del discorso sembra dire che non ci sia niente da capire, niente da spiegare nel nostro rapporto con la madre, ma solo qualcosa da migliorare, e che il problema riguardi quasi esclusivamente gli uomini.

È in questa serie finale di esortazioni, tutte d’innegabile valore morale e politico, che a un certo punto prende forma positiva il concetto di una relazione genealogica tra donne, con queste precise parole: “È necessario anche, se non vogliamo essere complici dell’uccisione della madre, che affermiamo che esiste una genealogia di donne” (Irigaray 1987, 30)[9]. Questa genealogia è duplice. C’è una genealogia basata sulla procreazione, che ci lega alla madre, a sua madre e così via, la maternità operando come la struttura di un continuum femminile che ci congiunge ai primordi della vita. Mettiamolo in parole, dice Irigaray: “Dobbiamo inoltre trovare, ritrovare, inventare le parole, le frasi che dicono il rapporto più arcaico e più attuale con il corpo della madre” (29)[10]. I tre verbi: trovare, ritrovare, inventare, hanno significato diverso e sono messi insieme per un preciso effetto di senso. In Irigaray sono frequenti le costellazioni semantiche di questo tipo, che mirano a un determinato effetto di senso, che qui è d’illuminare il nostro rapporto con una realtà vicinissima e remota.

C’è, d’altra parte, una genealogia basata sulla parola. “Non dimentichiamo nemmeno che abbiamo già una storia, che certe donne, anche se era culturalmente difficile, hanno segnato la storia, e che troppo spesso noi non ne abbiamo conoscenza” (30)[11], dice Irigaray facendo un riferimento non frequente in lei all’opera di altre donne. La prima pratica “genealogica” nel femminismo è consistita proprio nel fare conoscenza delle donne che hanno marcato il nostro passato, sia biografico sia storico. Luce Irigaray suggerisce dunque questa interpretazione per la straordinaria fioritura di ricerche storiche che ha accompagnato il femminismo: come mossa dall’amore della genealogia materna e dalla volontà di restituirle simbolicamente la vita.

La conferenza di Montréal termina con una figura che cerca di esprimere la nuova idea in maniera intuitiva: “Una donna celebrante l’eucarestia con sua madre, spartendo con lei i frutti della terra da lei, da loro due benedetti, potrebbe liberarsi dall’odio o dall’ingratitudine verso la sua genealogia materna” (32)[12]. È una figura che trovo macchinosa ma degna di attenzione. Mostra lo sforzo politico e filosofico di significare qualcosa che la nostra cultura aveva reso impensabile, e la fatica per superare la barriera di questa impensabilità, una barriera costituita anche da “odio” e “ingratitudine” di donne fra loro.

In questa stessa direzione, nel 1986, Luce Irigaray diede un suggerimento ai/alle dirigenti di un partito politico italiano: mettere nei luoghi pubblici delle immagini (foto, pitture, sculture ecc.) rappresentanti madri e figlie insieme (cfr. Irigaray 1987, 212; 1989, 8-10)[13]. Questa preoccupazione per la possibile traduzione pratica è un aspetto non secondario del pensiero di Irigaray.

La figura di madre e figlia concelebranti l’eucarestia sembra avere una doppia provenienza: dall’immaginario di una paziente di Luce Irigaray, da una parte (cfr. Irigaray 1987, 35-36)[14], e dalla coppia mitologica Demetra e Core, dall’altra. Queste due divinità, madre e figlia, all’origine dei misteri eleusini, diventeranno per Irigaray la rappresentazione preferita della genealogia femminile.

 

Luce Irigaray riprende il tema nel 1982, in una serie di lezioni tenute all’Università di Rotterdam e pubblicate due anni dopo con il titolo Étique de la différence sexuelle (Etica della differenza sessuale).

Occorre forse precisare che “etica” in Irigaray ha un significato vicino alla eticità (Sittlichkeit) di Hegel, sebbene ella porti alcune correzioni alla concezione hegeliana (cfr. Irigaray 1987, 147, nota 1)[15]. Così intesa, l’etica oltrepassa la morale e comprende il diritto, le consuetudini, le leggi scritte e non scritte, la religione… In un catalogo librario Usa ho trovato il nome di Irigaray associato a quello di due esponenti del cosiddetto post-strutturalismo francese (che in passato venivano considerati, più semplicemente, strutturalisti). Un simile accostamento forse è di moda ma è fuorviante, a mio giudizio. La decostruzione delle forme culturali ricevute non è mai un fine per Irigaray. Ella è una pensatrice politica, almeno quanto lo fu Hegel nel contesto della cultura della borghesia uscita vittoriosa dalla rivoluzione del 1789. Questo parallelo non significa, sia chiaro, una vicinanza; Luce Irigaray è distante e in alcuni punti agli antipodi di Hegel.

L’esistenza di genealogie femminili costituisce per Irigaray una necessità di natura etica, nel senso indicato sopra. Questa posizione comincia a delinearsi con l’Etica della differenza sessuale.

Affinché non si ripeta il destino di Antigone, dice Irigaray con riferimento alla tragedia omonima di Sofocle, bisogna che il mondo delle donne dia vita a un suo ordine etico. Le donne, aveva detto prima, sono impedite di agire eticamente; ciò significa che sono impedite di partecipare in maniera autonoma ed efficace alla vita della polis, l’impedimento primo essendo rappresentato dalla mancanza di un linguaggio sessuato femminile.

È necessario dunque dar vita a un ordine etico fra donne, il quale avrà almeno due dimensioni, una verticale nella linea genealogica madre-figlia, e una orizzontale, quella ben nota della sorellanza (cfr. Irigaray 1984, 86-87)[16].

Sono poche righe di grande peso. Esse segnano quella che io considero la caratteristica maggiore del nostro presente rispetto al femminismo degli anni Sessanta-Settanta. Allora si concepivano e praticavano rapporti tra donne all’insegna della sorellanza. Eravamo sorelle nella lotta contro l’oppressione patriarcale. Madre e figlie sì, ma in realtà sorelle contro tutto ciò che ci nega: sono le parole con cui una grande scrittrice femminista dipinse il suo rapporto con la figlia. Non sapevamo che posto attribuire alla madre. C’è un passo di Adrienne Rich, Nato di donna, che voglio citare estesamente perché esprime bene il limite della sorellanza con la consapevolezza che potevamo averne negli anni Settanta:

 

Era troppo semplice per noi, all’inizio di questa nuova ondata di femminismo, analizzare l’oppressione delle nostre madri, capire “razionalmente” e correttamente perché le nostre madri non ci abbiano insegnato a essere amazzoni, perché ci abbiano fasciato i piedi o semplicemente abbandonate. Quell’analisi era esatta e persino radicale; eppure come tutte le analisi ristrette presupponeva che la conoscenza razionale fosse tutto. C’era e c’è, in gran parte di noi, una donna-bambina che desidera ancora le cure, la tenerezza e l’approvazione di una donna, il potere di una donna esercitato in nostra difesa […]. Quando riusciremo ad affrontare e a districare questo paradosso, questa contraddizione, a vedere fino in fondo la passione confusa di quella lontana bambina, potremo cominciare a trasformarla, e la rabbia cieca e il rancore che esplodono ripetutamente tra le donne che insieme si sforzano di costruire un movimento potranno essere trasfigurati. Prima del legame tra sorelle c’era il legame – transitorio, frammentato forse, ma fondamentale e cruciale – tra madre e figlia (Rich 1977, 227-228).

 

La verticalità, cito nuovamente da Irigaray, è una dimensione negata al divenire donna nella nostra cultura. “Il legame tra madre e figlia, figlia e madre deve spezzarsi perché la figlia divenga donna” (Irigaray 1984, 87)[17]. È questa, notoriamente, la posizione di Freud nella lezione 33 dell’Introduzione della psicoanalisi, con la quale egli assolutizza quello che noi ora sappiamo essere storicamente determinato. “La genealogia femminile – questo è il dato culturale nelle parole di Irigaray – deve essere soppressa, a vantaggio della relazione figlio-Padre, dell’idealizzazione del padre e del marito come patriarchi” (87)[18].

La mancanza di espressione simbolica della disparità tra madre e figlia è causa non solo di infelicità nel loro rapporto ma anche, come intuisce Adrienne Rich, dei conflitti più aspri fra donne. Il legame genealogico, secondo Irigaray, da una parte serve a simbolizzare quello che passa tra madre e figlia, facendoci superare il regime patriarcale dell’indifferenziazione e rivalità fra donne (cfr. Irigaray 1984, 82-84)[19]. Dall’altra, esso ci apre la dimensione di un di più di segno femminile e ci dà l’idea di un divenire donna nella fedeltà al nostro sesso.

Il tema delle genealogie femminili riguarda il nostro presente. La sua attualità è confermata da una pubblicazione di quegli anni il cui titolo, Le madri di tutte noi (1982), riprende l’appellativo dato in una sua commedia da Gertrude Stein a Susan B. Anthony, the mother of us all. Far entrare la parola “madre” nel nostro linguaggio politico, spiegano le autrici di quella pubblicazione, ha rivoluzionato i rapporti fra noi e con il mondo (cfr. Libreria delle donne di Milano 1987, 127 sgg.).

Similmente si esprime Irigaray in una conferenza del 1984, Femmes divines (Donne divine), chiamando la genealogia “la nostra incarnazione generica”, la nostra incarnazione nel genere femminile (Irigaray 1987, 84)[20]. Fra le conferenze di Irigaray, questa è la mia preferita. Ha un grande valore politico, sebbene non sia evidente a prima vista. L’autrice torna a ribadire la necessità di una dimensione verticale per la libertà femminile, dimensione rappresentata dalla relazione genealogica e, al tempo stesso, dalla relazione della donna con il divino. In seguito, in una conferenza intitolata L’universel comme médiation (L’universale come mediazione) di cui parlerò, Irigaray introduce una distinzione fra i due riferimenti, divino e genealogico, come distinzione fra gli antenati e dio: gli antenati, ella dice, manifestano una genealogia, una storia, non un infinito (Irigaray 1987, 153)[21]. Ma io penso che questa distinzione sia rispondente allo stato della cultura maschile più che alla politica delle donne.

Donne divine fu rivolto a un pubblico tutto di donne. Prendendo le mosse da L’essenza del cristianesimo di Feuerbach, l’autrice afferma che il nostro venire alla libertà e divenire nella libertà, domandano che noi immaginiamo il nostro dio: un dio “che s’incarna al femminile, attraverso la madre e la figlia, e nei loro rapporti” (Irigaray 1987, 85)[22]. Per essere libere, infatti, non basta ribellarsi all’oppressione; bisogna in più avere una meta e una o più leggi. Conclude che “un dio femminile è ancora da venire” (80)[23].

Su quest’ultimo punto, non sono d’accordo con Irigaray. Poiché c’è libertà femminile, per me vuol dire che il dio di cui ella parla è venuto. Non posso soffermarmi sui punti di mio non accordo con il pensiero di Luce Irigaray; non sono dicibili in poche parole da me che ho ricevuto nutrimento da quel pensiero. È però opportuno che io vi accenni, in quanto toccano l’argomento che sto trattando. Luce Irigaray intreccia il tema delle genealogie femminili con quello della relazione fra uomo e donna. Io riconosco e mi rallegro che l’esistenza di genealogie femminili dia luogo alla libertà anche nella relazione fra i due sessi, ma lo considero un effetto e non un fine; io dò la dignità di fine unicamente alla libertà femminile e a ciò che è indispensabile per questa.

 

Con la conferenza intitolata L’universale come mediazione del 1986, il tema delle genealogie femminili trova collocazione in una scena più vasta. Questa conferenza, che ha avuto più presentazioni a cominciare da quella fatta al XVI Internationaler Hegel-Kongress, è la maggiore per impegno filosofico e politico dell’autrice, paragonabile a un affresco medioevale della fine del mondo. Non di una fine si tratta in questo caso, ma del possibile passaggio a un nuovo mondo.

I molti contenuti che troviamo sparsi nelle altre conferenze, qui si raccolgono intorno all’idea espressa dal titolo. Oggi, dice Irigaray, si incomincia a riconoscere i limiti della nostra civiltà, dominata da problemi di accrescimento dei beni e incapace di custodire la vita, ma si stenta a operare le necessarie correzioni anche per una concezione rigida e arbitraria dell’universale. E propone in alternativa di concepire l’universale nella forma della mediazione (Irigaray 1987, 147-148)[24].

Secondo Irigaray, lo squilibrio del nostro ordine sociale viene dalla “separazione tra i generi” (149)[25], che è anche separazione storica per l’alternarsi prima di un’epoca ginecocratica e poi di un’epoca patriarcale. In tal modo, i due generi non si sono mai incontrati veramente. Ciò chiarisce il significato della mediazione, che deve aver luogo, in primis, fra i due sessi. Inoltre, questo ci avverte che ora il tema delle genealogie femminili sarà trattato in rapporto alla costituzione di un mondo etico di donne e uomini insieme, mentre prima riguardava il mondo delle donne fra loro.

L’impegno teorico e pratico di Irigaray per l’edificazione di un mondo etico di donne e uomini insieme, resterà costante. In questo contesto il nostro tema si arricchisce soprattutto dal suo combinarsi con i temi più esplorati in questi anni, che sono il diritto, il linguaggio, la religione. Quasi tutte le conferenze successive a L’universale come mediazione contengono riferimenti alle genealogie femminili, a riprova dell’importanza che Luce Irigaray continua a riconoscergli. Questa importanza viene da lei esplicitamente affermata, per esempio dicendo che “è necessario che entri nella Storia l’interpretazione dell’oblio delle genealogie femminili ed è necessario che se ne ristabilisca l’economia” (Irigaray 1989, 83)[26]. Segnalo specialmente Une chance de vivre (Una possibilità di vivere, Irigaray 1987, 205-231; 1989, 1-26)[27] e Le mystère oublié des généalogies féminines (Il mistero dimenticato delle genealogie femminili, Irigaray 1989, 67-84)[28], da cui viene la citazione appena fatta.

In quest’ultima conferenza Irigaray solleva una questione che potrebbe prestarsi a sviluppi interessanti. Perché, ella si chiede, le genealogie femminili furono distrutte? Ma risponde con una brevità sfuggente: “Per stabilire quell’ordine di cui l’uomo aveva bisogno, ma che non corrisponde ancora a quello del rispetto e della fecondità della differenza sessuale” (82, io sottolineo)[29]. Sembra che l’autrice voglia attenuare la realtà del dominio sessista ricorrendo a una razionalizzazione del passato e ad un’aspettativa per il futuro.

A questa conferenza ho già accennato: è in questo testo che Irigaray ipotizza ignoranza o inconsapevolezza del patriarcato nella cancellazione della cultura basata sulle genealogie femminili. Sempre in questa conferenza ella dice che il patriarcato “è fondato sul rapimento e sulla violenza che distrugge la verginità della fanciulla e l’uso di questa in un commercio fra uomini” (84)[30], con riferimento al mito di Core e alla teoria di Lévi-Strauss sullo scambio delle donne. Nella conferenza di Montréal, dove per la prima volta si parla di genealogie femminili, Irigaray aveva detto che il patriarcato è fondato sull’uccisione della madre per assicurare il potere del padre e del marito.

Come ho già detto, queste oscillazioni sono riconducibili secondo me a una contraddizione non risolta dalla politica delle donne e manifesta nel fatto paradossale che nella società che noi chiamiamo patriarcale i figli maschi hanno con la madre un migliore rapporto delle figlie. Il femminismo ha fornito delle spiegazioni di questo fatto, ma sono razionalizzazioni, come osserva Adrienne Rich nel passo citato sopra. In ogni caso, quel fatto resta ed è un paradosso che incrina la nostra causa alle radici. Infatti, è possibile dimostrare che una parte della virulenza (la “rabbia”) con cui le femministe attaccano il potere maschile, altro non sia che lo spostamento di una non risolta avversione nei confronti della madre, avversione che in maniera latente è sempre pronta a rivoltarsi contro di sé o altre donne, specialmente contro quelle che riproducono qualcosa della figura della madre.

Il valore politico del tema delle genealogie femminili è in rapporto a questa contraddizione e al suo superamento. Nasce la questione di capire quello che capita di questo valore passando dalla prima impostazione – dar vita a un ordine etico tra donne – alla più recente, dar vita a un ordine etico di donne e uomini insieme. Si mantiene? Si perde? Cambia?

I testi di luce Irigaray ci offrono a questo proposito una pista interessante, costituita da una serie mutevole d’interpretazioni della figura di Antigone.

Ricordo brevemente le caratteristiche di Antigone. È la protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle. Figlia di Edipo e Giocasta, dopo aver dato assistenza al padre cieco e disperato, si ribella al tiranno di Tebe, Creonte, fratello di Giocasta, il quale ha proibito di seppellire il fratello di Antigone, morto nel tentativo di togliere il potere allo zio. Antigone dà sepoltura al fratello e viene perciò condannata da Creonte a essere sepolta viva in una grotta, dove ella si toglie il poco di vita che le rimane, impiccandosi.

Inizialmente Antigone non è per Irigaray la figura eroica che è invece nella tradizione maschile. A Irigaray Antigone appare una figura ambigua, in senso letterale, cioè discorde, esposta a interpretazioni contrastanti e perciò bisognosa d’interpretazione femminile che la faccia uscire dall’imprigionamento nell’ordine simbolico degli uomini. Scrive in Etica della differenza sessuale: “Ritorno dunque al personaggio di Antigone, non per identificarmi in esso. Antigone, l’antidonna, è ancora una produzione della cultura scritta dai soli uomini”. Ma, aggiunge, bisogna farla uscire dalla notte, dall’ombra, dalla pietra (Irigaray 1984, 94)[31].

Di Antigone Irigaray aveva già scritto in Speculum, nel capitolo su Hegel. Antigone vi è presentata come donna muta, mossa ad agire dal desiderio della madre, desiderio che incarna il loro fratello-figlio morto in guerra: “Per questo la sorella si strangolerà, per salvare almeno il figlio di sua madre. Si toglierà il respiro – la parola, la voce, l’aria, il sangue, la vita – […] perché viva in eterno il fratello, il desiderio di sua madre” (Irigaray 1974, 203)[32]. Anche in Etica Antigone raffigura l’imprigionamento della donna in un ordine simbolico che non è il suo, e la paralisi in cui si trova di conseguenza il mondo delle donne. Come si ricorderà, Irigaray introduce il principio della duplice dimensione, verticale e orizzontale, dei rapporti fra donne, dicendo: “Affinché questo destino di Antigone non debba ripetersi…” (Irigaray 1984, 86)[33].

In una conferenza del 1985 a Rotterdam, Le genre féminin (Il genere femminile), Luce Irigaray risolve l’ambiguità di Antigone presentandola come la figura della donna che non dà segno di appartenere al suo sesso e alla genealogia della madre. Antigone, dice Irigaray, appartiene al mondo degli uomini, non è donna divina, non assolve il compito che le incombe in quanto “appartenente al genere femminile”. Ella è già al servizio del dio maschile, è al servizio dello Stato, assiste gli uomini nei loro conflitti per il potere; l’opposizione che la vede protagonista, è apparente (cfr. Irigaray 1987, 128-134)[34]. “Antigone è già la rappresentante, il rappresentante, dell’altro del medesimo” (129)[35], che vuol dire: figura del femminile a misura d’uomo.

Questa conferenza precede di poco e prepara in molti punti quella intitolata L’universale come mediazione (1986), ma non ne condivide la caratteristica di quadro sintetico; l’accento viene messo piuttosto sulle contraddizioni. Il suo punto positivo, che fa da perno al discorso, è il concetto di appartenenza al genere femminile. Il giudizio su Antigone, donna sola che si mobilita fino alla morte in un mondo di uomini, viene di conseguenza.

Anche da questo punto di vista, L’universale come mediazione è una svolta. Dopo questa conferenza, infatti, l’interpretazione di Antigone cambia completamente. Nel 1988, alla festa dell’Unità (il quotidiano del Partito comunista italiano), davanti a un grande pubblico di uomini e donne, Irigaray ha fatto un elogio incondizionato di Antigone. Antigone, disse, difende la convivenza civile su alcuni punti di grande valore fra cui il rispetto per l’ordine cosmico e per la genealogia materna. La sua fine tragica va imputata unicamente al tiranno che non rispetta le leggi più elementari dell’ordine sociale. Antigone, disse ancora Irigaray, ci dà un esempio degno di essere meditato ai nostri giorni, e parlò di un diritto civile (era il tema della conferenza) da ripensare “alla luce della verità di Antigone” (Irigaray 1989, 51-53)[36]. Dirà ancora Irigaray, tornando a legare il recupero di Antigone al tema delle genealogie femminili, che Antigone è la donna la cui “fede” e “fedeltà” alla genealogia materna sono punite con la morte da un tiranno per assicurarsi il potere politico (75)[37].

I miti non sono univoci, afferma Irigaray (71)[38]. D’accordo, ma fino a questo punto? A questo punto difficilmente potremmo farne uso per la conoscenza del passato, come propone Irigaray.

Consideriamo però che un così drammatico cambiamento d’interpretazione riguarda unicamente Antigone. Siamo in presenza di un caso eccezionale. Riprendo così la domanda che facevo sopra: come si ripercuote sul tema delle genealogie femminili la svolta rappresentata da L’universale come mediazione? A questa domanda ne ho affiancata una più semplice: perché nel passaggio dal primo contesto, ordine etico fra donne, al secondo, ordine etico di donne e uomini insieme, il giudizio su Antigone cambia?

L’Antigone della tragedia di Sofocle è un’eroina politica. Il cambiamento di giudizio su di lei segnala abbastanza ovviamente un cambiamento riguardante la politica.

Il cambiamento non riguarda direttamente né il tema delle genealogie femminili né la pratica politica delle relazioni tra donne, la cui validità Luce Irigaray trova il modo di ribadire, per esempio nel 1988 ragionando sulle forme linguistiche che ostacolano il significarsi del femminile per se stesso: “Altra soluzione ugualmente necessaria: ristabilire le genealogie femminili e le comunità di donne fra loro” (Irigaray 1989, 33)[39].

Antigone, d’altra parte, è l’eroina dell’azione dimostrativa e della testimonianza, che non si pone il problema dell’azione efficace. Questo è un aspetto su cui Irigaray insiste quando dice di Antigone che è la rappresentante dell’altro del medesimo, ossia la donna a misura d’uomo. La donna come l’uomo la concepisce, dice Irigaray, è priva dell’efficacia del suo essere donna, è sostanza privata di effettualità, e cita una filosofa americana che a questo proposito avrebbe parlato di “vampirismo metafisico” (Irigaray 1987, 139-140)[40]. Ad Antigone con la sua “apparente opposizione”, Irigaray oppone il genere femminile che, “secondo l’ordine del suo divenire etico, lotta con se stesso, tra luce e ombra, per divenire ciò che è individualmente e collettivamente. Questa crescita, parzialmente polemica tra coscienza e inconscio, immediatezza e mediazioni, madre e donna, deve permanere aperta ed infinita per e nel genere femminile” (139)[41].

Di questo argomento dell’efficacia o effettualità (la filosofia antica parlava di enérgeia), non troviamo più traccia nel successivo elogio di Antigone: non le viene attribuita (come invece la fedeltà alla genealogia materna) né negata. Così, tacitamente, l’azione etica si distacca dall’azione efficace.

È su questo punto, io penso, che la concezione politica di Irigaray si è modificata con il passaggio rappresentato da L’universale come mediazione. Irigaray allarga l’orizzonte e lo occupa degnamente con il suo pensiero, ma è un pensiero che per la sua efficacia deve dipendere da altro e altri. Prima, chiaramente, ella pensava non ad un’efficacia esteriore ma all’azione trasformatrice che sviluppa la sostanza vivente. Nella sostanza vivente del femminile in divenire Irigaray comprendeva, come abbiamo visto, anche la relazione madre-donna. Quella pagina de Il genere femminile è per me la più alta della filosofia politica di Irigaray.

Occorre però aggiungere che Irigaray vi parlava dell’efficacia del genere femminile non come di una realtà da lei sperimentata ma come di una realtà mancante, così come in Donne divine dice che il dio femminile deve ancora venire. La mia posizione diverge in ciò da Irigaray, come ho detto. Non devo sottovalutare questo divario, che si apre prima di quella che io chiamo una svolta nel pensiero di Irigaray, svolta che dal punto di vista di lei deve apparire meno grande che dal mio: Irigaray non lascia cadere un’efficacia sperimentata, mentre io ho sperimentato la forza modificatrice della pratica della relazione genealogica.

Queste considerazioni ci riportano alla questione più importante, che è l’enigma dell’odio e dell’ingratitudine della donna verso la madre. (Questo enigma, ricordiamo, prima di noi ha impegnato la mente di Melanie Klein.)

Il femminismo – mi riferisco alla sua tendenza principale – ha cercato di mettere questo enigma sul conto del patriarcato. A questo scopo il femminismo ha fatto una duplice operazione: un’operazione manifesta di razionalizzazione, per cui diciamo che il patriarcato ha asservito le nostre madri rendendole odiose alle figlie (noi), amanti della libertà; e un’operazione meno dichiarata ma più importante, di spostamento per cui noi rivolgiamo contro il patriarcato e contro l’uomo i sentimenti negativi originariamente rivolti contro la madre.

Luce Irigaray non segue questa strada. Come dice parlando di Antigone nel 1985 (prima della “svolta”), questa sarebbe “un’apparente opposizione” che ci distoglie dalla “possibilità di agire nell’affermazione” (Irigaray 1987, 139)[42]. Ella ci propone invece di risolvere l’enigma dell’odio e dell’ingratitudine con la pratica genealogica. La storiografia femminista è una pratica genealogica, secondo Irigaray. La sua prima proposta, si ricorderà, è di celebrare l’eucarestia con la madre. In seguito avanza l’idea delle immagini di madre e figlia insieme, da collocare nei luoghi pubblici.

Ma a un certo punto l’enigma dell’odio e dell’ingratitudine sparisce dai testi di Irigaray. Non viene più evocato. La figura genealogica preferita da Irigaray diventa la coppia Demetra-Core, che rappresenta la relazione madre-figlia con le caratteristiche dell’armonia naturale e della fecondità spirituale.

La scomparsa dai testi non vuol dire che l’enigma sia risolto. Irigaray non dice che esso sia risolto e semmai lascia intendere il contrario; semplicemente, non ne parla più. In corrispondenza a ciò, ella attenua i toni polemici verso il patriarcato. Il suo giudizio sul patriarcato non è cambiato: secondo me, lei vuole soltanto sorvolare sulla nostra follia, cioè sull’enigma dell’odio e dell’ingratitudine, che la facile rabbia femminista contro il patriarcato rischia di evocare, e sicuramente evoca all’orecchio di un’esperta psicoanalista qual è Irigaray.

La scomparsa della contraddizione che, più di ogni altra, impedisce l’azione efficace delle donne, permette a Irigaray di allargare l’orizzonte possibile della nostra politica e di immaginare una presenza femminile a livello cosmico. Questo allargamento, lei è disposta a pagarlo con una politica che prende le forme della testimonianza. Perciò modifica il suo giudizio su Antigone. Quando la politica era cambiare l’esistente per effetto del cambiamento interno della sostanza del femminile – della relazione madre-donna -, Antigone appariva fuori strada. Quando la scena si allarga per comprendere tutte le contraddizioni tranne quella che ci colpisce dall’interno, allora la politica prende i tratti dell’azione dimostrativa e della testimonianza, com’è per Antigone.

Per me il cuore della politica resta la relazione genealogica così come Irigaray ce la presenta nella pagina de Il genere femminile in cui ella parla dell’azione efficace. Io penso che noi siamo testimoni e protagoniste di un cambiamento che riguarda la relazione della donna con la figura della madre e, di conseguenza, il significato della differenza sessuale. Il nostro saper amare la madre è il fondamento della nostra libertà. Quello che a livello superficiale conosciamo come il femminismo, è la manifestazione, secondo me, di un cambiamento che si situa a livello di struttura della nostra civiltà, il livello che lo storico Braudel indica come la storia di lunga durata (Braudel 1958). Mi riferisco non al femminismo delle rivendicazioni e della parità con l’uomo, ma al movimento che ci ha portate a scegliere di stare tra donne, a regolarci di preferenza sul giudizio delle nostre simili, ad accettare l’autorità di donne, a cercare per la nostra mente il nutrimento di un pensiero femminile.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Braudel 1958: Fernand Braudel, Histoire et sciences sociales. La longue durée, in “Annales E.S.C.” 1958, n. 4, pp. 725-753.

Irigaray 1974: Luce Irigaray, Speculum. De l’autre femme, Minuit, Paris 1974; Speculum. L’altra donna, traduzione e cura di Luisa Muraro, Feltrinelli, Milano 1975.

Irigaray 1984: Luce Irigaray, Étique de la différence sexuelle, Minuit, Paris 1984; Etica della differenza sessuale, traduzione di Luisa Muraro e Antonella Leoni, Feltrinelli, Milano 1985.

Irigaray 1987: Luce Irigaray, Sexes et parentés, Minuit, Paris 1987; Sessi e genealogie, traduzione di Luisa Muraro, La Tartaruga, Milano 1989.

Irigaray 1989: Luce Irigaray, Le temps de la différence, Le livre de poche, Paris 1989; Il tempo della differenza, traduzioni di Domitilla Marchi, Luisa Muraro, Nadhira Lekehal, Editori Riuniti, Roma 1989.

Libreria delle donne 1987: Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, Torino 1987.

Muraro 1988: Luisa Muraro, Il concetto di genealogia femminile, Centro Culturale Virginia Woolf, Roma 1988.

Rich 1977: Adrienne Rich, Nato di donna, traduzione di Maria Teresa Marenco, Garzanti, Milano 1977; Of Woman Born, W.W. Norton & Co., 1976.

 

 

[1]
“Un des carrefours perdus de notre devenir femme se situe dans le brouillage ef l’effacement des relations à notre mère et dans l’obligation de nous soumettre aux lois du monde de l’entre-hommes” (Irigaray 1989, 111).

[2]              “La scolarité, le monde social de l’entre-hommes, la culture patriarcale fonctionnent pour les petites filles comme l’Hadès pour Korè-Perséphone. Les justifications données pour expliquer cet état de choses sont inexactes. Les traces de l’histoire de la relation entre Deméter et Korè-Perséphone nous en apprennent davantage” (Irigaray 1989, 122).

[3]
“[…] le mythe ne correspond pas à une histoire indépendente de l’Histoire mais il exprime celle-ci en récits imagés qui illustrent les grandes tendances d’une époque” (Irigaray 1989, 112).

[4]              “L’expression mythique de l’Histoire est plus apparentée aux traditions féminines et matrilinéaires” (Irigaray 1989, 113).

[5]              “Cette culture patriarcale a effacé – peut-être par ignorance ou inconscience – les traces d’une culture antérieure ou simultanée a elle” (Irigaray 1989, 113).

[6]              “Oreste Tue sa mère parce que l’empire du Dieu-Père et son appropriation des archaïques puissances de la terre-mère l’exigent” (Irigaray 1987, 24).

[7]              “ne pas retuer la mère qui a été immolée à l’origine de notre culture” (Irigaray 1987, 30).

[8]              “Il est urgent que nous refusions… Il est nécessaire aussi que nous… Nous avons a veiller à une autre chose…”

[9]              “Il est nécessaire, pour ne pas être complices du meurtre de la mère, que nous affirmions qu’il existe une généalogie de femmes” (Irigaray 1987, 31).

[10]           “Nous avons aussi à trouver, retrouver, inventer les mots, les phrases, qui disent le rapport le plus archaïque et le plus actuel au corps de la mère” (31).

[11]           “N’oublions pas, non plus, que nous avons déjà une histoire, que certaines femmes, même si c’était difficile culturellement, ont marqué l’histoire et que trop souvent nous ne les connaissons pas” (31).

[12]           “Una femme, célébrant l’eucharistie avec sa mère, lui donnant en partage les fruits de la terre bénis par elle(s), pourrait être délivrée de toute haine ou ingratitude vis-à-vis de sa généalogie maternelle” (33).

[13]           Irigaray 1987, 205; 1989, 27-28.

[14]           Irigaray 1987, 37-38.

[15]           Irigaray 1987, 141, n. 1.

[16]           Irigaray 1984, 106.

[17]           “Le lien mère et fille, fille et mère, doit être rompu pour que la fille devienne femme” (Irigaray 1984, 106).

[18]           “La généalogie féminine doit être supprimée au bénéfice de la relation fils-Père, de l’idealisation du père et du mari comme patriarches” (106).

[19]           Irigaray 1984, 100-102.

[20]           “notre incarnation générique” (Irigaray 1987, 83).

[21]           Irigaray 1987, 147.

[22]           “qui s’incarne au féminin, à travers la mère et la fille, et dans leurs rapports” (Irigaray 1987, 84).

[23]           “Un dieu féminin est encore à venir (79).

[24]           Irigaray 1987, 142-143.

[25]           “séparation entre les genres” (143).

[26]           “il est nécessaire de faire entrer dans l’Histoire l’interprétation de l’oubli des généalogies féminines et d’en rétablir l’économie” (Irigaray 1989, 121).

[27]           Irigaray 1987, 197-222; 1989, 19-52.

[28]           Irigaray 1989, 101-123.

[29]           “Pour établir un ordre dont l’homme avait besoin mais qui ne correspond pas encore à celui du respect et de la fecondité de la différence sexuelle” (120).

[30]           “est fondé sur le vol et le viol de la virginité de la fille et son utilisation pour un commerce entre hommes” (123).

[31]           “Je reviens donc au personnage d’Antigone, non pour m’y identifier. L’Antigone, l’antifemme, est encore una production de la culture écrite par les seuls hommes” (Irigaray 1984, 115).

[32]           “Ainsi la soeur s’étouffera pour sauver du moins le fils de sa mère. Elle se coupera le souffle – la parole, la voix, l’air, le sang, la vie – […] pour que son frère, le désir de sa mère, vive éternellement” (Irigaray 1974, 272).

[33]           “Pour que ce destin d’Antigone ne se répète pas…” (Irigaray 1984, 106).

[34]           Irigaray 1987, 125-134.

[35]           “Antigone est déjà la représentante, le représentant, de l’autre du même” (125).

[36]           “à la lumière de la vérité d’Antigone” (Irigaray 1989, 82-85).

[37]           (112).

[38]           (106).

[39]           “Autre solution également nécessaire: restituer les généalogies féminines et les communautés des femmes entre elles” (Irigaray 1989, 60).

[40]           Irigaray 1987, 134-135.

[41]           “Le genre féminin, selon l’ordre de son devenir éthique, lutte avec lui-même, entre lumière et ombre, pour devenir ce qu’il est individuellement et collectivement. Cette croissance, pour une part polémique, entre conscience et inconscience, immédiateté et médiations, mère et femme, doit demeurer ouverte et infinie pour et dans le genre féminin” (134).

[42]           “apparente opposition”, “possibilité d’agire dans l’affirmation” (134)